Origini
dell’illuminazione pubblica a Milano
Per
chi abita in una città moderna come Milano è normale pensare che di notte
strade e piazze siano illuminate (salvo magari lamentarsi che c’è inquinamento
luminoso e che non si vedono più le stelle). Non è quindi facile immaginare
quanto dovesse essere buia la nostra città, ancora nel '700, con una
illuminazione stradale allora in gran parte affidata alle sole insegne di
botteghe ed osterie, ed alle lampade votive poste davanti alle, per fortuna
numerose, immagini sacre e tabernacoli.
Intendiamoci, a Milano
la situazione non era molto peggiore che in tante altri luoghi perché anche
nelle più grandi città Europee i servizi di illuminazione pubblica erano modesti. In sostanza le abitudini
non erano ancora molto cambiate dai tempi medioevali, quando le comunità
cittadine si preparavano alla notte come a un periodo di pericoli ed
insidie: al tramonto aveva inizio il ritiro verso le case, le porte delle mura
venivano chiuse e con l’oscurità vigeva il coprifuoco. La ronda notturna
perlustrava le strade munita d’armi e di fiaccole che servivano non solo ad
illuminarle la via, ma anche a permetterle di essere vista come forza d’ordine
pubblico. I privati cittadini che si recavano in strada di notte, dovevano
anch’essi avere con sé un lume per non rendersi sospetti.
A
Milano un passo in avanti decisivo nel campo dell’illuminazione pubblica fu
fatto solo nel 1784, quando con
un decreto dell'imperatore austriaco Giuseppe II i proventi del gioco del lotto
e delle imposte sui fabbricati, pagate dai milanesi all’amministrazione
asburgica, furono dedicati a impiantare un servizio di illuminazione pubblica
con lampioni ad olio. Dal 1787
in poi questo servizio fu affidato ad un apposito corpo di operai accenditori,
i lampedée, che con la loro scala sulle spalle passavano
rapidamente ad accendere e spegnere un fanale dopo l'altro e ne curavano il rifornimento e la pulizia. Le
lampade ad olio, perfezionate con l'introduzione del “becco di Argand”,
raggiunsero rapidamente le migliaia e rimasero poi in funzione fin oltre la
metà del secolo, solo gradualmente soppiantate dai lampioni a gas.
Con
l’introduzione del gas illuminante, ricavato dal carbon fossile, iniziò anche a
Milano quella “rivoluzione della luce” (che qualche decennio più tardi sarebbe
stata accelerata dalla luce elettrica), che avrebbe gradualmente cambiato il
nostro modo di intendere il giorno e la notte, allungando i tempi della vita
cittadina sempre più verso le “24 ore su 24”.
La storia dell'utilizzo
del gas ricavato dal carbon fossile per l'illuminazione, pubblica e privata,
costituisce una vicenda per molti versi esemplare non solo per l'affermarsi di
un'industria e di una tecnologia assai importante per tutto lo sviluppo tecnico economico delle società occidentali,
ma anche per rendersi conto di come abbia preso piede il concetto stesso di
“rete tecnologica di servizio”, cioè quello della possibilità di una
distribuzione di beni primari, prodotti in officine centralizzate e messi a disposizione
di larghi strati di popolazione.
Il gas illuminante a Milano
Nella
nostra città le prime iniziative di produzione ed utilizzo del gas illuminante
furono opera di privati, in particolare del conte Porro Lambertenghi, appassionato
di fisica e primo imprenditore lombardo ad impiantare una filanda a vapore. Milano e la Lombardia, dopo
l’effimera esperienza della Repubblica Cisalpina, a seguito del congresso di Vienna del 1815 erano tornate sotto
il dominio austriaco. Nel palazzo Porro di via dei Tre Monasteri
(l'attuale via Monte di Pietà) la storia del gas si mescolò con quella dei
primordi del Risorgimento: qui infatti si riunivano, attorno alla rivista “Il
Conciliatore”, che sarebbe stata di lì
a poco soppressa dagli austriaci,
patrioti quali Silvio Pellico e Federico Confalonieri. Silvio Pellico[1],
che era precettore dei figli del conte,
fu da lui incaricato di tradurre in
italiano il Trattato pratico sopra il gas illuminante del tecnico inglese
Frederick William Accum, che fu pubblicato a Milano nel 1817.
L’anno
successivo, 1818, il palazzo Porro fu illuminato con una apparecchiatura
acquistata direttamente in Inghilterra da Frederic Winsor, un imprenditore che
aveva fatto fortuna a Londra offrendo
il primo servizio pubblico di illuminazione a gas in Europa. Non
ci sono rimasti documenti di come fosse esattamente fatta questa
apparecchiatura, ma è probabile avesse un aspetto non molto diverso da quello
di una delle illustrazioni del trattato di Accum, riprodotta qui accanto.
Si sa comunque che insieme
alle macchine arrivarono anche delle consistenti partite di carbone di
Newcastle, probabilmente per garantire che fosse della qualità più adatta alla
produzione di gas, ed anche un meccanico inglese per avviare l’impianto. Il
conte Porro avrebbe voluto andare avanti, con impianti più grandi ed
organizzare un servizio pubblico, ma le autorità austriache non ne vollero
sapere.
Pochi mesi dopo il Cav. Aldini (nipote del
famoso Luigi Galvani, pioniere degli studi sui fenomeni elettrici), illuminò il
teatro privato di via dell'Olmetto con il gas prodotto da un modesto
distillatore (non di carbone, ma di olio), ma neanche lui riuscì a convincere
l'amministrazione austriaca, ed a realizzare, come avrebbe voluto, un impianto
per illuminare a gas il "teatro Regio della Scala".
Dopo
questi tentativi bisognerà arrivare quasi alla metà del secolo prima di
avere a Milano uno sviluppo consistente dell'illuminazione pubblica a gas, con
una lunga preparazione nel corso della quale non mancarono le proposte, ma ci
fu opposizione al gas, sia da parte dell’amministrazione austriaca, sia da
parte dell’establishment tecnico-scientifico, compresa l'emissione di timorosi
regolamenti, "contro i pericoli terribili della fabbricazione e dell'uso
del gas illuminante, nel caso che siffatto genere di notturna illuminazione
avesse ad essere introdotta anche in questa provincia".[2]
Altre
città italiane avevano intanto preso l’iniziativa, e come per il treno[3]
fu la “borbonica” Napoli ad anticipare Milano, illuminando per prima col gas,
nel settembre 1837, il Portico di S. Franceso di Paola di fronte al Palazzo
Reale[4].
Dopo un ennesimo
rifiuto fatto ad una richiesta di concessione, avanzata nel 1842 dal conte
Emanuele Caccia, finalmente nel giugno 1843 l'Amministrazione Comunale, con un
contratto firmato davanti al notaio Tommaso Grossi, concesse alla società
dell'ingegner Achille Guillard di Parigi l'appalto per l'illuminazione
pubblica a gas, con la facoltà di costruire lo stabilimento di produzione,
compreso un gasometro da 1850 metri cubi, a San Celso appena fuori Porta
Lodovica, su di un’area molto prossima a quella dove attualmente sorge la
Centrale del Latte, in una di quelle zone all’esterno dalle mura spagnole,
dette dei Corpi Santi, dove stavano
sorgendo abitazioni popolari, magazzini commerciali e le prime fabbriche.
Ci
sembra significativo che, nonostante la città fosse ancora sotto il dominio
austriaco, per una iniziativa industriale come questa bisognasse rivolgersi
all’estero, per giunta alla rivale Francia. A quanto pare non solo le capacità
locali di costruire impianti meccanici di dimensioni e complessità rilevanti
erano ancora molto modeste (fu infatti necessario ricorrere in gran parte a
materiali di importazione), ma neanche le capacità finanziarie ed
imprenditoriali, locali e austriache, erano tali da sostenere autonomamente una simile impresa. Eppure non era
mancato all’iniziativa il sostegno delle migliori menti milanesi, quali
quella del saggista, economista e patriota
Carlo Cattaneo, che dalla righe de “Il Politecnico”, una delle
prime riviste tecnico-scientifiche
d’Italia, da lui fondata nel 1839, aveva più volte preso posizione a favore di
questa, così come di tante altre tecniche moderne. Cattaneo era anche stato uno dei primi soci dell’ing.
Guillard.
La
prima rete di distribuzione del gas comprendeva circa 15 Km di tubazioni
interrate, mentre erano 377 i “becchi” di illuminazione a gas, posti a 40-60 metri l'uno dall'altro. Nelle
officine il gas poteva essere prodotto in 48 forni, sia con carbon fossile di
importazione, sia dagli schisti bituminosi provenienti dalla zona di Besano
(Varese) per la cui estrazione Guillard aveva già da qualche anno una
concessione.
Dalla
data di inaugurazione dell’impianto, il 31
luglio 1845, i lampedée ebbero nuovo lavoro per accudire i nuovi lampioni a gas. Il poeta milanese
Leopoldo Barzaghi, così celebrava l’evento in una sua rima del 1845:
Ona fiammella delicata e bella
Lustra compagna di stell, fada a crespin,
Senza inasprì la vista, adess l’è quella
Che brusa a gass, e senza su el stoppin
E inlumina Milan in sta manera,
Chi se speggia in di donn, fàn bella cera.
Ah Milan te diventet purancha bella,
Adess te po sta al pari de Parîs,
In sti poch agn set deventaa ona stella
[...]
Paris, Turin, Londra, Venezia insemma
Che gh’han avuu el regâl prima de
tì
De sta roba inscì bella, de sta gemma,
Sdegnaven de parlatt, disend inscì:
- Va via Milan, orbonna, sanza gass
Te see pêg che la pell d’on ananass.
In
una bella incisione di quegli anni c’è rimasta la testimonianza di
come doveva apparire, nel suo complesso, quel primo impianto.
Se vogliamo
immaginarci come fossero fatti i forni di distillazione del carbone, possiamo
osservare come, non moltissimi anni fa, ancora si presentavano gli
impianti in abbandono delle officine del gas di Mortara (PV), costruite verso
fine ‘800 con tecnologia similare: sono ben riconoscibili le bocche di carico
delle storte ed i tubi di uscita del gas, di disegno assai simile a quelle in
uso nell’800.
Di
lì a due anni, nell’autunno del 1847, la storia del gas si sarebbe di nuovo
intrecciata con le vicende politiche milanesi. Nell’autunno del 1847 era
infatti morto il vescovo cittadino, il tedesco Gaisruck, e grandi
festeggiamenti erano stati preparati per l’insediamento del nuovo arcivescovo,
l’italiano Bartolomeo Romilli. Davanti all’arcivescovado, in p.za Fontana, era stata in particolare allestita
una grande illuminazione straordinaria a gas che i milanesi si recarono in
gran numero ad ammirare per più sere: in realtà era una buona occasione per
esaltare l’italianità del nuovo eletto. Si trattò di manifestazioni spontanee,
presto disperse con la forza dagli austriaci, che fecero da prodromi a quello
che sarebbe successo di lì a pochi mesi (marzo 1848) con le Cinque Giornate di
Milano.
Ritornando
agli inizi dell’illuminazione pubblica a gas, è interessante riportare che il
servizio veniva pagato dal Comune; una discreta cifra per quei tempi: 4,66
centesimi di lira per ora e per fiamma[5]. Nonostante questo la società non rendeva
abbastanza così che il servizio, già nel 1846, passò di mano venendo rilevato
dal sig. Jean Baptiste Roux che mutò la ragione sociale della compagnia in: Roux
& C. Il Comune stipulò nel 1851 una convenzione a prezzi un po’ più
favorevoli con questa compagnia, che gestiva un impianto anche a Bologna, ma
che si dimostrò anch’essa poco durevole. Di lì a qualche anno le subentrò una
più solida società, con impianti ed interessi in molte città europee, la Union des Gaz di Parigi, che dal
1859 in avanti mantenne il monopolio, dimostrandosi capace di destreggiarsi
bene anche fra le variazioni e gli sconvolgimenti del quadro politico, a
partire da quell’anno in cui si combatté la Seconda Guerra d’Indipendenza, i
cui esiti avrebbero portato nel 1861 alla proclamazione del Regno d’Italia. Ai
privati, residenti lungo le strade del centro percorse dai tubi del primo
impianto di S. Celso (corso Monforte, corso Venezia, via Brera, via Larga, per
citarne solo alcune), era data la facoltà di allacciarsi alla stessa rete che
alimentava i lampioni. Le tariffe per i privati erano peraltro assai più care,
così che per molti anni l’illuminazione a gas rimase fuori della portata anche
dei ceti medi, affermandosi però largamente negli esercizi commerciali e
produttivi.
Una
ventina di anni dopo l’inizio del servizio, verso il 1867, la rete di
illuminazione stradale a gas era abbastanza completa anche nelle zone più
periferiche e si era anche diffuso l'uso privato, essendo ormai in servizio
circa 30.000 “becchi” (così si chiamavano le utenze). Fra gli utilizzi
pubblici del gas, particolarmente significativo fu quello fatto a partire dal
gennaio 1861 presso la Biblioteca Nazionale di Milano (la Braidense) dove tre sale illuminate a gas consentirono
l’accesso serale di un gran numero di lettori.
A
gas era illuminata anche la Galleria Vittorio Emanuele che unisce la piazza
del Duomo a quella della Scala; costruita fra il 1865 e il 1877, era stata intitolato
dai milanesi al re sabaudo che era stato l’artefice dell’Unità d’Italia. La
liberazione della città dalla tutela austriaca aveva messo in moto un vivace
processo di sviluppo commerciale ed industriale, del quale l’elegante “salotto”
cittadino, con il suo riuscito intreccio fra classicità decorativa e modernità
della copertura il ferro[6]
e vetro, divenne presto uno dei
simboli. Un particolare curioso: i lampioni dell’ottagono, la parte più alta
della Galleria, non venivano accesi a mano, ma tramite una specie di trenino a
molla, battezzato dai milanesi il ratin (topolino), che correndo su un
binario portava una fiammella che li accendeva in rapida sequenza.
Nel
periodo cruciale per la nascita dell’Italia moderna, quello che va dalla Prima
Guerra d’Indipendenza (1848), alla presa di Porta Pia (1870), i progressi del
gas furono, comunque, non solo milanesi, e l’introduzione e l’estensione dei
servizi di illuminazione a gas coinvolse un buon numero di città di tutto il
paese. Le società del gas italiane erano comunque in buona parte in mano a
capitali stranieri, francesi, inglesi e belgi. L’Union des Gaz era in
particolare una vera e propria multinazionale.
Energia del gas a Milano
Con
il trascorrere degli anni gli usi privati divennero prevalenti, tant'è
vero che nel 1881, per esempio, il consumo privato fu di 8 milioni di metri
cubi, quello pubblico di 1,6. Fra i consumatori privati cominciò ad essere
cospicuo il numero degli utenti industriali, in genere di piccole dimensioni,
che per le necessità di forza motrice dei loro stabilimenti, utilizzavano dei
motori a combustione interna[7]
alimentati a gas, molto più semplici e immediati da usare di una macchina a
vapore e della relativa caldaia (che impiegava ore per andare in pressione).
Come
osservava l'ing. Giuseppe Colombo, dopo aver calcolato
in circa 2000 cavalli vapore la potenza delle macchine a quel tempo impiegate
nell’industria milanese:
"Questa cifra comprende le macchine a gas, le quali vi portano ora, è vero, un
contingente assai piccolo; ma è un fatto che esse si vanno rapidamente
estendendo, e se dovesse, come pare probabile, diffondersene l'uso nella stessa
misura in cui si estende a Torino[8],
in breve esse verrebbero a rappresentare una forza cospicua".
L’aumento
dei consumi aveva richiesto alla Union des Gaz la costruzione di una
nuova officina di produzione, sempre fuori Porta Ludovica. Inoltre nel 1870 era
entrata sul mercato milanese una seconda società, la “Compagnia lombardo-veneta
per la carbonizzazione dei fossili terziari”, di Jean-Jaques di Guillet, che
aveva ottenuto l’esclusiva per la fornitura al Comune dei Corpi Santi (le zone
periferiche della città), che allora erano amministrativamente indipendenti, ed
alla stazione centrale delle ferrovie; a questo scopo aveva realizzato una
propria officina di produzione del gas nella zona di Porta Nuova[9].
Dopo poco più di
quarant'anni dalla sua introduzione a Milano, l’utilizzo del gas per
l’illuminazione cominciò una fase di declino a partire dai primi impianti di
illuminazione pubblica elettrica, attorno al 1883.
Nonostante la tecnologia dell’illuminazione a gas avesse compiuto un notevole
progresso, con l'invenzione, nel 1884, della reticella ad incandescenza Auer[10] che permetteva di ridurre notevolmente il consumo di gas a parità di
intensità luminosa, l’elettricità avrebbe un po’ alla volta scalzato il dominio
del gas (gli ultimi lampioni a gas sopravviveranno in città fino al
1922). A poco servirono l’opposizione della società del gas, le
battaglie legali ed anche le campagne pubblicitarie (si veda qui sotto il bellissimo manifesto di Giovanni
Mataloni del 1895, piuttosto osè per il suo tempo): la semplicità
impiantistica e soprattutto la pulizia dell’illuminazione elettrica si
sarebbero inesorabilmente affermate, nonostante i costi dell’elettricità
fossero inizialmente più alti di quelli del gas.
Intanto si preparava
quanto era tecnicamente necessario per la funzione principale che il “gas di
città” avrebbe avuto nel XX secolo, quella di una fornitura pratica e
conveniente di energia calorifica per usi civili ed industriali. Furono innanzi tutto perfezionati i
processi di produzione del così detto gas
d'acqua, con i quali si aumentarono notevolmente le rese energetiche
della gassificazione del carbone. Investendo il carbone incandescente in fase
di distillazione, o il carbon coke residuo, con getti di vapore si provocava la
scissione delle molecole d'acqua ed una combustione parziale, ottenendo così un
gas ricco di H2 (idrogeno) e CO (ossido di carbonio); questo gas non
era il migliore per l'illuminazione, in quanto dava una fiamma poco luminosa
(ed infinite furono le diatribe e le accuse di adulterazione ai produttori di
gas), ma aveva un buon potere calorifico. Così nel 1904 l’Union des Gaz
avanzò al comune la domanda di poter installare nelle proprie officine un
impianto per la produzione del gas d'acqua.
Nell’ultimo quinquennio
dell’800 il prezzo del gas si era comunque mantenuto sempre alto (nel 1891 fu
proposto anche l’aumento del dazio sul gas, oltre che su altri beni, per
diminuire il passivo del bilancio comunale), e questo provocò un malumore
crescente fra gli utenti, che si riunirono in comitati di protesta in tutti i
quartieri cittadini. Fu uno dei tanti motivi di disagio e malcontento che
portarono allo scoppio nei moti di piazza del 1898, che come è noto furono
stroncati a cannonate dal generale Bava Beccaris.
Nonostante
tutto, comunque, le condizioni di vita anche dei ceti popolari un po’ alla
volta miglioravano, mentre la città proseguiva nel suo tumultuoso sviluppo e
nell’incremento della popolazione. Così, dopo il 1900, l’aumento dei consumi di
gas per usi civili ed industriali si fece più deciso e la copertura del
servizio del gas sul territorio urbano quasi totale: infatti nel 1905 si
contavano 91.500 contatori (ormai si contabilizzavano i contatori, non più i
becchi) per circa 550.000 abitanti, con una rete di distribuzione di
circa 327 Km[11]. Era il risultato di una politica iniziata
ancora nel 1865, quando nel rinnovo della convenzione con il Comune l’Union
des Gaz si era impegnata entro due anni a portare la rete del gas "all'intiera città entro le mura... ed
estenderla ad eventuali zone esterne che in futuro dovessero passare sotto la
giurisdizione della città". La diffusione del gas, non solo come mezzo di
illuminazione, ma anche per cottura, produzione di acqua calda e altri usi
domestici[12] aveva
raggiunto ormai un'ampiezza tale da incidere sui costumi e la vita stessa della
città.
Si
tratta, val la pena di sottolinearlo, di una delle “comodità” fondamentali del
vivere moderno. Non bisogna infatti dimenticare che, prima del gas, per la
cottura dei cibi si faceva affidamento sui focolari, sulle stufe a carbone o
sui fornelli a carbonella di legna, tutte tecniche legate ad una pesante
necessità di rifornimento di combustibile e di accudimento al fumo e alla
sporcizia. Scaldare l’acqua per le necessità igieniche personali o
per fare il bucato era anch’essa una operazione complessa e faticosa, e questo
non contribuiva certo a rendere facile il mantenimento di condizioni igieniche
eccellenti.
La
coscienza che la fornitura del gas costituisse ormai un servizio di rilevante
importanza sociale e politica si espresse in molte città italiane nella
municipalizzazione delle locali società del gas (fu effettuata a La Spezia già
nel 1877, a Como nel 1894, a Padova e
Vicenza nel 1896). La fine del secolo è in effetti caratterizzato dal forte
movimento del così detto “socialismo dell’acqua e del gas”, a seguito delle cui
influsso verrà emanata nel 1903 la legge Giolitti sulla municipalizzazione dei
servizi pubblici. Questa legge vide il convergere degli interessi liberali e
socialisti (con il parere favorevole anche dei cattolici) in quanto i primi vi
vedevano la possibilità di un certo arginamento delle tendenze monopolistiche
nel campo di servizi essenziali a vantaggio della libera concorrenza, i
secondi la possibilità di creare una fonte di introiti alle finanze locali, a
vantaggio delle politiche sociali. La legge si inquadrò poi senz’altro nel
tentativo giolittiano di avvicinare i socialisti e di legarli al governo del
paese.
La
stessa coscienza era ovviamente ben presente fra i lavoratori del settore del
gas, che non mancarono di far sentire il peso del loro numero e della
importanza del loro servizio, per sostenere le loro rivendicazioni in occasione
del primo massiccio sciopero cittadino a Milano nel novembre del 1901, e del
primo sciopero generale nazionale del settembre 1904. Qualche anno più tardi,
nel 1909, una pesante agitazione dei gasisti avrebbe coinvolto tutte le grandi
città italiane, a testimonianza di quanto la fornitura di gas di città fosse
ormai entrata decisamente negli usi comuni.
A
Milano la possibilità di municipalizzare il servizio fu esaminata nel 1905, ma
fu respinta, in quanto giudicata troppo onerosa dalla stessa amministrazione
che si stava, nel frattempo, attivamente dando da fare per superare il
monopolio della produzione di energia elettrica (con la costruzione della
centrale elettrica comunale di piazza Trento).
Le officine del gas delle Bovisa
"Se ne stava ferma di fianco
alla siepe. Gli occhi fissi sull’acqua della cava, dove i fuochi e le ombre di
quel tramonto si rovesciavano come se sprofondassero nell’inferno. Anche la
sabbia e la ghiaia parevano accendersi di luce rossastra, prima di lasciarsi
vincere dall’ombra. Appena di là dalle fabbriche, dai camini e dai gasometri
della Bovisa, i treni della Nord passavano e ripassavano indifferenti e veloci." (G. Testori, Il Fabbricone, 1961)
La
produzione del gas rimase perciò monopolio della Union des Gaz, che in
quello stesso anno 1905 iniziò la
costruzione delle nuove e imponenti Officine
del Gas della Bovisa, capaci di una produzione di 300.000
metri cubi giorno, che avrebbero più che raddoppiato la disponibilità di gas in
rete, caratterizzando per decenni il panorama della periferia nord-ovest della
città.
Negli impianti della
Bovisa la distillazione del carbon fossile, che arrivava per ferrovia tramite i
collegamenti sia alle FF.SS., sia alle Ferrovie Nord Milano, avveniva
in camere di materiale refrattario, alte e strette, affiancate in lunghe
"batterie". In questi impianti, soprattutto le fasi di movimentazione
del carbone erano state in buona parte meccanizzate, così che si erano
notevolmente ridotte le necessità di personale. Il processo di distillazione
durava circa trenta ore ed andava accuratamente sorvegliato: infatti se la
temperatura di distillazione era troppo bassa rispetto al valore ottimale di
circa 800°C, si aveva la formazione di depositi catramosi, se era troppo alta le camere
si incrostavano di un duro strato di grafite che doveva poi essere
faticosamente rimosso a mano.
Le
camere di distillazione erano chiuse da portelloni che venivano aperti al
termine del processo; a questo punto il carbone coke residuo veniva scaricato
con una macchina di spinta e raffreddato.
Il
gas veniva raccolto da collettori in depressione e convogliato ad un primo
“processo di lavaggio in controcorrente” per la rimozione delle impurezze che
inevitabilmente si generano nel processo di pirolisi, e che devono essere
rimosse affinché il gas possa essere distribuito in rete senza creare problemi
alla rete stessa ed agli apparecchi che lo utilizzano (ad esempio, depositi o
incrostazioni, attacchi corrosivi, ecc.).
Raccolto in piccoli gasometri
polmone, passava ad un successivo processo di purificazione da benzolo ed
ammoniaca e quindi veniva inviato ai
grandi gasometri di accumulo. Il gas prodotto per distillazione veniva
miscelato a seconda delle necessità con altri tipi di gas, tipicamente gas
d'acqua prodotto con il coke stesso, ed era così pronto per essere immesso
nella rete, pompato da appositi compressori centrifughi.
Il
carbon coke residuo (un carbone leggero e poroso, di buon potere calorifico che
bruciava con una fiamma corta) era una delle fonti di maggior attivo per la
società produttrice, che lo rivendeva ai numerosi grossisti di carbone da
riscaldamento che operavano a Milano e provincia. Un altro sottoprodotto di un
certo pregio era un fertilizzante azotato che veniva ricavato dalle acque
ammoniacali derivanti dal lavaggio del gas. Si ottenevano anche solfato
ammonico, catrame, benzolo e toluolo che trovavano pronto impiego in una serie
di piccole industrie chimiche che si trovavano al contorno dell’impianto,
rendendo la Bovisa il primo polo chimico dell’industria milanese.
La
società Union des Gaz sopravvisse a Milano fino al 1920. Durante la
Prima Guerra Mondiale, e nei due anni che avevano fatto seguito alla sua fine
(l’eccitato “biennio rosso”), le difficoltà di approvvigionamento del carbone,
le tariffe calmierate e le agitazioni sindacali, avevano messo sempre più in
difficoltà la Union fino a costringerla a cercare l’apporto di nuovi capitali.
Era nata così una nuova società, che
assunse la denominazione “Società Gas e Coke”, dando un nuovo impulso allo
sviluppo degli impianti e della rete.
Nel
1931 un nuovo cambio di mano vide
subentrare la Edison, ormai divenuta
la più potente società elettrica italiana, che era molto interessata a
penetrare anche nel campo della produzione e distribuzione del gas; essa
stipulò con il Comune un accordo di concessione, dando avvio alla SASPEP
(Società Anonima Servizi Pubblici e Partecipazioni). Nel 1934 fu
definitivamente chiusa la vetusta officina di San Celso e la produzione del gas
si concentrò tutta alla Bovisa. Nel secondo dopoguerra gli impianti della
Bovisa vennero ulteriormente sviluppati e modernizzati, in modo da soddisfare
l’incremento della domanda. A questo scopo nel 1953 fu costruito alla Bovisa il terzo gasometro da 130.000 m3 ,
del tipo autoportante, senza traliccio esterno di guida, che si aggiunse agli
altri due costruiti rispettivamente nel 1906 e nel 1930. Questo imponente
manufatto ebbe un suo gemello nella zona est di Milano, alla Cavriana (v.le
Forlanini) dove già prima della guerra era stato costruito un primo gasometro
allo scopo di rendere disponibile un secondo polmone di accumulo del gas, necessario
per regolarizzare la pressione in una rete di distribuzione ormai di estensione
e complessità considerevoli.
Con i gasometri la
periferia di Milano, così come quella di tante altre città europee, si era
arricchita di costruzioni simboliche
che non mancarono di colpire la fantasia di scrittori e pittori (compaiono per esempio nelle famose periferie milanesi di Mario Sironi).
Alla
Bovisa la produzione del gas dal
carbone sarebbe cessata definitivamente solo nel 1969; da allora in poi la
produzione del gas di città sarebbe proseguita in un impianto meno complesso e più pulito del precedente,
che utilizzava un processo chimico così
detto di “reforming” del gas naturale o di distillati di petrolio.
Per
sessant’anni la Edison rimase per i milanesi sinonimo di gas, e lo rimase anche
dopo che questa storica società uscì parzialmente dalla scena cittadina con la
Nazionalizzazione della energia elettrica del 1963. Fu infatti solo nel 1981
che la Azienda Energetica di Milano, dopo anni di discussioni e rinvii,
riscattò dalla Montedison la gestione della rete del gas: una rete ormai
vecchia e tutta da ristrutturare, per poter passare dal "gas
manifatturato", che ormai tutti consideravano aver fatto il suo tempo, al
"gas naturale", cioè al metano. E’ dunque toccato all’AEM il compito e la capacità di effettuare i
grandi investimenti necessari per l'imponente opera di trasformazione di
quell'immensa ragnatela di tubi che la tenacia dei nostri nonni e padri aveva
costruito (la Edison, presagendo la sua fine imminente, non faceva più da molti
anni investimenti consistenti).
Così,
la definitiva conclusione della storia del "gas di città" a Milano si
è avuta nel 1994, dopo quasi 150 anni
dagli inizi, quando, terminata la decennale opera di metanizzazione dell'intero
territorio urbano, gli ultimi impianti di produzione del gas sono stati
disattivati ed i giganteschi gasometri della Bovisa sono stati definitivamente
svuotati, dando l’avvio ad uno dei più importanti progetti di riutilizzo e
riqualificazione di aree ex-industriali della nostra città.
La
rete cittadina del gas non è ormai più che una propaggine locale di una enorme
rete che copre capillarmente gran parte del territorio dell’Italia e
dell’Europa, e che ha le sue radici in luoghi ben più lontani delle officine di
San Celso o della Bovisa: Algeria, Russia, Mare del Nord.
E’ difficile prevedere
per quanti anni ancora in questa rete di tubi continuerà a circolare gas
naturale: il metano è ancora abbondante, e non è certo terminato il processo di
scoperta di nuovi giacimenti, ma prima o poi esso terminerà. La rete del gas
rimarrà comunque una costante del futuro delle nostre città, anche se in essa,
molto probabilmente, non circolerà più un gas naturale, ma di nuovo un gas
artificiale: forse idrogeno o forse di nuovo gas di carbone, non più
probabilmente prodotto in piccoli impianti locali, ma in enormi complessi
centralizzati.