Storia dell'asfalto
di
Gian Luca Lapini
L’asfalto è una associazione fra bitume e materiali inerti
di vario tipo; queste miscele si possono trovare in natura (in Italia esistono
cave nel Lazio, in Abruzzo e in Sicilia) oppure possono essere confezionate
artificialmente. Presente in natura sotto varie forme, o derivato dalla
distillazione del petrolio, il bitume è un materiale chimicamente e
strutturalmente complesso, che contiene un elevato numero di idrocarburi. Da non confondere con il bitume è il catrame, anch’esso un
tempo usato per realizzare manti stradali, ma di composizione molto diversa e
di qualità generali assai inferiori.
L’asfalto era noto ed usato fin dall’antichità come legante
e impermeabilizzante, soprattutto nella fascia di paesi che va dal Nilo
all’Indo, dove sono frequenti gli affioramenti naturali di idrocarburi. Non se
ne trovano invece tracce nelle costruzioni Romane. In Occidente erano comunque ben noti i materiali bituminosi,
quali la pece, che si otteneva bollendo ciò che si raccoglieva in questi
giacimenti superficiali; la pece era ampiamente usata per calafatare le carene
delle navi.
L’utilizzo di catrami e bitumi nella realizzazione delle
pavimentazioni stradali è invece abbastanza recente. In Europa, la prima
scoperta di un giacimento di asfalto avvenne nel 1710 nel cantone di Neuchatel,
in Svizzera, ma solo dopo circa secolo iniziò lo sfruttamento dei ricchi
giacimenti di Seyssel, in Francia, e del famoso lago di asfalto dell’isola di
Trinidad, nelle Piccole Antille. Da questi materiali naturali si ricavavano con
operazioni abbastanza semplici dei “mastici” impermeabili, che ebbero un certo
successo perché costituivano uno dei materiali più economici per le coperture
degli edifici.
Dai tetti alle strade il passo non era troppo lungo, ma esso
divenne conveniente solo quando si resero disponibili grandi quantità di
materiali a più basso prezzo degli asfalti naturali, ad esempio i catrami
residui della produzione del gas di città, che furono
utilizzati per la prima volta nel 1834, per eliminare polvere e fango dalle
strade del distretto siderurgico di Winchester, in Inghilterra. Comunque, nel 1835-36 i mastici bituminosi di Seyssel ed
altre preparazioni asfaltiche cominciarono ad essere usati per ricoprire i
marciapiedi di alcune vie centrali di Parigi, e nel 1837 fu pavimentata in
lastre di asfalto di Seyssel la grande Place de la Concorde. Sempre a Parigi la
prima strada in asfalto compresso, la via Bergere fu costruita nel 1854. La
disponibilità, a prezzi molto bassi, di catrami residui della produzione del gas
di città diede nuove occasioni per estendere il loro uso per il rivestimento
impermeabile dei marciapiedi parigini.
In Italia cave di asfalto furono scoperte in Sicilia, in
Abruzzo e nel Lazio.
Per rendersi conto di quale fosse la diffusione dell’asfalto
non solo a Milano, ma in generale in Italia a fine ‘800, è interessante quanto
scriveva l’ing. Righetti, titolare di una cava di materiale asfaltico a
Filettino, vicino alle sorgenti dell’Aniene, in un manualetto pubblicato
dall’editore milanese Hoepli, nel 1894:
“L’asfalto, specialmente in Italia, è senza dubbio quello
fra i materiali da costruzione che venne poco studiato, …. forse è destinato ad
occupare un posto importante nell’arte di edificare… La
parola asfalto non è usata che da pochi, ed anche le persone istruite chiamano
lava la materia bollente e nera che vedono stendere sui marciapiedi e sui
terrazzi…”
Per il rivestimento dei marciapiedi, la tecnica di
applicazione più utilizzata fu quella dell’asfalto colato, cioè di uno
strato di 15-20 mm di una miscela di legante bituminoso e di inerti fini, che
in genere veniva applicata spalmandola a caldo su di un sottofondo di
calcestruzzo in grado di garantire la necessaria rigidezza.
La composizione dei colati eseguiti in Italia risultava
estremamente variabile. Nei primi tempi il così detto “mastice” era costituito
esclusivamente da polveri o pani di rocce asfaltiche: a questi venivano aggiunte
percentuali di ghiaiettino o di graniglia relativamente modeste. In seguito si
era iniziato a produrre mastici artificiali, ricorrendo a polveri calcaree
opportunamente trattate con bitumi normali; successivamente, soprattutto per il
manto dei marciapiedi, parte dell’aggregato calcareo fu sostituito con sabbie
silicee.
Nei primi tempi le
miscele venivano realizzate sul posto con delle vecchie caldaie di circa 4
quintali, procedendo alla miscelazione con agitatori a mano. Tale metodo,
adottato a Milano fino al 1925, dava luogo ad irregolarità nella composizione
della miscela e risultava anche poco economico. Negli anni successivi, con
l’impiego di caldaie di cottura con miscelazione meccanica, si ebbe un
miglioramento non solo dal punto di vista tecnico, ma anche dal punto di vista
economico.
Un po’ alla volta si arrivò comunque ad avere a
disposizione, in tutte le maggiori città italiane e quindi anche a Milano,
impianti fissi per la produzione del colato, sfruttati in massima parte per la
pavimentazione dei marciapiedi. Per la formazione del colato si procedeva prima
alla fusione ed al riscaldamento del bitume, quindi si aggiungevano lentamente
in varie frazioni i pani e le rocce asfaltiche o le farine inerti,
successivamente si aggiungeva della sabbia (se veniva impiegata) e per ultima
la graniglia. Per rendere più breve questo procedimento, si era tentato di
adottare per i colati le stesse macchine che venivano impiegate per gli altri
conglomerati bituminosi. La pavimentazione di Via Gian Galeazzo era stata per
esempio eseguita, nel 1926, ricorrendo anziché a mescolatori per conglomerati
bituminosi a betoniere per calcestruzzi cementizi opportunamente adattati con
riscaldatori a nafta, ma sia per il metodo di riscaldamento che per altre
ragioni, il manto diede un pessimo risultato.
Un problema molto importante connesso con la posa in opera
del manto era quella di ottenere una superficie non sdrucciolevole. A questo
scopo bisognava evitare ogni eccesso di bitume, ed il manto doveva inoltre
essere stabile in modo da mantenere sempre in superficie una certa massa di
elementi grossi, impedendo che questi avessero il tempo di affondare. Un metodo
ottimo e largamente impiegato per i colati era quello di arricchire all’ultimo
momento l’impasto con elementi grossi spargendo e fissando sul manto ancora
fluido una notevole quantità di graniglia. Come probabilmente a tutti sarà
qualche volta capitato di vedere, questa tecnica è tuttora molto usata per la
gran parte dei marciapiedi di Milano.
Tra le pavimentazioni eseguite con questo metodo, avevano
ottenuto i migliori risultati quelle realizzate in Via Moscova e in Corso
XXVIII Ottobre, dove l’irruvidimento era stato evitato ai bordi in modo da
lasciare libere e lisce le cunette, così da non ostacolare il deflusso delle
acque. Un’altra tecnica molto usata fu quella delle mattonelle di
asfalto, che venivano prodotte comprimendo idraulicamente a caldo (150° C)
polvere di roccia asfaltica ed inerti fini. Esse venivano poi legate con una
malta cementizia ad un fondo di calcestruzzo, mentre le connessure fra le
mattonelle erano sigillate con bitume e catrame liquido.
L’utilizzo dell’asfalto per i manti stradali all’inizio non
sempre diede buoni risultati, in termini di resistenza all’usura ed agli agenti
atmosferici, specie in zone di traffico molto intenso. Tra i primi tentativi sicuramente riusciti di utilizzare
l’asfalto naturale per una pavimentazione stradale, si ricorda quello
realizzato nel 1849 dall’ingegnere svizzero M. Marion nella cittadina di
Travers nel cantone di Neuchatel. La tecnica iniziale di stesura era quella
denominata dell’asfalto compresso, cioè di una miscela di polvere di
asfalto naturale che veniva pistonata e cilindrata a caldo con rulli e
pestelli, su una fondazione di calcestruzzo, od anche semplicemente su un fondo
in macadam. Ma
i problemi tecnici furono abbastanza rapidamente superati, e l’asfalto cominciò
a conquistare le simpatie dei tecnici per le sue doti naturali.
La rivista
americana "The Manufacturer and Builder", nel numero di Ottobre 1874 riportava
per esempio questo interessante
confronto fra la resistenza all’avanzamento, o attrito, opposta da vari tipi di
pavimentazione stradale. Le doti di scorrevolezza dell’asfalto furono uno dei
motivi che più favorirono le automobili e la loro ricerca della velocità. Ma,
il principale motivo di successo dell’asfalto fu la necessità di eliminare la
polvere, che i veicoli veloci come le automobili sollevavano in grandi
quantità sulle strade sterrate, anche le meglio tenute. Ne sono testimonianza
modi di dire come “dare la polvere”, “far mangiare la polvere”, ecc., ormai
rimasti in uso in modo simbolico, ma allora letteralmente veri; tanto che nel
1904 fu fondata in Francia una lega contro la polvere per convincere le
amministrazioni locali a ricoprire di bitume le strade. Non bisogna inoltre
dimenticare che anche la diffusione della bicicletta come mezzo di trasporto di
massa, avvenuta verso la fine dell’800, fu uno degli elementi di pressione
sociale verso il miglioramento delle strade e la eliminazione della polvere.
Gli americani furono
presto fra i più convinti sostenitori dell’asfalto, come si può dedurre dalla
seguente tabella comparativa fra vari tipi di pavimentazioni stradali, redatta
nel 1901 da George Tillson, ingegnere capo del municipio di New York (da G.W. Tillson,
Street Pavements and Paving Materials, New York, 1901):
Qualità
|
Valore max (scala
1-100)
|
Blocchi di granito
|
Asfalto
|
Mattoni
|
Macadam
|
Acciottolato
|
Convenienza
|
14
|
2
|
4
|
3
|
7
|
14
|
Durata
|
21
|
21
|
15
|
13
|
7
|
15
|
Pulizia
|
15
|
11
|
15
|
12
|
5
|
2
|
Idoneità al
traffico
|
15
|
7
|
15
|
12
|
6
|
4
|
Aderenza
|
7
|
6
|
3
|
6
|
7
|
5
|
Manutenibilità
|
10
|
10
|
6
|
6
|
3
|
2
|
Attrito al
rotolamento
|
5
|
3
|
5
|
4
|
5
|
0
|
Igienicità
|
13
|
9
|
13
|
11
|
5
|
2
|
Totale
|
100
|
69
|
76
|
67
|
45
|
44
|
Non meraviglia
quindi che nel 1913 New York fosse una delle città con la maggiore percentuale
di strade asfaltate, quasi il 50%, contro un 40% di Berlino, 5% di Londra e 10%
di Parigi (che però aveva un buon 50% di strade selciate). Per confronto a
Milano, nel 1925 la diffusione delle strade asfaltate era ancora
abbastanza modesta (però come si è accennato c’erano molte strade in
acciottolato).
Naturalmente, viste
le lunghezze molto maggiori, la rete delle strade extraurbane fu interessata a
tempi più lunghi di quella urbana dal fenomeno della asfaltatura, come
testimonia, per tornare a cifre di casa nostra, la seguente tabellina che
sintetizza dati sull’asfaltatura delle strade statali italiane, ricavati dai
compendi statistici dell’Istat:
Anno
|
Km asfaltati
|
Km non asfaltati
|
% km non asfaltati
|
1910
|
8.803
|
-
|
-
|
1921
|
10.330
|
-
|
-
|
1930
|
20.823
|
14.430
|
69
|
1940
|
21.008
|
6.881
|
32
|
1950
|
21.673
|
5.208
|
25
|
1960
|
28.800
|
1.189
|
4
|
1965
|
37.332
|
1.053
|
2
|
A partire dai primi decenni del ‘900 cominciarono ad entrare
in uso gli asfalti sintetici, cioè delle miscele preconfezionate di bitume,
ricavato dal petrolio (alcuni greggi, specie quelli venezuelani, erano
particolarmente adatti a questo scopo) e mescolato con aggregati lapidei di
granulometria controllata ed uniforme, nonché con riempitivi di varia natura.
Questi materiali furono l’evoluzione ed il perfezionamento dalle prime malte
bituminose ideate, ancora verso il 1870, da un belga trapiantato negli Stati
Uniti, E.J. De Smedt.
Le malte bituminose, che contengono in media il 4-6 % di
bitume, sono prodotte in numerosissime varianti, a seconda della necessità di
privilegiarne le caratteristiche di resistenza, aderenza, fonoassorbenza, ecc.;
con l’andar del tempo esse si sono affermate come il materiale universalmente
utilizzato per la realizzazione delle strade asfaltate, grazie anche alla
invenzione di macchinari per la loro stesura, di grandi dimensioni e
produttività, che hanno notevolmente velocizzato l’asfaltatura delle migliaia
di chilometri delle strade e autostrade moderne.
Non mancarono anche
tecniche per così dire “intermedie” fra quelle tradizionali e l’asfaltatura;
per esempio nel 1925 l’Amministrazione Comunale di Milano acquistò 700
quintali di “Catromoleum”, una emulsione bituminosa che venne usata nel
quartiere Vallazze, spruzzandola direttamente, diluita in acqua, come per un
normale innaffiamento, una volta ogni 20 giorni, sulle massicciate nuove,
costruite con un buon pietrisco calcareo.
I risultati furono
molto incoraggianti: infatti, fu rilevata la completa scomparsa della polvere e
una carreggiata ben liscia e con una minima usura superficiale. Nel corso dello
stesso anno si provvide ad innaffiare con lo stesso prodotto un altro gruppo di
strade, dove di solito si effettuava la manutenzione ordinaria due volte al
giorno. L’applicazione del prodotto permise di sospendere il trattamento
giornaliero eliminando qualsiasi lamentela per la presenza della polvere. Oltre
a questo tipo di impiego fu approntata la rappezzatura di alcune solcature e
buche che si erano formate su massicciate ordinarie che furono eseguite con un
buon successo e in un tempo ridotto. Un’altra applicazione sperimentale del
prodotto era stata effettuata in Via Piccinini dove si era pensato di
utilizzare il Catromoleum durante la cilindratura di un ricarico di pietrisco
per incorporare meglio il prodotto della massa calcarea: si era così ottenuta
una carreggiata compatta e di gradevole aspetto, senza formazione di polvere.
Il prodotto venne anche impiegato nel medesimo anno in
alcune circostanze eccezionali di grande traffico e soprattutto in occasione
del Circuito di Monza, evento che richiamava a Milano un elevato numero di
autoveicoli, ed in occasione del quale la manutenzione stradale doveva essere
molto efficiente e soprattutto doveva eliminare il grave inconveniente della
polvere. Il giorno prima delle prove si era proceduto all’innaffiamento con
questa miscela di tutte le strade che portano a Monza, quali Corso Buenos
Aires, Via Settembrini, Via Libertà, Viale Padova e parte di Viale Monza:
alcuni di questi viali erano in selciato, altri in macadam e non erano certo in
ottime condizioni, ma l’Amministrazione Comunale ebbe l’onore di un
riconoscimento ufficiale per il buon andamento del servizio.
Per quanto riguarda la tecnica di realizzazione delle strade
asfaltate, accenniamo brevemente al fatto che prima della seconda guerra
mondiale, la cosiddetta “massicciata” era di solito costituita in un primo
strato posato su fondo di ciottoloni di dimensioni notevoli (spessore 40-60 cm)
con spessori variabili a seconda delle necessità. Si sovrapponeva poi, una volta
rullati i ciottoloni, uno strato di pietrisco variabile tra i 20-60 cm rullato
a fondo con compressori stradali. Successivamente venivano stesi due o tre
strati di emulsione bituminosa o bitume, tramite spruzzatura a caldo, e questo
veniva ricoperto con pietrischetti di pezzatura tra i 6-12 mm convenientemente
rullati. A Milano l’impiego della massicciata durò per molto tempo soprattutto
nelle zone periferiche o comunque in quei percorsi periferici caratterizzati da
traffico modesto. Questo sistema, piuttosto oneroso da realizzare, venne
successivamente sostituito con la stesura di un misto di cava,
sabbioso-ghiaioso.
All’inizio degli anni ‘60, le pavimentazioni per le strade
di maggior importanza di nuova costruzione cominciarono ad essere realizzate
con manto di usura di calcestruzzo bituminoso compresso, di spessore 3 cm,
steso su di un sottostante strato di collegamento (detto “binder”) in conglomerato bituminoso di 4 cm di spessore (preparati
in appositi impianti di miscelazione). Per quanto riguarda gli strati di base e
di fondazione, dopo l’iniziale adozione di strati di pietrisco a
semipenetrazione, si andò diffondendo l’uso dei cosiddetti “misti
granulometrici”, naturali o stabilizzanti, sia di cava che di fiume, con cui si
potevano realizzare spessori variabili di 10-12 cm per le basi (in misto
bitumato) e di 25-30 cm per le fondazioni (in misto naturale). Si andava nel
frattempo acquisendo una maggiore conoscenza della capacità portante dei
sottofondi e soprattutto dei materiali utilizzati nei diversi strati della
pavimentazione.
L’asfaltatura moderna consiste normalmente nella stesura di
uno strato che varia da 8 a 15 cm di spessore, a seconda delle necessità, su di
un rilevato rullato e ben compattato. Questo strato, comunemente chiamato “toutvenant bitumato”, contiene il
3,5-4,5 % di bitume che viene miscelato agli inerti in appositi impianti, con una tecnologia atta ad ottenere un
prodotto di caratteristiche uniformi, stabile e duraturo nel tempo. Per strade
di grande importanza (tipo autostrade), sopra di esso si stende un conglomerato
bituminoso composto di pietrischetto, e ancora sopra uno strato di bitume
(4,5-5%) che è definito col termine “binder”
ovvero un manto di collegamento. Infine, o direttamente sul toutvenant (per strade di minor impiego)
oppure sul binder (per strade di
grande impegno) si stende il manto di usura, il così detto “tappetino”,
costituito da conglomerato bituminoso al 5-6%, pietrischetto con pezzatura fine (2-6 mm), e un riempitivo filler (costituito da carbonato di calcio).
Questi successivi strati vengono stesi e livellati con
apposite macchine semoventi, che hanno enormemente velocizzato il processo, e
poi compressi con rulli vibranti. Negli anni più recenti è inoltre diventata di
uso sempre più frequente, per molte strade asfaltate e deteriorate, la pratica
della “fresatura”, che consiste nell’asportare, con speciali macchine,
il vecchio asfalto per uno spessore che va dai 3 ai 10 cm sostituendo quindi il
tutto con materiale bitumato di nuova produzione. Per le strade cittadine
questo sistema si rende assolutamente necessario quando a forza di sovrapporre
strati di conglomerato sui vecchi manti si è finito per determinare strade con
livellature superiori al necessario (ad esempio quando il cordone dei marciapiedi,
che di solito è di 15 cm di spessore, si è ridotto a 6-7 cm).
Ultima
modifica: lunedì 15 novembre 2004
gianluca.lapini@fastwebnet.it |