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Le strade di Milano

di Gian Luca Lapini

Il centro di Milano alla fine del '400 in una predella del Bergognone

 

Dai Romani all’800

Forse si può ancora parlare di città se un insediamento umano manca di fognature e di tutte le altre reti di servizi di cui stiamo trattando, ma non si può certo parlare di città senza strade: siano esse stretti e tortuosi vicoli, tracciati polverosi o fangosi, oppure ampi boulevards, ed al limite canali (come a Venezia od a Amsterdam), le strade costituiscono un elemento essenziale di definizione di un territorio che si possa definire urbano, e determinano fortemente il carattere e la vivibilità di ogni città. Non si può infatti dimenticare, anche se oggi è più difficile rendersene conto (nelle strade diventate dominio delle automobili, in transito od in sosta), che le vie e piazze cittadine sono state per secoli il luogo primario della socialità urbana. La costruzione delle strade ha poi costituito fin dall’antichità, dentro e fuori le mura cittadine, una sfida tecnica di notevole portata, sia nel disegnare tracciati regolari, sia nel costruire fondi stradali durevoli, nella quale sono state spesso profuse energie non inferiori a quelle utilizzate per costruire chiese e palazzi.

Anche nel caso della costruzione delle strade (così come per gli acquedotti e le fognature), gli antichi Romani svilupparono un sistema di costruzione estremamente evoluto, la cui perfezione rimase insuperata fino all’epoca moderna. Le vestigia delle strade di Milano dell’epoca dell’impero romano, scoperte in occasione dei numerosi lavori nel sottosuolo eseguiti tra il 1897 e 1907, attestano che le strade milanesi erano provviste di marciapiedi rialzati sotto i quali si trovavano le bocche di sfogo per le acque piovane da cui esse si scaricavano nella fogna centrale. Il pavimento era costituito da lastre di arenaria simile alla pietra di Sarnico.

Col declino dell’impero romano, la città di Milano perse il suo ruolo di centro politico ed economico dell’alta Italia; le case vennero distrutte, le mura smantellate, solo le chiese si salvarono. In questo contesto anche le strade risalenti all’epoca romana decaddero e non ricevettero alcuna cura. A tal punto che, mentre in tante città italiane di antica fondazione la rete stradale ha spesso contribuito a mantenere leggibili i tracciati urbani più remoti (si pensi per esempio, non lontano da Milano, alla regolarità squadrata del centro di Pavia), per Milano ciò non si è verificato. I tracciati del cardo e del decumano che assieme alle mura caratterizzavano la città del periodo romano repubblicano non sono più riconoscibili; gli archeologi hanno potuto comunque ricostruire che il cardo andava da Porta Ticinese (oggi Carrobbio) a Porta Nuova (oggi Piazza della Scala) e il decumano da Porta Romana (oggi inizio di Corso di Porta Romana) a Porta Vercellina (oggi Corso Magenta). (Vedi in questo sito le pagine sulla Milano romana)

Ricostruzione dei percorsi del cardo e decumano, nella Milano romana (I-V sec. D.C.)

Ricostruzione di Milano ai tempi romani (I-V sec D.C)

Una ripresa nella costruzione delle vie di comunicazione si avvertì a cominciare dal XIII secolo con la realizzazione di nuove e più resistenti strade in grado di sopportare i carichi pesanti connessi alla ripresa e diffusione del trasporto con i carri[1]: le strade medievali ebbero difatti una funzione prettamente economica, al contrario di quella prevalentemente strategico-militare delle strade romane.

Per quanto riguarda i tracciati urbani, in parte venne mantenuta una continuità con quelli romani, anche se vecchi segmenti furono abbandonati o distrutti, ma vennero anche costruite nuove strade con caratteri del tutto originali, e si affermò quella rete di strade a linea curva e tortuosa[2] caratteristica delle città poco pianificate. All’epoca dei Comuni, sia per l’adozione di una sezione stradale “a culla”, sia per il decadere della considerazione nel quale veniva tenuta la strada anche l’impiego dei marciapiedi venne meno. Inoltre strade e marciapiedi (quando esistenti) vennero considerati pertinenza degli edifici prospicienti ed in quanto tali furono valutati ed inseriti nei contratti di compravendita degli immobili. Anche la loro manutenzione veniva quasi sempre affidata agli abitanti degli edifici che vi si affacciavano.

Fra i patti imposti dall’Impero ai comuni lombardi, nel 1183, vi era l’obbligo di riparare le strade e di costruire ponti lungo il cammino che l’Imperatore avrebbe dovuto percorrere. In età comunale furono definiti precisi impegni per ciò che riguarda la manutenzione delle strade: nella maggior parte dei casi si trattava di un obbligo istituzionale per i proprietari terrieri, i quali spesso lo ignoravano, salvo in occasione di visite o passaggi di Principi o Signori, per sfuggire alle sanzioni e alle multe. In genere i comuni che godevano di pedaggi provvedevano direttamente alla manutenzione; quando invece l’introito non era appannaggio comunale, la manutenzione era a carico dei diversi beneficiari: caratteristica delle strade medievale era proprio quella di essere in parte mantenuta dal versamento dei pedaggi. Negli antichi statuti delle strade del contado di Milano, del 1346, ci sono rimasti gli elenchi delle località tenute alle contribuzioni per il mantenimento delle strade stesse. Ancora nel 1541 il testo delle nuove costituzioni stabiliva le ripartizioni delle diverse spese di manutenzione, che erano direttamente a carico o delle singole persone interessate, o della chiesa, o dei comuni, secondo il relativo interesse. L’Ufficio delle manutenzioni spettante all’inizio alla Camera dei Mercanti, passò in epoca spagnola al prefetto delle strade reali.

Bisognò comunque attendere sino ai primi del XVIII secolo, con il diffondersi dei cocchi e delle carrozze a cavalli, per notare i primi sintomi di una nuova era per la viabilità. Sotto l’impulso di esigenze di traffico in continuo aumento, sia per il numero, che per il maggiore ingombro dei veicoli, vennero stabiliti nuovi principi per la costruzione delle strade con criteri razionali ed aggiornati.

Nella Milano del ‘700 la pavimentazione delle vie maestre che univano il centro alle porte principali, e che quindi costituivano le direttrici di collegamento con paesi e città fuori dalle mura, veniva eseguita principalmente in acciottolato, mentre le strade secondarie venivano eseguite in terra battuta. Con l’introduzione dell’acciottolato si risolse il grave problema del drenaggio stradale dalle acque meteoriche e si garantì un uso più comodo dei percorsi pedonali e veicolari e una migliore presa degli zoccoli ferrati degli animali da tiro. Sul finire del secolo, nel 1788 un certo Agostino Gerli cercò di rendere più resistente e duraturo questo tipo di pavimentazione incastrando i ciottoli in un calcestruzzo di ghiaia, malta e calcinacci; anche i marciapiedi, realizzati in leggero rialzo rispetto alla strada delimitandoli con delle lastre di pietra, erano selciati con dei piccoli ciottoli. Questa strada sperimentale, con una sezione che passava da concava a convessa, dopo cinque anni era ancora in buone condizioni, ma nonostante ciò l’esperimento non ebbe seguiti significativi.

La rinnovata attenzione alle strade cittadine del secolo XVIII mi sembra trovi un significativo coronamento anche nel fatto che nel 1786 per decreto dell’imperatore Giuseppe II fu imposto di scrivere sulle cantonate delle strade il loro nome. Lo stesso decreto dava inizio alla numerazione degli edifici, anche se in modo curioso: la numerazione non era infatti per vie, ma unica, a partire dal Palazzo Reale, che aveva il n. 1 e cresceva progressivamente lungo una spirale che si svolgeva dal centro verso la periferia. Fu solo ottant’anni dopo che si passò alla più razionale numerazione per vie, con numeri pari a destra, dispari a sinistra e numeri crescenti dal centro verso la periferia.

 

Le strade e la pianificazione territoriale

Nell’800 l’attenzione dei pubblici poteri allo sviluppo stradale della città, percepito come un aspetto importante del suo complessivo sviluppo, ebbe fasi alterne. Già nei primi anni del XIX secolo era emersa a Milano la necessità di una pianificazione generale delle strade per l’aumento sia del numero dei veicoli circolanti, sia dell’intensità d’uso del tessuto edilizio storico. Un primo barlume di pianificazione si ebbe verso il 1807, col piano della Commissione d’Ornato, creata per redigere un disegno di riorganizzazione del sistema viario. Tale piano prevedeva la sovrapposizione allo schema medievale, irraggiante dal vecchio centro, di una maglia principalmente ortogonale di vie larghe e diritte. Ma il principio, affermato all’inizio del secolo, che lo sviluppo urbano dovesse essere guidato tramite progetti e regolamenti di largo respiro rimase poi in gran parte inapplicato fino quasi a fine secolo, quando fu redatto il primo vero piano regolatore, il piano Beruto.

Questo non vuol dire che la città crescesse totalmente a caso, ma per gran parte del secolo prevalsero logiche urbane, più che urbanistiche, via via dedicate a sistemare singole situazioni, con interventi a volte importanti, come la sistemazione di piazza Duomo e la costruzione della Galleria Vittorio Emanuele, ma più spesso di raggio limitato.

Se osserviamo una mappa della Milano di metà ‘800 (la città aveva allora circa 150.000 abitanti), è facile constatare, forse con un po’ di sorpresa, che la rete viaria cittadina era ancora per la gran parte concentrata nell’area delimitata dalla cerchia dei navigli (l’attuale circonvallazione interna).

La planimetria stradale di Milano in una mappa del 1844

Invece, nella fascia di territorio cittadino compresa fra i navigli e le Mura Spagnole (l’attuale circonvallazione dei Bastioni), molte delle strade oggi esistenti dovevano essere ancora costruite, e questa zona era solcata quasi solamente dai vari Corsi che dal centro si irradiavano verso le porte cittadine, e lungo i quali si addensavano le costruzioni, mentre il resto del territorio era ancora per lo più occupato da orti e giardini.

Mappa dei nuovi tracciati stradali fuori dai
Bastioni, del Piano dell’ing. Beruto (1884)Dopo il 1860 il territorio esterno alla cerchia dei navigli fu rapidamente riempito, dalla tumultuosa crescita urbana, di nuove strade e costruzioni, e solo verso il 1884 fu presentato il Piano Beruto, che rappresentò l’inizio vero e proprio di una pianificazione stradale generale a Milano[3]. Nel piano Beruto è ben delineato il tracciato delle strade nelle nuove zone di espansione della città, fuori dalle mura spagnole, e rispondendo anche alle mutate condizioni economiche e alle esigenze di decoro e rappresentanza, è anche previsto il completamento della riorganizzazione delle zone centrali comprese tra piazza della Scala, piazza del Duomo e il Castello Sforzesco, nonché l’apertura di una nuova arteria di collegamento tra il Cordusio e il Castello, la attuale via Dante (la cui costruzione fu iniziata attorno al 1886 e ultimata nel 1892). Negli stessi anni venne ricavato l’ellissoide della nuova piazza Cordusio e alcune vecchie vie medievali, quali per esempio, via degli Orefici, degli Spadari, ecc., acquisirono sagomature più regolari e dimensioni maggiori, in seguito a drastici risecamenti laterali. Fu inoltre avviata la costruzione della nuova via, chiamata fino agli anni delle due guerre col nome di Carlo Alberto (l’attuale via Mazzini), che tangenzialmente alla piazza del Duomo saldava la direzione di porta Nuova con quella di porta Romana. Lo spirito del piano era quello della continuità rispetto ai (pochi) interventi in materia di pianificazione effettuati negli anni precedenti, in quanto il Beruto riaffermava un modello di sviluppo decentrato, situando le grandi fabbriche al di fuori del perimetro della città, collegandole ad essa mediante grandi viali di separazione che ne sottolineavano il distacco con il centro abitato.

La maglia di strade ed isolati, tracciata dal Beruto fuori dal centro, si estendeva con maggiore ampiezza verso Nord e Nord – Ovest, zona che era considerata più salubre e in cui si erano concentrate le maggiori iniziative di edificazione. L’elemento più interessante del piano era costituito dalla grande dimensione degli isolati, insieme all’idea che non tutti gli isolati stessi avrebbero dovuto essere edificati. La maglia viaria, infatti, comprendeva soltanto gli assi principali, tenendo conto però il più possibile delle vie di comunicazione esistenti; le ulteriori suddivisioni sarebbero state tracciate successivamente, di volta in volta, affidandole all’iniziativa privata.

Il piano regolatore che ebbe la maggiore importanza per l’evoluzione del tessuto viario della Milano della prima parte del secolo XX fu quello affidato nel 1934 all’ingegner Albertini, in piena epoca fascista; l’idea fondamentale del piano era quella di rinsaldare la connessione tra i vari quartieri cittadini e i nuovi poli di sviluppo, a volte utilizzando e trasformando l’esistente, a volte stravolgendolo completamente. L’intenzione di Albertini era quella di dare al centro di Milano una funzione prevalentemente direzionale e decentrare la popolazione verso le zone meno popolate del territorio municipale. La città veniva quindi distinta in un nucleo centrale, destinato a funzioni direzionali, quindi capace di pagare alti prezzi per i terreni e gli edifici, ed una larga fascia periferica, che raggiungeva quasi i confini comunali, ad accogliere i ceti meno abbienti e popolari, concepita come un’enorme superficie per lottizzazioni.

La sezione ideale delle nuove arterie che facevano parte del piano si estendeva per circa 30 metri, con un doppio binario tranviario al centro, una zona di sosta riservata ai veicoli per ciascun lato, e infine due marciapiedi per il transito pedonale. Una viabilità così concepita accoglieva e smistava in modo efficiente il traffico, collegando tra loro i punti d’arrivo delle grandi strade esterne mediante la formazione di una più ampia circonvallazione, che dopo quelle dei Navigli, dei Bastioni, la circonvallazione del Piano Beruto e quella ferroviaria, era la quinta arteria di traffico che cingeva la città.

Nel quadro del riordino e del potenziamento della viabilità urbana periferica, la prima metà degli anni trenta vide anche concentrarsi gli sforzi nel potenziamento di quelle arterie cui il piano Albertini affidava il compito di realizzare scorrevoli anelli di transito nella zona compresa tra la prima circonvallazione e la prevista tangenziale esterna. Ma già nel 1931 era stato realizzato il prolungamento del corso XXII Marzo e di viale Corsica, con il nuovo rettifilo destinato a collegare la città all’Idroscalo e all’aeroporto di Linate e nel 1932 vi fu l’apertura di nuove strade nei quartieri prospicienti la stazione ferroviaria di Lambrate; sempre nello stesso anno si aprì la breccia di via Nino Bixio e si procedette alla demolizione dei sovrappassi ferroviari delle vie Lazzaretto, Buenos Aires, Settala, Lecco, Maiocchi, Spallanzani, sui quali transitavano i treni diretti alla vecchia stazione centrale. In questo complesso di lavori, tutti legati allo spostamento della Stazione Centrale, si inserì l’apertura della nuova arteria (l’odierno viale Tunisia) che, partendo dal piazzale Fiume e con una larghezza di 25 m, procedeva sino all’incrocio con la via Spallanzani per allungarsi poi, con larghezza 36 m, fino al piazzale Susa. Questi lavori furono completati fra il 1933 e il 1934, mentre molto più tempo richiesero i lavori di attuazione del grande anello di circonvallazione costituito dagli ampi viali che presero i nomi delle regioni: i due fondamentali lavori di completamento, infatti, – il cavalcavia di S. Cristoforo all’incontro col Naviglio Grande ed il cavalcavia della Ghisolfa – furono terminati rispettivamente solo nel 1938 e nel 1941.

Dopo la fine della seconda guerra mondiale il Piano di Ricostruzione non fece altro che rafforzare la funzione terziaria del centro, specie nella zona tra la Stazione Centrale e Garibaldi, riservando minore attenzione ai problemi che erano connessi alla continua espansione della città verso la periferia.

 

Evoluzione delle tecniche di costruzione delle strade

Per quanto riguarda la tecnica di costruzione delle strade, per quasi tutto il secolo XIX i materiali più utilizzati per la realizzazione dei fondi stradali milanesi furono i listoni di granito e l’acciottolato. Si mantenne così una pratica già introdotta nel ‘700, e perfezionata secondo un modello che era stato adottato per la realizzazione nel 1807 della via di San Giovanni alle Case Rotte, che conduceva al Teatro alla Scala. L’anno dopo, dalla Villa Reale di Monza, il principe Eugenio di Beauharnais, in nome di Napoleone, aveva decretato che le vie della città fossero tutte pavimentate, con ciottoli quelle secondarie, con selciato quelle principali. La sezione stradale inoltre doveva avere una cunetta centrale (la sezione stradale era quindi concava) e pozzi perdenti per il deflusso e lo smaltimento delle acque piovane, e marciapiedi di granito a livello del piano carreggiabile. Tale tipo di marciapiede presentava dei vantaggi, sia per la comodità del pedone che per lo scambio dei carri nelle strade più strette.

Un breve scritto del noto scrittore francese Stendhal (pseudonimo di Henry Beyle, che visse a lungo a Milano, risiedendovi con continuità dal 1814 al 1821), descrive bene questa tecnica di costruzione:

"A Milano per fare una strada si comincia con lo scavare al centro un canale profondo quattro piedi nel quale sboccano tutti i tubi che dall’alto dei tetti portano alla strada acqua piovana …. Si pavimenta poi la strada con quattro strisce di granito e tre di ciottoli in questa maniera:

GG●●●RR●●●RR●●●GG

Abbiamo così due marciapiedi di granito GG, larghi 3 piedi, lungo le case; due strisce di granito RR disposte in modo che le ruote delle carrozze non abbiano sgradevoli sobbalzi. Il resto della strada è pavimentato con piccoli ciottoli appuntiti. Poiché le carrozze non si scostano mai dalle due strisce di granito RR e i pedoni restano sempre sui marciapiedi GG, gli incidenti sono rarissimi. E poiché l’architettura prevede cornicioni sporgenti e balconi a quasi tutti i piani, se si sceglie il lato da cui viene il vento e si seguono i marciapiedi GG si è al riparo dalla pioggia …. Ecco perché le strade di Milano sono le più comode del mondo e sono prive di fango."

Per i percorsi pedonali si faceva principalmente ricorso al lastricato, con fasce in acciottolato per creare motivi figurativi di un certo pregio, rendendo in ogni caso sicura e comoda la percorribilità ai pedoni.
L’acciottolato della sede stradale (ne rimangono ormai pochi esempi in città, attorno a qualche edificio storico, come la chiesa di san Marco o il Palazzo Reale), veniva interrotto e ripartito da listoni di pietra, larghi in genere 60 cm, (di solito di granito, ma anche di arenaria silicea, calcari compatti, ecc.…) in modo da creare guide (o guidone, o trottatoi) che servivano sia per attenuare l’usura del manto, sia per smorzarne la sonorità quando veniva percorso da ruote ferrate.

Alcuni esempi di tratto stradale in acciottolato e di listoni in granito, o trottatoi

Fiori 1
Vicolo Fiori 1

Fiori 2
Vicolo Fiori 2

san Marco 1
Piazza S.Marco 1

san Marco 2
Piazza S.Marco 2

san Marco 3
Piazza S.Marco 3

san Marco 4
Piazza S.Marco 4

Corso Vittorio Emanuele verso il 1865: doppi trottatoi e marciapiedi in granitoSi venivano dunque a creare aree con rivestimenti destinati a diversi impieghi dello stesso percorso: le ruote dei veicoli scorrevano sulle resistenti e uniformi superfici dei lastroni di pietra, mentre l’acciottolato nel mezzo, con la sua rugosità, offriva l’opportuna presa agli zoccoli ferrati degli animali da tiro. Le guide erano disposte nella sede centrale in una singola o doppia corsia, in base all’importanza del percorso, ossia a secondo che fosse previsto un senso unico o un doppio senso di marcia

Ancora nel 1840, come testimonia il manuale dell’ingegnere civile di quell’anno:

"le strade hanno forma di una culla colla concavità nel mezzo oppure di doppia culla quando lo permette l’ampiezza, con colmo ad arco nel mezzo, e due ali laterali pendenti verso di essa; e costano di tre parti diverse fra loro nel modo di costruire:

      marciapiedi aderenti alle case costruiti in granito
      ali e colmo in selciato
      trottatoi o guide nel mezzo, consistenti in due zone parallele pure di granito che racchiudono una lista ancora di selciato."[4]

La più tipica sezione stradale in uso a Milano nell’800

La durata media di queste strade, con le regolari opere di manutenzione, era di circa cinque anni per il selciato, dieci per i trottatoi e venti per i marciapiedi. La precisione degli allineamenti delle lastre di granito, l‘ampiezza dei marciapiedi larghi da 1 a 4 m, i canali che raccoglievano l’acqua dei lati e la rimettevano nel condotto che scorreva in mezzo ed infine la pulizia con cui erano tenute queste strade ne fecero un modello da imitare in tutta Europa, almeno sino al 1840. Da quest’anno in poi lo stato delle strade milanesi andò continuamente peggiorando in rapporto diretto con la crescita del traffico, con l’aumentato numero ed estensione dei servizi pubblici che interessavano il suolo e il sottosuolo stradale e per il fatto che non si pensava agli ingenti oneri che tutto ciò avrebbe portato. Non fu difatti possibile contrapporre a tutta questa crescita un aumento proporzionale degli stanziamenti per le opere di mantenimento, anzi si verificò il contrario[5]. Tutto ciò mise in piena evidenza la deficienza di tali tipi di pavimentazione, creando la necessità di strade aventi particolari requisiti, con la sovrastruttura costituita da nuovi materiali antipolvere e antifango e che facilitasse il transito.

Il sistema di pavimentazione usato fino allora cominciava ad essere meno adatto ai nuovi tempi: le tubazioni del gas avevano incominciato ad invadere il sottosuolo stradale e andava sempre più estendendosi l’uso di scaricare le acque interne delle case, che prima si disperdevano nel sottosuolo, nei condotti stradali, e ciò diveniva causa di nuove manomissioni.
Alla fine del 1851, a seguito di un’indagine sullo stato dei selciati e sulla fangosità delle strade, il capo dell’ufficio degli ingegneri, ritenuti responsabili dell’andamento della situazione, Ing. Valsuani, affermava:

"... le selciature nuove in falde parziali non possono mantenersi lungamente all’identico piano delle vecchie adiacenti per effetto del natural costipamento del piano d’appoggio, e che a rendere più frequente questo difetto concorre assai la canalizzazione del Gas, cosicché la città di Milano deve cedere parte del vanto di cui godeva a riguardo dello stato delle proprie strade, al benefizio di questo nuovo sistema di illuminazione e temperarne soltanto il difetto col procurare che le canalizzazioni e la presa delle fughe sia fatta soltanto coll’opera dell’appaltatore della strada che per l’uno e per l’altro titolo deve manomettersi."

A partire dalla metà dell’Ottocento, oltre all’acciottolato fu anche utilizzato un tipo di massicciata in pietrisco compresso, il macadam[6], che si era largamente diffuso nelle strade, urbane ed extra-urbane, un po’ di tutti i paesi europei; esso aveva preso il nome dallo scozzese John Loudon McAdam, direttore delle strade della Scozia e della città di Bristol, che verso il 1820 sviluppò un metodo costruttivo definito per quel periodo all’avanguardia, e il cui utilizzo rimase a lungo in auge, fino alla introduzione delle strade asfaltate che posero rimedio al principale inconveniente di questo sistema, la gran quantità di polvere che produceva.

Con l’aumento della rete viaria e del traffico, nelle principali strade l’acciottolato mal resisteva al crescente passaggio di veicoli, ed i trottatoi richiedevano troppo frequenti spianamenti e ricambi, con grande disturbo della cittadinanza; col passare degli anni si cominciarono perciò a studiare nuovi sistemi di pavimentazione, naturalmente prendendo spunto anche da quanto veniva fatto all’estero.

Nel 1866, in seguito all’apertura al pubblico della prima Stazione Centrale, per provvedere ad una rapida comunicazione fra questa e l’interno della città venne aperta la via Principe Umberto (l’attuale via Turati). La nuova strada fu costruita con carreggiata convessa, col fondo in ghiaia dell’Adda, compressa mediante un rullo di granito, e marciapiedi rialzati realizzati in granito. In seguito però delle lagnanze dei milanesi per la polvere e il fango, dovuti a questo tipo di pavimento, nel 1870 venne ripristinata la solita pavimentazione in acciottolato e trottatoi, sopprimendo anche il rialzo dei marciapiedi, ma la sezione stradale convessa e la presenza dei marciapiedi rialzati sarebbero col tempo divenuti comuni.

Con il pesante incremento del traffico, avutosi durante questi anni, e a causa delle continue manomissioni, causate dalla presenza delle tubazioni del gas, nel 1873 l’Ufficio Tecnico Comunale ammetteva:

"siccome poi è dimostrato che i selciati, sieno pure eseguiti a regola d’arte, male resistono all’incessante carreggio, ma d’altra parte si prestano alle frequenti manomissioni e ripristini estranei alle manutenzioni, così sarà opportuno a poco a poco diminuirne la superficie. A questo scopo varrà efficacemente la adozione del doppio binario nelle corsie e corsi di primo ordine, e la sostituzione delle lastre di 0,75 a quelle di 0,60 riconosciute già da tempo insufficienti”.

Questo sistema di pavimentazione, proposto dall’Ufficio Tecnico, fu ben presto reso inapplicabile dalle necessità legate alla introduzione dei tram a cavalli, avvenuta nel 1881, che spinse verso nuovi studi e metodi di pavimentazione stradale.
Nel 1885 l’Ing. Enrico Brotti, dell’Ufficio Tecnico di Milano, riprese la costruzione dei marciapiedi rialzati nelle strade più larghe, come i viali della Circonvallazione ed il Corso Loreto. Il rialzo era una conseguenza della sostituzione che si andava facendo dell’asfalto alla pietra nella pavimentazione del marciapiede, con notevole risparmio di spesa e garanzia di maggior durata (
vedi approfondimento). Tale sistema poteva essere adottato solo per strade larghe; nelle altre occorreva ricorrere al granito, molto più costoso.

Anche i profili della parte di strada destinata al carreggio subirono sensibili modifiche rese necessarie dall’estensione della rete tranviaria; in genere essi risentivano ancora troppo del vecchio sistema, risultando divisi in una seria di falde e colmetti, che richiedevano un grande numero di bocchette di scarico delle acque rendendo complicato, costoso e poco efficiente lo scolo.

Le conseguenze delle inevitabili deformazioni prodotte dall’uso e dalle stesse opere di mantenimento venivano rese anche più gravi a causa di un tale frazionamento di livelli nella sezione stradale, cosicché in breve si perdeva la forma prestabilita per la sezione trasversale; le numerose bocchette di scarico aperte nelle cunette della carreggiata, presentavano inoltre un facile accesso al fango ed ai rifiuti, cosicché esse ed i condotti sottostanti non tardavano ad otturarsi. I condotti erano poi conformati in modo tale che il loro spurgo richiedeva la manomissione della strada, contribuendo al suo deperimento.

L’opportunità di studiare altre forme di strada era ben presente agli ingegneri addetti alle costruzioni stradali e la Giunta comunale, dopo aver osservato che i diversi sistemi di pavimentazione (all’infuori del selciato di ciottoli e trottatoi) non avevano dato affidamento, arrivò alla conclusione di adottare un sistema di costruzione con profili diversi da quelli sino allora utilizzati. Questo nuovo sistema, da adottarsi solo per strade di primissimo ordine e di nuova costruzione, avrebbe dovuto comprendere non solo i condotti delle fognature, ma anche un cunicolo stabile per le conduttura dell’acqua, i fili elettrici e le tubazione del gas. Così nel 1888, presentando al Consiglio Comunale il progetto di fognatura per il nuovo corso dal Cordusio al Foro Bonaparte (ora via Dante) la Giunta chiedeva l’approvazione della proposta di costruire sotto la strada e lungo le fronti dei fabbricati due corridoi atti a ricevere tutte le condotte dei servizi pubblici (vedi fognature).

Tuttavia le difficoltà per costruire questa intercapedine in corrispondenza ai tronchi di strada non ancora fabbricati (con le successive costruzioni di fabbricati si sarebbe messo in pericolo la sua stabilità), obbligavano a protrarne il compimento finché non fossero eseguiti le fondazioni dei muri frontali di ogni edificio. Terminata poi l’intercapedine, c’era chi obbiettava a posarvi la condotta dell’acqua potabile perché si temeva che d’estate si riscaldasse, e chi non voleva neppure posarvi le condotte del gas, perché si temeva un loro scoppio. Le uniche condotte, posizionate nei due corridoi laterali, sarebbero state alla fine solo quelle dell’energia elettrica per l’illuminazione e del telefono. Considerando tutti gli aspetti precedentemente citati, si giunse pertanto alla conclusione che queste gallerie sotterranee per la collocazione dei servizi pubblici, proposte negli anni precedenti come il rimedio alla malattia di cui soffrivano le strade delle grandi città, non erano, di fatto, così vantaggiose, anche a causa del loro elevato costo.

Così, di fatto, la costruzione di queste sottovie fu rara; in effetti, la loro realizzazione era difficile nelle strade nuove, difficilissima in quelle vecchie. Nessuno poteva allora immaginarsi l’estensione ed il numero delle reti di distribuzione che sarebbero state in seguito collocate nel sottosuolo!
Si affermò quindi la convinzione che il posto migliore ove collocare servizi sotterranei era il sottosuolo del marciapiede. Solo nelle strade strette e quando il numero delle condotte richiedeva uno spazio superiore a quello delimitato dai marciapiedi, bisognava rassegnarsi ad occupare la zona della carreggiata ed in questo caso poteva essere conveniente una sottovia, se l’occupazione era molto estesa.

Intorno al 1890, in buona parte in seguito agli estesi lavori di fognatura del piano elaborato, come si già altrove detto (vedi fognature), dall’ing. Poggi, anche a Milano si cominciò ad adottare come tipo di sezione stradale quella a carreggiata convessa ed a marciapiedi rialzati, già da lungo tempo adottata in tutte le città che avevano rifatto le loro pavimentazioni stradali, come quelle della Toscana, del Lazio e della Campania. La trasformazione della carreggiata da concava in convessa, fu dapprima limitata alle strade più larghe, e venne poi man mano estesa alle minori, non appena fu possibile mantenere fra gli orli dei marciapiedi lo spazio necessario allo scambio di due veicoli.

Corso Loreto (corso Buenos Aires) prima del 1897La forma convessa aveva molti vantaggi rispetto alla concava, prima di tutto perché essendo più facile lo scolo delle acque, la strada si manteneva più asciutta e in migliori condizioni di resistenza. Le acque piovane, divise in due rigagnoli, venivano più facilmente smaltite, e siccome ai rigagnoli lungo i marciapiedi si potevano dare pendenze più forti senza rendere scomodo il carreggio (cosa impossibile e pericolosa nel caso della cunetta centrale), si potevano tenere più lontane le bocchette di scarico ed ottenere un corrispondente risparmio di spesa.
Anche l’incrocio delle vetture su questo tipo di strada avveniva più facilmente, perché la deviazione dal centro della strada non richiedeva speciale sforzo da parte dei cavalli, in quanto era aiutata dalla gravità, mentre nel caso delle strade concave, l’allontanarsi dall’asse stradale richiedeva un aumento dello sforzo di trazione.

Peraltro l’introduzione di questa nuova sezione, con marciapiedi rialzati, fu inizialmente oggetto di critiche e di lamentele da parte dei cittadini che si trovarono a disagio a scendere e a salire un gradino ad ogni attraversamento di strada essendo abituati a camminare in piano. Gradualmente però, sia perché nelle successive sistemazioni si ebbe riguardo a limitare l’altezza del gradino in corrispondenza degli imbocchi delle vie laterali, sia perché la cittadinanza si andava abituando allo stato di cose, furono gli stessi cittadini a richiedere la costruzione dei marciapiedi rialzati là dove mancavano.

Un esempio della semplicità della nuova sistemazione di una grande strada rispetto al precedente sistema a forma concava si può trovare mettendo a confronto i rilievi delle sistemazioni stradali di Corso Loreto (poi corso Buenos Aires), eseguiti prima e dopo il 1897, anno in cui per far spazio al nuovo armamento delle tramvie il corso venne risistemato dal piazzale di Porta Venezia sino al cavalcavia ferroviario[7].

Vecchia sezione stradale del corso Loreto (corso Buenos Aires), prima del 1897

Nuova sezione stradale del corso Loreto (corso Buenos Aires), dopo il 1897

Sulle immagini qui riportate, in alto si vede la configurazione originaria, con i due marciapiedi leggermente rialzati, parallelamente ai quali correva una cunetta convessa con bocchette di scolo aperte non sotto il marciapiede, ma sotto la cunetta stessa. Come si nota, la carreggiata era ripartita in sei falde, richiedendo altre due file di bocchette. C’erano anche delle piante, che essendo collocate nella parte stradale, erano esposte all’urto dei veicoli, mentre non era possibile mantenere intorno ad esse una zona in terriccio nella quale sarebbero affondate le ruote dei veicoli stessi.
Più in basso si può osservare come i marciapiedi furono allargati così da poter accogliere in modo sicuro anche la fila delle piante, e come due soli ordini di bocchette di scarico erano sufficienti per una strada disposta in due soli pioventi.

La zona destinata al carreggio era comunque più stretta che nel primo caso: ciò consentì un risparmio nella spesa d’impianto, e nelle spese di manutenzione future, risparmio che divenne ancora più cospicuo perché il marciapiede, riparato dal carreggio, poté essere pavimentato con un materiale meno resistente e quindi meno costoso, di quello richiesto per la carreggiata. Anche a Milano infatti, iniziò l’uso, per i pavimenti dei marciapiedi, dell’asfalto colato (vedi approfondimento), con il quale si otteneva oltre che un piano ben livellato, impermeabile all’umidità, di lunga durata, di facile e pronta ricostruzione, un risparmio grandissimo nelle spese di costruzione rispetto al costo dei marciapiedi in granito.

Inoltre sotto il marciapiede rialzato potevano essere alloggiate le condotte del gas e dell’acqua potabile, quelle dei telefoni (a partire dal 1896), della distribuzione dell’energia elettrica (alta e bassa tensione), in modo che le operazioni relative alla collocazione di queste condotte e alle eventuali riparazioni potevano essere fatte senza manomettere e recare disturbo alla strada destinata ai veicoli. Come si è accennato, la cunetta di scolo delle acque piovane era lungo l’orlo del marciapiede rialzato, sotto il cui piano erano collocati i pozzetti di scarico della fognatura coperti da chiusini relativamente leggeri ed economici, che potevano anch’essi essere ripuliti senza infastidire il passo dei veicoli.

La tendenza seguita a Milano fu quella di lasciare la massima larghezza possibile ai marciapiedi mentre per la carreggiata si tendeva a lasciare solo lo spazio minimo necessario al traffico; anzi in certi casi come Corso Vittorio Emanuele, strada molto frequentata e a ristretta larghezza, la carreggiata era stata a tal punto ridotta, pur di ottenere dei marciapiedi abbastanza larghi per un sicuro passaggio dei pedoni, da comportare un sacrificio alla circolazione dei veicoli[8]. Secondo le regole seguite in Germania, specialmente a Berlino e a Dresda, 3/5 della larghezza stradale andavano riservati alla carreggiata ed 1/5 a ciascuno ai due marciapiedi; a Milano tale regola risultava poco applicabile, soprattutto là dove si aveva una strada molto larga che avrebbe richiesto un colmo centrale molto elevato, di aspetto sgradevole e di difficile attraversamento.

Così le strade milanesi più ampie vennero divise in due o più carreggiate separate tra loro da aiuole piantumate destinate al passeggio, a cavalcatoio o a speciale sede tranviaria.
Questo tipo di sezione assicurava un pronto scolo delle acque superficiali, evitava di realizzare falde troppo grandi, riduceva al minimo le spese di pavimentazione e di mantenimento. La porzione di carreggiata rialzata tra la strada centrale e quelle laterali si prestava alla collocazione dei candelabri per l’illuminazione, dei pali telegrafici, telefonici e tranviari, preservandoli dall’urto dei veicoli; venne adottata anche per le strade a grande traffico e di larghezze maggiori, come il Corso Sempione il quale per un lungo tratto raggiungeva la larghezza di 100 m.

Sempre allo scopo di evitare le falde troppo grandi e i conseguenti forti dislivelli che si sarebbero verificati agli incroci delle strade più ampie, e per rendere possibile in quei punti la collocazione di numerose bocchette di scolo, si introdusse anche a Milano il sistema dei refuges , o salvagente, cioè dei piani rialzati destinati a delimitare lo spazio della strada percorsa dai veicoli. I salvagente, che in base alle loro dimensioni venivano a volte anche piantumati, costituivano una sicurezza per i pedoni e offrivano un posto ideale per le edicole e i vespasiani, per le cassette postali e altri accessori dei servizi stradali.

Il continuo incremento della circolazione stradale sia in quantità che in qualità portò ad un considerevole aumento degli esperimenti relativi ai sistemi di pavimentazione stradale, promossi dagli ingegneri dell’Ufficio Tecnico del Comune di Milano, nel tentativo di trovare quello che rispondesse in modo ottimale al rapporto qualità – prezzo e che assicurasse un transito confortevole ai nuovi veicoli e ai viaggiatori.[9]

Negli anni di fine ‘800 le pavimentazioni delle strade milanesi si differenziarono molto a seconda delle diverse zone. Le grandi strade dei nuovi quartieri per mancanza di fondi furono spesso realizzate in macadam, limitando i lastricati in granito ai soli incroci. Il macadam era abbastanza economico da realizzare, ma richiedeva un’assidua manutenzione ed un continuo innaffiamento, che nelle zone a maggior traffico veniva eseguito di notte in modo che la strada conservasse un buona umidità nel corso della giornata.

Annaffiatura di strade in macadam, per il controllo della polvere (verso il 1920)

Ovviamente se il traffico era molto intenso anche una buona innaffiatura durava poco; il macadam fu così gradualmente abbandonato, a partire dalle zone più centrali. Anche per l’acciottolato, presente ancora in numerose strade, con l’aumentare del traffico cominciò a esser chiara la regola che tanto meno una pavimentazione stradale costa in realizzazione, tanto più costa in manutenzione. In particolare per l’acciottolato si aggiungeva la difficoltà di eseguire una buona lavatura alla lancia d’acqua (che tendeva a scalzare la sabbia fra i ciottoli) con il conseguente, progressivo accumularsi di ogni genere di sporcizia. Nel 1893, l’ing. Conti, di Vicenza, si offrì per realizzare sul piazzale di Porta Vittoria un esperimento con il ciottolato doppio[10], sistema che risultò conveniente solo nel caso di strade con traffico non troppo pesante (non è difficile immaginare che le ruote dei carri pesanti portassero alla lunga ad uno sgretolamento dei ciottoli) o per sistemazioni provvisorie.

Nel 1896 fu realizzata la prima pavimentazione completa in granito, a Porta Garibaldi, dove era necessario disporre di un sistema durevole, anche per la presenza delle tranvie. Questa tecnica fu molto usata, negli anni successivi, per esempio in Corso Vittorio Emanuele, e nelle vie Carlo Alberto e Santa Margherita. Oltre alle vie sopra menzionate tale tipo di lastricato a corsi inclinati rispetto all’asse stradale era già stato sperimentato in via Broletto nel 1892; il tronco di tale strada pavimentata con il granito si è conservato in ottimo stato per molti decenni.

Strada lastricata a corsi inclinati di granito, con inserimento dei binari del tram (tecnica adottata verso fine ‘800)

Questa disposizione delle lastre si era dimostrata la più adatta ad evitare che le ruote ferrate dei carri e delle carrozze percorressero le direzioni dei giunti (o fughe) che, in ogni caso, rappresentavano le parti più deboli ed esposte del manto stradale. Rispetto all’asse stradale le inclinazione più utilizzate erano quelle a 45° o 27°. In questo ultimo caso l’inclinazione corrispondeva al minore degli angoli di un triangolo rettangolo con i cateti nel rapporto 1 a 2. Con tale inclinazione gli spigoli delle lastre in corrispondenza delle connessioni erano meglio risparmiati dal transito.

Infine val la pena di citare che già nel 1866, era stato fatto un esperimento su un breve tratto della via Castelfidardo (30 m di lunghezza per 9 di larghezza) che fu pavimentato tramite uno strato di asfalto spesso 3 cm, colato sopra una fondazione di ciottoli. I risultati di questa sperimentazione furono solo parzialmente positivi, ma la data è ugualmente importante perché segna l’inizio dell’utilizzo a Milano del materiale che col tempo sarebbe diventato il materiale principe nella costruzione delle strade e quasi il sinonimo di strada moderna. (Vedi approfondimento)

 

Lo sviluppo delle tecniche di costruzione stradali nel ‘900

Strada lastricata con cubetti di porfido (tecnica adottata verso fine ‘800)All’inizio del ‘900, dopo i numerosi esperimenti eseguiti nel secolo precedente, la situazione delle strade di Milano risultava eterogenea e piuttosto variabile a seconda delle condizioni tecniche ed economiche e della posizione delle vie all’interno della città.
Le strade al di fuori del Piano Regolatore, cioè la parte rurale del Comune, erano sterrate, e necessitavano quindi di una assidua manutenzione ordinaria, e di interventi onerosi quando la massicciata stradale doveva essere rifatta completamente. Questo tipo di pavimentazione comportava delle continue lamentele da parte dei cittadini e, soprattutto per i tronchi di strada fiancheggiati dai fabbricati, veniva insistentemente richiesta una pavimentazione più stabile (per esempio in asfalto).

Le strade percorse da un esiguo numero di veicoli, specie quelle più strette e meno frequentate del centro, potevano essere pavimentate in porfido o con la vecchia tecnica dell’ acciottolato, con trottatoi di granito sul colmo. Per quanto riguarda il porfido, il suo impiego maggiore si ebbe nei primi trent’anni del XX secolo, anche se era già stato adottato dal 1880, grazie all’abbondanza di materiale derivante dall’attivazione di cave grandi e moderne. A Milano veniva principalmente utilizzato il porfido in cubetti, posati su sabbia, e disposti in modo da realizzare semicirconferenze contigue ed impostate sulla mezzeria delle semicirconferenze già disposte.

Tale sistemazione verrà poi sostituita nel giro di pochi anni da una pavimentazione più economica costituita da piccole lastre in pietra posate su sabbia, poiché adottando questa sistemazione il fondo risultava più resistente e si disgregava meno facilmente del precedente.

Ai primi del ‘900 venne eseguito nella centralissima via Tommaso Marino il primo esperimento del sistema di pavimentazione con asfalto compresso (vedi approfondimento), già accolto favorevolmente nelle grandi città europee e americane[11]. Una prova, anche se con polvere asfaltica precedentemente compressa con torchio idraulico, e foggiato a mattonelle, era già stata fatta nel 1892, pavimentando il porticato del teatro alla Scala. Verso il 1907 la tecnica si era ormai affermata, almeno per quanto riguarda i marciapiedi. In quell’anno vi furono, in tutta Italia, isolati esperimenti di cilindratura con compressori a vapore (comunemente chiamati “schiacciasassi”), derivati dai primissimi esemplari realizzati in Inghilterra già nel 1867. Tale sistema, utilizzato inizialmente per strade ad alto scorrimento, a Milano fu principalmente adottato per l’estesissima rete di strade in macadam.

Con l’avvento delle automobili (la fondazione della Fiat avvenne nel 1899, la Ford cominciò a produrre il famoso modello T nel 1908) e della loro esigenze di velocità, la tecnologia di costruzione delle strade ricevette nuovi e pressanti stimoli. Le semplici massicciate di pietrisco e ghiaia (macadam), si rivelarono inadeguate, come resistenza e come “pulizia”, alla crescente velocità ed intensità del traffico su gomma. Così, soprattutto dopo la fine della prima guerra mondiale, ebbe inizio un nuovo periodo di prove e sperimentazioni, che a Milano trovò un suo luogo istituzionale nell’Istituto Sperimentale Stradale, fondato nel 1921 con l’apporto del Comune, della Provincia e di privati, che ebbe sede in via Mangiagalli. In quegli anni furono introdotte, nella tecnica stradale, vari tipi di emulsioni oleose e catrami (sostituiti progressivamente attorno al 1930-32 dal bitume) che rendevano possibile la circolazione dei mezzi su superfici lisce e antipolvere. Nel 1922, il rapporto tra le superfici stradali realizzate con il tradizionale rivestimento in acciottolato e le nuove pavimentazioni permanenti, raggiungeva appena il 16,8%, mentre nel 1930 esso era già arrivato quasi al 50% nella zona urbana.

Mappa delle strade asfaltate a Milano nel 1925

In quegli stessi anni furono perfezionate le macchine per la compressione che divennero più veloci ed in grado di invertire rapidamente il senso di marcia, in modo da migliorare notevolmente la produttività oraria del lavoro da esse svolto.

Compressore stradale (fine anni ’20)

Attorno al 1926, in effetti, era entrata in esecuzione una larga riforma dell’intera rete stradale urbana, rimasta pressoché inalterata sino ad allora per sezione e pavimentazione rispetto alle timide innovazioni dell’ultimo scorcio di secolo.

In sostanza, a Milano, nei primi trent’anni del XX secolo, per le pavimentazioni dei marciapiedi, si fece largo uso dell’asfalto colato, mentre per il manto delle carreggiate stradali fu massiccio l’impiego dell’asfalto compresso. Lo dimostrano, per esempio, le sistemazioni, di due dei tronchi stradali più importanti a Milano, Viale Monza e Corso Buenos Aires, realizzate verso il 1926. Il tronco di Viale Monza comprendeva quasi tutta la strada che si trovava all’interno del Comune di Milano in seguito all’annessione dell’ex Comune di Greco Milanese. La pavimentazione in asfalto compresso si snodava su due carreggiate della larghezza media di 6,6 metri l’una. I marciapiedi laterali rialzati, della larghezza di 4,5 metri erano in asfalto colato; il marcia-tram centrale, anch’esso rialzato della larghezza di 7 metri, era sistemato con un pietrisco minuto e catramato, in modo da evitare il sollevamento della polvere al passaggio dei treni.

Nel corso dello stesso anno si diede il via alla pavimentazione in asfalto compresso del tronco di Corso Buenos Aires da Via Plinio a Via Palestrina, che era ancora sistemato a ciottoli e trottatoi. La limitata larghezza della sede stradale non consentì di ricavare una sede rialzata a marcia-tram, ed ne fu perciò impiegato uno a raso, limitato da cordonetti laterali posati in calcestruzzo a 60 cm dalla bordo della rotaia. Questi cordonetti da una parte facevano da battuta all’asfalto compresso verso la carreggiata, dall’altra delimitavano il cassero della sede tranviaria e facevano da bordo alla pavimentazione in masselli della sede del marcia-tram. Il risultato era una pavimentazione mista in asfalto compresso e in masselli di granito nella sede tranviaria. Questo sistema aggiungeva ai rilevanti vantaggi di carattere tecnico un sensibile vantaggio economico, poiché veniva limitata la costosa pavimentazione a masselli ad una ristretta zona della carreggiata, lasciando per la rimanente parte della strada la pavimentazione in asfalto più liscia, di più rapida esecuzione e meno costosa.

Binari tranviari, lastre di granito e asfalto (tecnica introdotta negli anni ’20)

Verso il 1931 il Comune di Milano sperimentò dei manti bituminosi a forte spessore realizzati con miscele di polvere di rocce asfaltiche e di aggregati duri. Si voleva così aumentare l’insufficiente ruvidezza delle pavimentazioni di sole rocce asfaltiche correggendo con aggregati più grossolani e duri la struttura litica troppo tenera e fine delle rocce stesse. Le miscele così ottenute riuscivano a correggere le proprietà dei bitumi contenuti nelle rocce asfaltiche, in modo da consentire la posa a freddo in spessori limitati ed evitare gli eccessivi irrigidimenti degli asfalti compressi.
Il primo esperimento di impiego di questa miscela fu eseguito in Via Moscova dove venne sostituita la precedente pavimentazione in asfalto compresso, ormai ridotta in pessime condizioni.

Per completare la panoramica sulle tecniche di pavimentazioni delle strade milanesi prima dell’inizio della seconda guerra mondiale, è interessante accennare a due tra le più significative operazioni attuate dal Comune di Milano nel campo stradale: la sistemazione dell’intero Viale Certosa e la costruzione del Ponte della Ghisolfa.

Il “Viale della Certosa” era la strada che collegava il Rondò Sempione (l’attuale piazza Firenze) con il Piazzale del cimitero di Musocco. Con la costruzione, nel 1926, delle prime autostrade dei laghi (vedi approfondimento) che sboccavano proprio in questo viale, il movimento dei veicoli, una volta molto limitato, divenne in breve tempo intensissimo e le condizioni del transito difficili e pericolose.

La sistemazione del viale ebbe perciò lo scopo di realizzare un tronco stradale che rendesse minimo il tempo necessario a raggiungere le autostrade dal centro, dividendo il traffico secondo le diverse specie dei veicoli; per questo vennero realizzate due carreggiate minori ai lati e i tram furono posti in un apposita sede separata. Prima di iniziare i lavori per la costruzione della carreggiata centrale, riservata al traffico veloce, fu necessario liberarla dai binari del tram, trasportandoli dalla vecchia alla nuova sede stradale. Questo comportò la rimozione di numerosi servizi che si trovavano lì sotto: acqua potabile, gas e alcune linee elettriche. Dopo questa azione preliminare venne scelto il tipo di pavimentazione da impiegare. Per le carreggiate laterali, sottoposte a traffico limitato si ricorse ad un comune macadam, utilizzando per il sottofondo il materiale recuperato nello scavo della vecchia strada.

Per la carreggiata centrale, destinata ad una circolazione veloce ed intensa la scelta cadde su una pavimentazione in calcestruzzo (la stessa inizialmente usata per l’autostrada) che oltre a fornire una superficie liscia e ad elevata aderenza (per gli autoveicoli gommati), si prestava ad una rapida esecuzione. La gettata di calcestruzzo, che aveva uno spessore medio di 18 cm, venne limitata ai bordi da cordoni di granito. Il profilo superiore era formato da due falde piane, raccordate sulla mezzeria, con una pendenza del 2,5% che diventava nei pressi dei bordi del 8%; in questo modo le acque erano tenute più raccolte e i pluviali invadevano il minor spazio possibile della carreggiata.

La composizione del calcestruzzo venne studiata accuratamente sia per la qualità che per la granulazione dei componenti per avere la massima compattezza, omogeneità e resistenza[12]. In corrispondenza degli attraversamenti con altre strade, dove la pavimentazione doveva essere in grado di sopportare anche la circolazione di veicoli con ruote ferrate (allora ancora molto diffusi), la gettata venne eseguita in due strati, ciascuno spesso 9 cm. Per tutta la durata dei lavori la qualità dei cementi e la composizione del calcestruzzo furono oggetto di continue osservazioni e prove da parte del Laboratorio Sperimentale del Comune.

A conclusione dell’intera opera si era pavimentato il viale per una lunghezza di 2,5 km e si era provveduto ad una nuova piantumazione, mentre una striscia nera di bitume separava nettamente al centro della pavimentazione cementizia le opposte corsie degli autoveicoli.

Sistemazione del viale Certosa, fondo in calcestruzzo (fine anni ’20)

La seconda delle opere più significative realizzata dal Comune di Milano in questi anni fu il collegamento del Viale Monte Ceneri con Piazzale Lugano, che concluse l’anello della circonvallazione esterna della città. L’opera richiese la costruzione di due cavalcavia a trave rettilinea in calcestruzzo armato sulla linea delle Ferrovie Nord Milano, l’alloggiamento del viadotto esistente sulla linea Milano-Rho delle Ferrovie dello Stato, l’esecuzione di una strada in rilevato della larghezza di 20 m (12 m di carreggiata e due marciapiedi di 4 m ciascuno) e altre sistemazioni di minore importanza.

Essendo la nuova arteria destinata a ricevere un traffico misto pesante, e la nuova linea filoviaria di circonvallazione esterna, l’esperienza insegnava che un ordinario macadam trattato superficialmente non resisteva ad un traffico del genere, specie alle fermate dei pesanti filobus dove le continue accelerazioni e decelerazioni provocavano un vero e proprio sfaldamento del fondo. Quindi si procedette alla stesura di un manto superficiale a base di pietrischetto bitumato, dello spessore di 3 cm; dopo un anno si poteva constatare l’ottima riuscita del fondo, e dopo alcuni anni il manto era completamente privo di ondulazioni o avvallamenti e di qualsiasi degrado della pavimentazione. Sui ponti invece fu adottata una pavimentazione in porfido dell’Alto Adige.

Da ricordare infine, agli inizi degli anni ’30, la sistemazione della viabilità attorno alla grandissima area della nuova Stazione Centrale, per la quale fu fatto molto ricorso alle malte bituminose.

Finitura superficiale con malta bituminosa delle strade attorno alla nuova stazione Centrale (inizio anni ’30)

Finitura superficiale con malta bituminosa delle strade attorno alla nuova stazione Centrale (inizio anni ’30)

Il graduale evolversi e perfezionarsi delle tecniche di asfaltatura delle strade, avvenuto negli anni ‘20 e ’30, fornì gli strumenti per una rapida sistemazione dei danni provocati dalla seconda guerra mondiale, ma intorno al 1960 si verificò una profonda evoluzione nelle tecniche di realizzazione delle strade cittadine. Questa evoluzione fu la conseguenza dei massicci programmi di costruzioni stradali ed autostradali, iniziati verso la fine degli anni ‘50 con l’intenzione di conferire alla rete stradale italiana un livello di servizio più elevato, adeguato alle pressanti richiesta di un traffico in tumultuosa crescita. Alle crescenti esigenze di traffico dovettero adeguarsi sia le tecniche di progettazione che di costruzione, in modo da incrementare la resistenza delle pavimentazioni.

Purtroppo tutti questi progressi nella costruzione delle strade hanno potuto fare ben poco per risolvere il problema di un traffico che è diventato sempre più intenso e caotico, non solo nel centro cittadino, ma anche nelle periferie e sulle direttrici di ingresso uscita dalla città, nonostante i numerosi tentativi di regolazione, attuati fin dal 1925, con l’introduzione dei primi semafori (vedi approfondimento).

Il tessuto viario dell’area più propriamente urbana ha rivelato, col passare degli anni, molti limiti legati probabilmente ad una insufficiente visione prospettica dei progettisti e degli amministratori, che forse avrebbero dovuto essere messi più sull’avviso su quello che sarebbe successo da noi, dagli sviluppi che la motorizzazione di massa stava avendo in altri paesi. Ma soprattutto sono pesanti le conseguenze, specie nella ricostruzione post bellica, di una mancata politica di costruzione sistematica di aree di sosta per gli autoveicoli, alternative alle strade, che sono così state sempre più intasate da quantità crescenti di auto ferme che, come il colesterolo nelle vene arteriosclerotiche di un organismo malato nel quale il sangue non riesce bene a scorrere, rendono ancora più difficile ai veicoli in moto di circolare.

 

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Approfondimenti:

Storia dell'asfalto
Le prime autostrade lombarde
La regolazione del traffico stradale



[1] L’introduzione, avvenuta nel medioevo, di una imbragatura dei cavalli con collare rigido costituì un notevole passo in avanti rispetto alle imbragature usate dai romani, che tendevano a strangolare gli animali impedendo loro di sviluppare il massimo della potenza di cui erano capaci; di conseguenza fu possibile far tirare ai cavalli carri assai più pesanti di quelli usati in epoca romana.

[2] Le tecniche di costruzione delle strade medioevali ricalcavano quelle romane, privilegiando la strada selciata (con ciottoli o pietre rotte sopra una base di sabbia) rispetto alle strade di pietrisco (ghiaietto) e alle strade costruite con blocchi di pietra cementati con malta, anche queste adottando il solito fondo sabbioso.
Si ebbe inoltre l’introduzione di una sezione stradale a forma concava con i bordi rialzati volgarmente detta “a culla”, nella cui zona centrale venivano realizzati pozzetti di smaltimento delle acque a cielo aperto, creando non pochi problemi d’igiene data la mancanza di fogne.
La raccolta dell’acqua avveniva principalmente attraverso il dilavamento superficiale delle pavimentazioni, ovvero per gravità su tutta la superficie del manto impermeabile o poco permeabile. Le pendenze venivano previste e realizzate in modo tale da evitare zone di ristagno e come tali dipendevano dal tipo di pavimentazioni nonché dal tipo di impiego a cui erano destinate.

[3] Per la precisione, un progetto di pianificazione stradale, il Piano Fasana, fu presentato nel 1860; esso prevedeva di tracciare una strada di circonvallazione, e alcuni raccordi con le iniziative edilizie già in atto, rinunciando invece a guidare le nuove espansioni al di fuori di quei quartieri, situati oltre il perimetro delle mura spagnole, dove era già cominciato uno sviluppo spontaneo.

[4] Continuando nella descrizione della tecnica di costruzione delle strade, sempre in base al suddetto manuale, si preparava il terreno con le pendenze longitudinali e trasversali volute dalle circostanze, lo si copriva uniformemente per un altezza di 0,12 m con uno strato di ghiaia siliceo-calcarea ,sopra la quale per la porzione che andava coperta dal selciato e dai trottatoi si spandeva un altro strato di sabbia di 0,06 m di altezza. Si costruivano quindi i marciapiedi, stendendo sopra lo strato di ghiaia due letti in calce di rottami ben cotti, sopra cui poi si legano pezzi di granito lavorati a squadro in tutte le facce, e soprattutto in quella superiore, teste e spigoli grossi 0,12 m, larghi 0,50m e lunghi 1,40 m.
I marciapiedi erano disposti con le loro maggiori lunghezze parallele all’asse della strada e fasce uniformi, rette, e serrate di tratto in tratto da pezzi trasversali detti “ Chiavi “.
Il selciato non era più formato, come diceva Cavalleri, a doppio strato, metodo adottato in alcune strade e poi abbandonato, ma con uno strato semplice di ciottoli silicei provenienti dai vicini fiumi e uniformi il più possibile, di figura ovoidale con diametri medi di 0,06 0,10 m e disposti ad arte con la maggior dimensione verticale. Tale strato veniva successivamente ricoperto con della sabbia e sbattuto finché se ne otteneva il rimbalzo, così da procurare un assetto piano.
I trottatoi erano costituiti da massi del più duro granito del lago di Como, i quali avevano una dimensione minima di 1,5 m di lunghezza, 0,60 di larghezza e 0,15 di altezza. Questi venivano disposti a distanza costante di circa 0,07 m fra loro, erano ben appianati e affilati a squadro e posavano su uno strato di sabbia battuta per ogni parte con palo di ferro, e stipato con abbondante quantità di schegge dello stesso granito così che inferiormente non restava alcun vano e il peso dei carichi non formava una forte pressione eccentrica.
Lo scopo di questo accorgimento era anche quello di diminuire l’attrito, l’assordante rumore delle ruote, lo sdrucciolio degli animali e, a causa della qualità delle pietre, fare in modo che difficilmente queste si rompessero.

[5] In effetti, già a partire dal 1839 e sino al 1897 si assistette ad un progressivo aumento della superficie stradale, ma anche ad una contemporanea riduzione della quota di manutenzione, tanto da arrivare dalle 0,23 L/mq, nel 1839, a soli 12 centesimi /mq, nel 1897: questo per dare un’idea dell’inutilità degli sforzi che si fecero per tenere in sesto le strade col carreggio di allora.

[6] Per la sua realizzazione il McAdam dettava una serie di semplici regole:

·     il piano di posa della pavimentazione deve essere configurato a volta concava verso il basso, così da ottenere un migliore scolo delle acque ed una massicciata più sana

·     una buona massicciata deve risultare impermeabile all’acqua senza per questo dover ricorrere ad una pendenza trasversale eccessiva

·     le dimensioni del pietrisco devono essere uniformi e il peso dei singoli elementi non superiore a 6 Once (170 gr)

·     i materiali devono essere vagliati eliminando i detriti e le sostanze terrose e argillose, usando solo elementi a spigoli vivi che si possano collegare facilmente fra di loro

·     per lo strato di superficiale di copertura deve essere realizzato con una miscela fine di acqua, pietrisco ed inerti, con proprietà leganti.

Per essere più precisi bisogna dire che il macadam risultò alla fine dalla sintesi di idee e metodi costruttivi usati anche da altri tecnici stradali, primo fra tutti lo scozzese Thomas Telford che sovrintese alla costruzione di molte migliaia di chilometri di strade in Inghilterra. Telford dava molta importanza, oltre alla realizzazione della massicciata, anche a quella di una fondazione di 20-30 cm di pietrame, come base indispensabile per garantire resistenza e durata alla strada.
La pavimentazione in macadam, che era in tono con le caratteristiche dei veicoli più diffusi nell’800, che erano abbastanza leggeri e poco veloci, dimostrò tutti i suoi limiti all’inizio del ‘900 con l’introduzione di veicoli più pesanti e veloci.

[7] Questo cavalcavia, che seguiva la direttrice degli attuali viali Tunisia-Regina Giovanna, ora non esiste più in quanto fu demolito, assieme alla prima stazione centrale, quando essa fu spostata alla odierna posizione (attorno al 1930).

[8] Il problema sarebbe diventato grave col passare degli anni e l’aumento del traffico, per diventare pesante con le invasione delle strade da parte di un crescente numero di auto in sosta. Da qui nasce il processo inverso di restringimento dei marciapiedi, attuato in molti casi nelle via di Milano.

[9] Uno degli esperimenti più curiosi, e che non ebbe grande successo, fu il tentativo di realizzare una pavimentazione in legno. I sistemi adottati furono due: il sistema “Kerr” e il sistema “Elli”; quest’ultimo, data la semplicità fu quello più utilizzato a Milano. Se questo tipo di pavimentazione fosse durata di più, avrebbe avuto dei vantaggi interessanti, perché poco costosa, non rumorosa, non sdrucciolevole e facile da riparare. Purtroppo però i pioli si deterioravano presto: quelli di diametro troppo grande o troppo piccolo si spianavano facilmente, la sabbia degli interstizi e del sottofondo si trasformava in terriccio, così che in breve tempo il pavimento diventava impraticabile da parte dei veicoli a causa degli avvallamenti e delle solcature e del cattivo odore che i pioli marcendo emanavano. Fra i vari esperimenti tentati in varie strade, quello di Via Dante diede i migliori risultati; i lavori furono compiuti nel maggio 1891 e la copertura durò fino al maggio 1898. Questa buona durata, ben 7 anni, fu dovuta a parecchie ragioni:

     perché l’Ing. Pellegrini, concessionario del sistema Elli, provvide affinché il legname fosse imbevuto di un liquido antisettico (cloruro di zinco) che ne ritardò la putrefazione;

     perché il sottofondo stradale era durissimo, quasi in calcestruzzo, costituito da una forte massicciata di pietrisco calcareo che si ebbe anche cura di regolarizzare e comprimere con un rullo a vapore prima di eseguire il pavimento;

     poiché, all’opposto delle vie Correnti e Manzoni, la strada essendo convessa e non concava, e con forte pendenza trasversale, si prestava meglio al rapido scolo delle acque;

     poiché la Via Dante era meglio esposta e ventilata delle altre due strade.

[10] L’acciottolato doppio consisteva in un primo strato di fondo su cui veniva steso uno strato di buona sabbia sul quale si innestava lo strato superiore di ciottoli secchi.

[11] Nei primi giorni di apertura al transito della via, la cronaca riporta che si verificarono parecchie cadute di cavalli, non ancora abituati ad un fondo molto liscio; questi incidenti diventarono poi gradualmente sempre più rari. Un altro inconveniente dell’asfalto si verificava prevalentemente in estate, quando i veicoli molto pesanti a ruote strette potevano produrre sensibili solcature se restavano per qualche tempo fermi e la pavimentazione non aveva ancora raggiunto un elevato grado di compattezza che poteva acquisire solo col tempo.

[12] Venne utilizzato pietrisco calcareo delle cave di “Bisuschio”, cercando sperimentalmente la migliore composizione granulometrica del pietrisco per determinare una combinazione che producesse il minor numero dei vuoti. L’impasto normale risultava così composto:

     0,440 mc di pietrisco delle dimensioni di 25-45 mm

     0,440 mc di pietrisco delle dimensioni di 45-60 mm

     0,440 mc di sabbia viva

     350 kg di cemento granito

La percentuale di 350 Kg di cemento per mc di calcestruzzo riprendeva una consuetudine ormai accettata nella tecnica stradale americana.

Ultima modifica: lunedì 15 novembre 2004

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