A Tito Livio (59 a.C.-17 d.C.) siamo debitori della mitologia sulla fondazione
  di Milano tratta dal V libro della
  sua Storia di Roma dalla fondazione, iniziata su richiesta di Ottaviano
  Augusto tra il 27 e il 25 a.C.:
  
  
  
  34. Mentre
  a Roma regnava Tarquinio Prisco, il
  supremo potere dei Celti (...) era nelle mani dei Biturigi;
  questi mettevano a capo di tutti i Celti un re. Tale fu Ambigato, uomo assai potente per valore e ricchezza, sia propria che
  pubblica, perché sotto il suo governo la Gallia fu così ricca di prodotti e
  di uomini da sembrare che la numerosa popolazione si potesse a stento
  dominare. Costui, già in età avanzata, desiderando liberare il suo regno dal
  peso di tanta moltitudine, lasciò intendere che era disposto a mandare i
  nipoti Belloveso e Segoveso, figli
  di sua sorella, giovani animosi, in quelle sedi che gli dèi avessero
  indicato con gli àuguri. A Segoveso fu quindi destinata dalla sorte la Selva
  Ercinia, a Belloveso gli dèi indicarono una via ben più allettante, quella
  verso l’Italia. Quest’ultimo portò con sè il sovrappiù
  di quei popoli, Biturigi, Averni, Edui, Ambani, Carnuti, Aulerci. Partito
  con grandi forze di fanteria e cavalleria, giunse nel territorio dei
  Tricastini. Di là si ergeva l’ostacolo delle Alpi; e non mi meraviglio
  certo che esse siano apparse insuperabili, perché nessuno le aveva ancora
  valicate (...) Ivi, mentre i Galli si trovavano come accerchiati dall’altezza
  dei monti e si guardavano attorno chiedendosi per quale via mai potessero,
  attraverso quei gioghi che toccavano il cielo, passare in un altro mondo,
  furono trattenuti anche da uno scrupolo religioso, perché fu riferito loro
  che degli stranieri in cerca di terre erano attaccati dal popolo dei Salvi.
  Quegli stranieri erano i Marsigliesi,
  venuti per mare da Focea. I Galli,
  ritenendo tale circostanza un presagio del loro destino, li aiutarono a
  fortificare, nonostante la resistenza dei Salvi, il primo luogo che essi
  avevano occupato al loro sbarco. Essi poi, attraverso i monti Taurini e la
  valle della Dora, varcarono le Alpi; sconfitti in battaglia i Tusci
  non lungi dal Ticino, avendo sentito dire che quello in cui si erano
  fermati si chiamava territorio degli
  Insubri, lo stesso nome di un pagus
  degli Edui, accogliendo l’augurio del luogo, vi fondarono una città che
  chiamarono Mediolanum.
  
  
  
  35. Successivamente un’altra schiera, quella dei Cenomani,
  sotto il comando di Etitovio, seguì le tracce dei precedenti popoli e, col
  favore di Belloveso, passate le Alpi attraverso lo stesso valico, si stanziò
  nelle terre dove oggi sorgono le città di Brescia
  e di Verona.
  
  
  
  Che valore storico accordare al racconto liviano? Occorre tener presente che
  Livio raccoglie una narrazione che gli fa qualcuno, un custode della
  tradizione mediolanense, che è il vero storico; era molto probabilmente un
  Insubre che aveva appreso dai suoi avi la leggenda di fondazione della sua
  città. Quindi la voce narrante è di un mediolanense del I sec. a.C., forse
  appartenente alla casta dei druidi, membro però di una città romanizzata dal
  II sec. a.C. e da circa tre generazioni entrata a far parte del mondo romano
  con diritto di voto. Il nostro storico insubre utilizza parametri temporali chiari al
  collega di origini patavine e tali da poter situare la fondazione di Mediolanum nel tempo più antico possibile, ma non spiega come mai
  gli Insubri, che abitavano da secoli questa regione e avevano già le loro “città”
  (Golasecca e Como) accolgano con favore Belloveso e gli altri Galli e
  consentano loro di fondare una "capitale".
  
  
  Per
  comprendere come Livio utilizzasse il materiale racconto ci avvaliamo ancora
  della critica ineccepibile di uno studioso di letteratura romano, Michael
  Grant:
  
  
  (Livio)
  s’impegna in ricerche per riferire il vero, ha l’autentico spirito del
  ricercatore; cita le fonti più spesso di quanto non facciano gli altri
  storici antichi; controlla le sue asserzioni, sì che non pecchino di
  precipitazione; cerca spesso di operare un’abile scelta in favore di ciò
  che è plausibile e coerente... Tuttavia, l’uso che Livio fa delle fonti è
  sovente manchevole di senso critico. Nonostante il senso storico di Livio, una
  notevole parte della sua opera non è proprio storia, nel senso in cui
  accettiamo questo termine. Infatti, almeno
  i primi dieci libri hanno il sapore del mito.
  
  
  
  Livio è infatti così proteso verso l'oggettività storica da non cogliere
  quanto di mitico si celava sotto gli eventi che narrava: il “Re del Mondo”
  coi suoi due paredri, la prova di coraggio delle Alpi, il nome della città
  che gli Insubri permettono di fondare a Belloveso, "Mediolanum".
  Non nota neppure un fatto curioso: Belloveso, nonostante disponesse di
  fanteria e cavalleria, non conquista un territorio, che continua ad essere
  degli Insubri, e dopo la fondazione aiuta solo i Cenomani a stanziarsi a
  Brescia e a Verona. 
  
  
  Parlando
  di storia nel senso inteso dai Romani antichi si deve però tener presente
  che, se anche per loro è solo l'intervento divino a dare significato e
  fondamento superiore alla storia degli uomini, i miti sono tutti rivisitati in veste storica. 
  
  
  
  Le
  coordinate cronologiche
  La
  data in cui Tarquinio Prisco regnò a Roma è posta tra il 616 e il 579.
  Tarquinio apparteneva a una famiglia etrusca che aveva usurpato il potere ai
  re romani, quindi l'arrivo di Belloveso è posto in un tempo controllato dagli
  Etruschi e non dai Romani. 
  
  
  Nel
  capitolo precedente quello citato, Livio data gli avvenimenti relativi a
  Belloveso a circa duecento anni prima dell'invasione di Roma da parte di
  Brenno (387 a.C.) Una terza coordinata storica è fornita dall'informazione
  che la truppa di Belloveso aiutò i Marsigliesi attaccati dai Salvi a
  fortificare il luogo del loro sbarco, Massalia.
  Qui si aprono due letture possibili dell'episodio. 
  
  
  Massalia
  era nata come porto fenicio, abitato dalla fine del VII secolo dai 
  greci di Focea che lo avevano trasformato nel maggior emporio
  commerciale dell'Occidente. Massalia godeva di un entroterra fertile e di una facile via di
  penetrazione al nord grazie al Rodano. E' quindi possibile che i Salvi abbiano
  cercato di contenere l'espan-sionismo dei Focesi, che tentavano di occupare
  sempre più terre. 
  
  
  Livio
  scrive che Belloveso li aiutò a fortificare il sito dove loro erano sbarcati.
  Secondo questa lettura la traduzione cronologica si attesta tra la fine del
  VII e l'inizio del VI secolo a.C. L'altra lettura parte dal presupposto che i
  coloni combattuti dai Salvi siano i Focesi in fuga dalla madrepatria, invasa
  nel 546 dai Persiani. I transfughi avrebbero raggiunto i loro compatrioti di Massalia, ma avrebbero avuto bisogno di nuove terre. In questo caso
  l'arrivo di Belloveso nel territorio dei Salvi sarebbe da porsi alla metà del
  VI sec. a.C. In ogni caso, lo "storico insubre" voleva collocare
  l'episodio in un tempo dell'inizio,
  poco dopo la fondazione di Roma e negli stessi anni di quella di Massalia.
  Ricorriamo a un'osservazione di M. Eliade:
  
  
  un
  mito strappa l'uomo al tempo che gli è proprio, quello cronologico, storico,
  e lo proietta, almeno simbolicamente, nel Gran Tempo, in un istante
  paradossale che non può essere misurato in quanto non costituito da una
  durata. Si realizza così un'apertura verso il Tempo Sacro.
  
  
  
  Biturigi,
  i re del mondo
  Era
  il nome di una tribù stanziata nel centro della Gallia, che chiamava se
  stessa "i re del mondo", da bitu
  (o byth, byd) "mondo" e dal plurale della parola rix,
  "re". Chateau-meillant (Mediolanum)
  era il centro sacro dei Biturigi Cubi da cui viene fatto emigrare Belloveso,
  non lontano da Avaricum (Bourges),
  la loro capitale. I Biturigi Vivisci avevano come loro centro Meilhan
  sulla Garonna, verso Burdigalia
  (Bordeaux). Notiamo per inciso che il centro sacro non coincide, almeno in
  questi casi, con la capitale. Dire che il fondatore del mediolanum degli Insubri proveniva dai Biturigi, significava
  riconoscergli la regalità che gli veniva dall'appartenere ai "re del
  mondo", sufficiente per garantire la più nobile origine alla sua
  fondazione.
  
  
  
  
  Ambigato-Giano
  Ambigato,
  il re dei Biturigi, ha un nome costituito da ambi
  "due" e *catu,
  "battaglia": questo "re del mondo" è colui che combatte
  su due fronti come Giano per i
  Romani, che è il dio degli inizi e il signore del tempo, coi suoi attributi dello scettro (potere regale) e della chiave
  (potere spirituale). Ambigato è un re secondo l'antica radice *reg che è alla base di rex
  (latino) e rix (celtico): rix
  è chi traccia la linea celeste e quella terrestre per mezzo dello scettro
  augurale e chi traccia la retta via. Il racconto liviano parte da un re "dio degli inizi"
  per i Celti, come per i Romani  Giano
  era stato il primo re del Lazio e il fondatore della regalità nel mitico
  tempo delle origini. Ai suoi esordi, Giano era infatti “il buon creatore, il padre
  degli dèi”, come lo salutavano i sacerdoti Salii. Come per i Romani Giano
  era un dio iniziatore, l’unico in grado di consentire la continuità della
  tradizione primordiale, così Ambigato è all’origine della civilizzazione della
  Cisalpina, anche se manda un suo nipote a compiere la missione. E’ possibile
  che lo "storico insubre" interpretasse secondo i termini romani Ambigato come Giano per definire il re del tempo delle origini.
  
  
  
  
  Belloveso e Segoveso
  Sono
  i figli di una sorella di Ambigato. In Gallia i due fratelli furono spesso
  paragonati a Castore e Polluce, i Dioscuri, che nel periodo romano godranno di un culto diffuso in Gallia. Belloveso
  è il più splendente o illuminato, godendo della forza oracolare di Apollo, e Segoveso il più
  potente, come dire "forza e intelligenza". Si tratta quindi di una
  sola entità che viene duplicata per aumentarne gli attributi, secondo il
  principio protrattosi fino alle coppie di santi cristiani che “la duplicità
  conferisce qualcosa di amabile e che ispira fiducia”. I due fratelli (i gemelli non esistono come concetto presso i
  Celti) emigrano insieme e, alla confluenza fra Saonna e Rodano, fondano una
  città sul luogo indicato da un volo di corvi, animali oracolari di Lug, per
  cui la loro fondazione si chiamerà Lugdunum
  (Lione); lo Pseudo-Plutarco li chiama Momoros
  e Atepomaros (epiclesi di Apollo).
  
  Da questo punto le loro strade divergono, uno avviandosi lungo il corso del
  Rodano e risalendo poi per il Reno nella Selva Nera, l'altro seguendo la valle
  della Dora verso la Pianura Padana. Bisogna ricordare che “Apollo” come 
  divinità celtica  non è un dio solare. Belloveso,
  che essendo splendente viene erroneamente associato a un eroe solare, è in
  realtà un "eroe culturale", un "eroe civilizzatore" che
  non ha alcuna forza di per se stesso se non attraverso la Madre-Sole, reale
  detentrice della sovranità. L'eroe "splendente" Belloveso(Apollo)
  è in realtà un eroe-luna
  dipendente dalla madre-sole,
  sorella di Ambigato-Dispater; è per questo motivo che lo troveremo associato
  alla scrofa bianca, l’animale
  sacro a Belisama-Minerva e simbolo
  di Milano. Solo successivamente l'Apollo celtico diventerà lui stesso il
  sole, ma il periodo storico in cui si situa il racconto è ancora quello dei
  primordi, quando la cultura celtica era fondamentalmente notturna.
  
  
  
  
  Il
  ver sacrum o primavera sacra 
  Belloveso
  porta con sé il sovrappiù di una serie di popoli della Gallia. Alla
  tradizione liviana si aggiunge un'interpretazione del mito fornita da uno
  scrittore gallo-romano del I sec. d.C., Pompeo
  Trogo, secondo il quale l'invasione celtica in Italia è presentata come
  un ver
  sacrum latino. Questa lettura crea alcuni problemi, perché non si
  conosce nella tradizione celtica un altro ver
  sacrum, fatta eccezione per Lione che condivide con Milano la stessa
  leggenda. Il nostro "storico insubre" voleva forse sottolineare
  implicitamente il carattere sacrale e non militare dell'emigrazione guidata da
  Belloveso. 
  
  
  La
  "primavera sacra" era un antico rito indo-europeo originato
  dall'abitudine allo spostamento dei popoli nomadi preistorici. Divenuti ormai
  stanziali, ogni volta che un gruppo di persone decideva la conquista
  di nuove terre si faceva una cerimonia ben augurale. Il ver sacrum rappresentava la consacrazione agli dèi di animali e
  bambini che venivano alla luce nella primavera successiva. Divenuti adulti, li
  coprivano con un velo e li facevano
  uscire dal loro territorio. La presenza del velo li designa come consacrati a
  un dio - che per gli Italici era Marte - e assimilati
  ai morti, il cui viso veniva velato, per impedire loro di tornare
  indietro. Come sottolineava Dumézil, la pratica del ver sacrum
  prolungava, ormai in condizioni d'insediamento stabile, l'occupazione
  progressiva del suolo. Nel racconto mitologico, sotto la spinta di
  Giano-Ambigato si ha un'emigrazione senza ritorno, ossia un graduale
  spostamento di guerrieri verso nuovi territori.
  
  
  
  
  Gli
  Etruschi in Val Padana
  Sul
  Ticino Belloveso e i suoi si scontrano con gli Etruschi. La cronologia lunga
  che si attiene al brano liviano è stata respinta fino a poco tempo fa dagli
  archeologi perché era ritenuta impensabile una presenza etrusca in Val Padana
  nel VII-VI sec. a.C. Il fatto che Belloveso si fosse scontrato con dei Tusci
  per entrare in Val Padana faceva deporre per un ingresso dei Galli in un'epoca
  più recente di quella stabilita da Livio. 
  
  
  Nel
  1984 si rinvenne a Rubiera (RE) un cippo in arenaria finemente decorato che
  menziona uno zilath, un plenipotenziario etrusco a custodia del confine
  occidentale del territorio etrusco-padano, per sbarrare l'accesso ai Galli,
  che già da tempo commerciavano con l'Etruria. Nuovi scavi e ricerche sembrano confermare che nel VI secolo a.C.
  gli Etruschi avevano grossi interessi commerciali nell'area del Ticino, con
  una via di collegamento con la Gallia.
  
  
  
   
  
  
  
  Gli
  Insubri nella civiltà di Golasecca
  Secondo
  il racconto liviano Belloveso, appartenente ai “re del mondo”, si stanzia
  con il suo seguito nel territorio già occupato dagli Insubri: abbandona ogni riferimento alla sua tribù originaria e si
  inserisce in quella già stanziata. Belloveso riconosce gli Insubri come
  identici agli abitanti di un pagus
  (cantone) degli Edui e ciò gli
  sembra di buon auspicio per fermarsi. Gli Insubri erano stanziati in questo
  territorio almeno dal IX secolo a.C., ma lo "storico celtico" ci
  tiene a far sapere a Livio che discendevano dalla stessa stirpe degli Edui,
  fra i Galli i più vicini a Roma, e che fu lo stesso Belloveso a far stanziare
  a Brescia e a Verona i Cenomani,
  altri grandi alleati dei Romani.
  
  
  Gli
  Insubri appartenevano alla cultura di
  Golasecca, cosiddetta da una località vicino a Varese dove sono
  avvenuti i maggiori ritrovamenti celti in Lombardia. E' una cultura che si è
  sviluppata nella prima Età del Ferro tra il lago Maggiore e il Serio, avendo
  il Po come confine naturale a sud e che ha come corrispettivo centro-europeo
  la civiltà di Hallstatt. Dal IX al
  VII secolo la popolazione insubre preferì stanziarsi nella fascia pedemontana forse
  a causa della crisi climatica che, intorno all’XI-VIII sec. a.C. ha segnato
  l’inizio del periodo subatlantico, con clima più freddo e piovoso: l’impaludamento
  delle aree pianeggianti e l’azione erosiva nelle valli dovevano aver limitato
  l’area ideale per gli insediamenti.
  
  
  
  Mentre
  Como ebbe il suo “Medhelan”
  identificabile forse nell’attuale Melano
  sopra Mendrisio, Milano fu il santuario della zona di Golasecca, per la quale
  disponiamo di informazioni desunte solo dalle sepolture. Oltre alle solite
  urne cinerarie, anche qui due tombe di nobili hanno restituito a Sesto Calende
  un carro a due ruote, morsi e briglie per due cavalli e il corredo da
  combattimento, databili proprio all'epoca dell'arrivo di Belloveso, fine
  VII-inizi VI secolo a.C. Gli oggetti contenuti nelle due tombe di Sesto Calende dimostrano
  l’ampiezza degli scambi commerciali intrattenuti dagli Insubri, con oggetti
  d’importazione etrusca, picena e transalpina sia orientale (Stiria) che
  occidentale.
  
  
  Dire
  che Belloveso e i suoi si fermarono nel pagus
  degli Insubri non indica un luogo preciso (Mediolanum),
  ma una regione già inserita in una proficua rete commerciale e con un tenore
  di vita abbastanza alto e socialmente differenziato. I due centri di Golasecca
  e Como decaddero all’inizio del IV sec. a.C., in concomitanza con l’arrivo
  dei Galli guidati da Brenno e con la preferenza accordata al Medhelan degli Insubri per la sua centralità nella pianura.
  
  
  
  
  Mediolanum 
  Questo
  è il nome che Livio riporta, già tradotto dal celtico Medhelan, dove medhe
  (poi medio) sta per "centro" e lanon
  significa "santuario", rimasto nei toponimi gaelici attuali come llan,
  "chiesa", llawn
  "perfezione". Il sanscrito madhya-lan significa "la terra sacra del mezzo". La
  fondazione non riguardò quindi una città, bensì un centro religioso, un centro
  sacro, che si univa alle proto-città di Como e Golasecca. Il nostro
  "storico insubre" non informa Livio sul significato del nome o sulla
  particolarità della fondazione, il che confermerebbe, secondo il racconto di
  Polibio del II sec. a.C., scritto dopo la conquista romana, che il santuario
  si era già trasformato in un centro abitato, probabilmente in seguito alle
  successive invasioni o migrazioni del IV secolo a.C. Quindi Mediolanum
  era diventata una metropoli dall'inizio del IV sec. a.C., ma c'era stato un
  tempo, forse proprio nel VI secolo, in cui era stata solo un Medhelan.
  
  
  In
  conclusione, lo "storico insubre" che narrò il mito di fondazione
  di Milano a Livio parlò di un'età dell'oro in cui un re del mondo - ma anche
  re dall'eternità - inviò un nipote assimilabile ad Apollo a fondare un
  santuario per un popolo destinato dal nome a diventare un valido alleato
  romano. Lo "storico" o lo stesso Livio forniscono una serie di
  coordinate storiche, che forse non sono in antitesi col mito, perché il VI
  sec. a.C. poteva sembrare nel I sec. a.C. il punto di ogni inizio, l'origine
  di ogni civiltà. Siamo quindi a nostro parere in pieno mito, quasi in una
  teogonia, ma
  in ogni tradizione mitologica - ed è ancor più vero presso i Celti - bisogna
  sempre domandarsi se il mito non nasconda una certa realtà storica, sia
  attraverso la divinizzazione di personaggi insigni, sia perché il mito, per
  essere comprensibile, deve materializzarsi nella storia.
  
  
  Limitarsi
  ad affermare che il racconto è solo mitico permetterebbe di esaminare meglio
  le competenze proprie del mito, ma significherebbe anche privarsi di
  un'apertura sul reale. Le ipotesi infatti sono due: o il racconto di Livio
  maschera più prosaicamente l'arrivo in Italia di bande di mercenari celti
  attirati dalla ricchezza degli Etruschi, o siamo in presenza di una fondazione
  sacra, che attinge a una mitologia di fondazione.
  
  
  
   
  
  
  
  
  
  Nel mondo celtico si conoscono diversi luoghi sacri, divisi essenzialmente tra
  nemeton
  e Medhelan. Il termine latino nemus
  (gr. nemos) indica una foresta in
  cui sono compresi dei pascoli, un boschetto e un bosco sacro. A sua volta il bosco sacro comprendeva una radura, con gli alberi
  venerati messi in evidenza. La radice *nem-
  contiene l'idea di separazione, di isolamento per cui un nemus è uno spazio separato e riservato al dio; ma per i Celti *nem-
  indicava soprattutto il "cielo", per cui il nemeton
  celtico viene ad essere il "paradiso terrestre" o un "frutteto
  meraviglioso", come risulta dalle leggende celtiche. Il nemeton
  è quindi uno spazio aperto e coperto d'erba in una foresta e
  contemporaneamente il tempio druidico, con o senza foresta.
  
  
  C.J.
  Guyonvarc'h sottolinea il carattere celeste e interpreta il nemeton
  come "curvatura, volta", ossia uno spazio che ripropone ritualmente
  la volta siderale coi suoi fenomeni. Per fondare un santuario si cominciava
  col riconoscere i campi celesti, poi li si identificava nella geografia
  terrestre. Il nemeton andava "cosmizzato"
  con riti che ripetevano simbolicamente l'atto della creazione per tener fuori
  il caos.
  
  
  Un Medhelan
  è un santuario al centro
  di una serie di coordinate terrestri e astrali al quale confluiscono i druidi
  e la popolazione in particolari momenti celebrativi. Il centro è già in sé
  un'origine, il punto di partenza di tutte le cose; se è all'interno di un
  cerchio, il centro è il simbolo del principio e il cerchio quello del mondo.
  Un Medhelan può essere circondato
  da un nemeton.
  
  
  In
  Europa esistono un centinaio di Mediolanum,
  per i quali non è stata ancora avviata una ricerca sistematica di raffronto
  archeologico e di tradizioni locali. Certo è che l’interpretazione del nome “mediolanum”
  come di “in mezzo alla pianura” non regge al confronto con gli altri
  centri omonimi europei.
  
  
  
  
  
  Nel 1928 A. Colombo aveva suggerito che il centro pre-romano andava cercato
  nell'area intorno alla Scala per motivi più che altro toponomastici: via
  dei Due Muri si riferiva forse ai muri affiancati dell'area pre-romana e
  della successiva città romana; la via Andegari
  ricordava il nome del biancospino, pianta sacra; il primo monastero benedettino, sorto sul perimetro di questa
  ellisse, ebbe il nome di S. Protaso ad
  monachos o alla rovere,
  indicando così la presenza di querce. Quello che sfuggì allo studioso
  di storia milanese fu lo strano andamento
  a forcella di una delle strade più antiche romane (II sec. a.C.), quella
  corrispondente all'attuale corso Vittorio Emanuele - piazza Duomo - Cordusio -
  via Broletto, così insolito per le dirittissime strade romane di pianura che
  non trovino impedimenti naturali come laghi o montagnole. 
  
  
  Osservando
  le piante di Milano fino alla costruzione della Galleria Vittorio Emanuele
  salta gli occhi come intorno a piazza della Scala, seguendo i confini
  suggeriti dal Colombo su basi toponomastiche, vi sia effettivamente l'impronta
  di un'ellisse, divisa in due da via Manzoni-via S. Margherita.  Le
  dimensioni sono di m 443 per l'asse maggiore e m 323 per il minore. All’interno di questa ellisse gli scavi che si sono succeduti
  dall’Ottocento ai nostri giorni non hanno fornito che scarsissimo materiale
  e tutto risalente all'età imperiale romana, mentre per il periodo precedente
  si ha traccia di vegetazione . 
  
  
  La
  strada a forcella sembrerebbe ricalcare una più antica glareata celtica, in
  direzione verso Como da un lato e verso Bergamo dall'altro. La strada che
  divide l'ellisse (via Manzoni-via S. Margherita) prosegue in direzione per il
  Ticino. Al di sopra dell'ellisse si può supporre l'esistenza di un'altra
  circonvallazione in direzione Novara verso ovest (tratto scomparso) e Pavia verso sud,
  rimasto nel tratto di corso di Porta Vigentina.
  
  
  
  
  La
  rete viaria
  Questo
  sistema viario costituisce, a nostro avviso, l’origine della successiva
  centralità commerciale di Milano. Ne ha riconosciuta l’importanza Pierluigi
  Tozzi, che ha studiato la rete viaria di Milano attraverso la testimonianza
  degli itinerari, delle pietre miliari e della toponomastica. I collegamenti più antichi erano con Como-Golasecca e
  Bergamo-Brescia per il settore settentrionale. La via per Como,
  in uscita dall’attuale via Broletto, raggiungeva la Val Bregaglia attraverso
  i passi del Maloia oppure Coira attraverso lo Spluga e quindi le aree renane e
  danubiane. All’altezza del Ponte Vetero si diramava la strada per la zona di
  Golasecca-Sesto Calende-Castelletto
  Ticino, un collegamento inevitabile dato che il Medhelan serviva per i raduni di queste popolazioni. 
  
  
  
  La
  strada per Bergamo-Brescia si diramava all’altezza dell’antico compitum
  romano (via S. Paolo-ang. c.so Vitt. Emanuele) e attraverso via Cavallotti,
  Battisti, Fontana, Anfossi, arrivava a Ponte Lambro, superava l’Adda per
  Roncadello e Moscazzano fino a S. Bassano oltre il Serio e finiva ad Acerrae
  (Pizzighettone), venendo prolungata nel II secolo fino alla colonia romana di
  Cremona.
  
  
  In
  direzione sud il collegamento avveniva inizialmente attraverso la via
  Vigentina, che scendeva attraversando il compitum
  romano e conduceva verso il Po in direzione di Pavia. In età romana questa
  via verrà abbandonata per quella in uscita da Porta Ticinese.
  
  
  L’ultima
  direttrice era quella per Vercelli-Eporedia-Susa e il Gran S. Bernardo con la Gallia Transalpina.
  
  
  Sfortunatamente,
  come già evidenziato, gli Insubri sono terribilmente avari di testimonianze e
  giustificare l'esistenza del santuario su pure basi archeologiche sarebbe
  stata un'impresa impossibile, nonostante l'evidenza topografica, se non fosse
  venuta in soccorso una branca recente dell'archeologia, l'archeo-astronomia.
  
  
  
   
  
  
  
  L'orientamento
  secondo il calendario astronomico 
  
Nel
  dicembre 1997 due archeo-astronomi di Brera specializzati nello studio dei
  santuari celtici, Silvia Cernuti e Adriano Gaspani, presero in considerazione
  l'ipotesi formulata dalla scrivente nel 1991 circa l'ubicazione del santuario
  insubre e dello sviluppo della città romana.
  
  
  Gli
  assi dell'ellisse sono apparsi ai due archeo-astronomi come posti lungo delle
  direttrici astronomiche di particolare interesse per il mondo religioso
  celtico. L'asse da via Boito in direzione via S. Raffaele coincide con la
  direzione della levata eliaca di Antares nella costellazione dello Scorpione, ossia
  col punto dove l'astro faceva la sua comparsa nel cielo prima del sorgere del
  sole durante la festa di Samain
  (pr. scio-uin). Antares, stella
  rossa, è posta alla fine della via Lattea, motivo per cui veniva considerata
  la porta per l'aldilà.
  
  
  Questa
  festa era la principale dell'anno celtico perché segnava la fine dell'anno e
  l'inizio di quello nuovo, con un intervallo fuori dal tempo in cui gli esseri
  umani venivano in contatto con l'altromondo, il sid.
  La festa durava una settimana: tre giorni prima della festa, il giorno stesso
  e tre giorni dopo. Nel VII-VI secolo a.C. la levata eliaca di Antares si
  verificava intorno all' 11 novembre,
  rimasta nel calendario cristiano come "estate
  di S. Martino". Lo stesso punto coincide con il sorgere
  del Sole al Solstizio d'Inverno,
  evento astronomico interessante nel più moderno periodo romano, soprattutto
  dopo la riforma giuliana.
  
  
  Lungo
  lo stesso asse ma guardando verso via del Lauro si ottiene un altro punto
  astronomicamente significativo: il tramonto
  del Sole a Beltane, la festa
  dei fuochi, che nel VI secolo a.C. cadeva intorno al 6 giugno. La festa si
  perpetuò nei fuochi di S. Giovanni il 24 giugno e nei fuochi di S. Vito il 15
  giugno, il che dimostrerebbe che la data del 1° maggio per Beltane risale a
  necessità di razionalizzazione del calendario giuliano. In questo stesso
  punto si segnalò in età romana il tramonto del sole al Solstizio
  d'Estate con l'erezione dell'arco di Giano
  quadrifronte.
  
  
  L'altro
  asse dell'ellisse è lungo via Manzoni-via S. Margherita. Qui, volgendo lo
  sguardo verso piazza Cavour, si assisteva alla levata
  eliaca di Capella, nella costellazione dell'Auriga, che secondo la teoria
  Cernuti-Gaspani dava avvio alla festa di Imbolc.
  Nel VII secolo il giorno cadeva il 24
  marzo, una festa della primavera.
  
  
  L'orientamento
  dell'ellisse permetteva quindi di fissare come un grande calendario ben tre
  feste celtiche di grande importanza: Imbolc,
  Beltane e, la più importante, il
  capodanno di Samain, quando si
  portava a casa il nuovo fuoco del falò sacro, si facevano previsioni sul destino del consultante e si uccidevano
  gli animali che sarebbero stati consumati in inverno. Il falò sacro serviva anche a sostenere le forze della crescita
  della natura che altrimenti il freddo invernale avrebbe eclissato. Anche l'uso
  a capodanno dei sempreverdi è connesso al fatto che, in origine, li si
  portava in processione sui campi, come prova che la vita della natura non si
  era spenta .
  
  
  
  Una
  rigenerazione periodica del tempo presupponeva, sotto una forma più o meno
  esplicita, una ripetizione dell'atto cosmico oltre all'estinzione del fuoco e
  alla sua rianimazione rituale in una seconda parte del cerimoniale; si
  dovevano fare combattimenti cerimoniali tra due gruppi di comparse o orge
  collettive o processioni di uomini mascherati, rappresentanti le anime degli
  antenati che ritornavano dal sid. Durante queste manifestazioni le anime dei morti si
  avvicinavano alle abitazioni dei vivi, che venivano loro rispettosamente
  incontro e le circondavano di omaggi, per poi ricondurle in processione al sid. Le credenze che i morti ritornino presso la loro famiglia nel
  periodo dell'anno nuovo denotano la speranza che l'abolizione del tempo sia
  possibile in quel momento mitico in cui il mondo viene annullato e ricreato. La morte rituale dell'uomo e dell'umanità sono indispensabili per
  la loro rigenerazione, perché le divinità della fertilità esauriscono la
  loro sostanza nello sforzo impiegato per sostenere il mondo e assicurargli la
  sua abbondanza. Lo stretto collegamento con la produzione agricola lo si deduce
  anche dall'osservazione che nella maggior parte delle società primitive
  l'"anno nuovo" equivaleva all'abolizione
  del tabù al nuovo raccolto, che veniva proclamato commestibile per tutta
  la comunità. Dove si coltivavano diverse specie di cereali o frutti, la cui
  maturazione si scaglionava in più stagioni, si assisteva a diverse feste
  dell'anno nuovo. Questo significa con una bella espressione che "frazioni
  del tempo" erano ordinate dai rituali che presiedevano al rinnovo delle
  riserve alimentari.
  
  
  
  Ammesso
  che la forma ellissoidale intorno a piazza della Scala rappresenti un Medhelan e che l'orientamento coincida con le posizioni astronomiche delle feste più
  significative celtiche, resta da capire il motivo della fondazione di un
  santuario in un luogo neppure troppo vicino ai due centri più abitati di
  Golasecca e Como. Perché improvvisamente si decida di fondare un santuario
  occorre una ierofania, un evento strabiliante che deve rimanere per sempre a
  ricordo dell'accaduto. Siamo debitori ancora ai due archeo-astronomi Cernuti e
  Gaspani della rilevazione che nel 582
  a.C. si verificò nell'emisfero settentrionale per ben due volte nell'arco
  di un mese (21 luglio e 19 agosto del calendario giuliano) l'allineamento di
  tutti i pianeti lungo la coordinata 280°
  WNW, coincidente con il nostro asse dell'ellisse in uscita da via del
  Lauro. Resta da verificare se anche gli altri santuari che nell'Europa celtica
  portano il nome di Mediolanum hanno
  avuto lo stesso evento scatenante.
  
  
  L'individuazione
  di un nemeton da parte degli
  Insubri, ossia di una radura circondata naturalmente da alberi, con un
  orientamento particolare e con una dimensione adeguata, può aver richiesto
  anche una decina di anni e può essere coincisa con l'arrivo dei Galli di “Belloveso”,
  considerando benaugurale l'evento. Difficilmente potremo mai ricevere una
  conferma al riguardo.
  
  
  
   
  
  
  
  
  
  Il
  raduno festivo
  Un Medhelan
  è innanzi tutto un luogo
  di raduno in particolari occasioni: il capodanno, le feste maggiori e i
  consigli di guerra. E’ custodito dalla casta dei druidi,
  termine col quale si designano i sacerdoti ma anche la classe dirigente in
  genere. Per il resto dell’anno un Medhelan torna a essere una radura, seppur consacrata. Non è facile capirne l’organizzazione.
  Anche Maria Riemschneider si chiede, relativamente ai santuari, dove dormivano
  i pellegrini, dove mangiavano:
  
  
  era
  necessaria una grande sala. Conosciamo molto bene questi locali negli epos dei
  Celti insulari. Il materiale con cui sono costruite è molto deteriorabile,
  sono pareti intrecciate. Al centro c’è il calderone, nel quale sono bolliti
  pezzi di carne di maiale e di manzo. I Celti non sanno arrostire. La persona
  più importante prende per prima il pezzo migliore dal gigantesco calderone.
  
  
  
  Poco distante dall’ellisse, lungo la strada per Pavia (la Vigentina), si
  creò in coincidenza con il punto segnato dalla levata eliaca di Antares uno
  spazio rituale che la tradizione ha successivamente tramandato come anfiteatro
  del Brolo, ingenerando confusione presso gli studiosi più antichi e
  critiche dai moderni. Teniamo per tutte la dizione “fantasiosa” di Galvano
  Fiamma:
  
  
  amphiteatrum
  fuit haedifitium rotundum altissimo muro circumspectum, in quo erant due
  porte. Una
  versus oriens, altera versus occidens.
  
  
  
  Parlando
  del suo uso nei tempi antichi, il Fiamma spiega che, quando
  scoppiavano delle liti, invece di risolverle in tribunale davanti a un
  giudice, si scendeva in campo a combattere:
  
  
  se illi duo
  inter quos erat questio in equis albis cum galleis aureis, alter per portam
  orientis, alter per portam occidentis calcaribus urgentes destrarios, in
  tantum astiis et gladiis perseveranter dimicabant, quousque in alterius mortem
  prosiliret. Unde in ista civitate antiquitus non fuit opus lege ubi insanins
  gladius disputabat.
  
  
  
  Il Flos florum chiarisce che “erat
  istud amphiteatrum positum, ubi nun est Brolium”, e ne attribuisce la committenza al senatore Gabinio, inviato dal senato romano al tempo di Pompeo Magno, invece
  il Besta sostiene che questo edificio risaliva al periodo precedente l’arrivo
  dei Romani,  
  
  
  quando
  Milano era senza leggi, senza tribunali di giustizia, senza dottori e senza
  causidici.
  
  
  
  Premesso che l’anfiteatro come edificio non può che risalire all’epoca
  romana, è la funzione di luogo di giustizia che lo collega al tempo
  pre-romano. E’ probabile infatti che si trattasse di uno spazio, in
  collegamento col cimitero dell’Età del Ferro sull’area del Policlinico,
  dove gli Insubri tenevano i giochi funerari. I Celti ignoravano i ludi gladiatori, ma avevano
  gli andabata, gladiatori ciechi, che
  combattevano in occasione di funerali di nobili oppure durante le
  feste di Samain e di Lugnasad, la seconda della durata di quindici giorni,
  nel corso dei quali si organizzavano corse dei cavalli, gare di poesia e si
  tenevano assemblee legali e giuridiche. Mentre la parte assembleare può
  essersi svolta nel Medhelan, per l’aspetto
  più sportivo, ludico o di combattimento può essere stata riservata quest’area.
  Nel mondo celtico non esisteva il diritto pubblico, tutto era basato sul
  diritto privato; se non si arrivava a una definizione amichevole, le
  controversie si risolvevano con duelli giudiziari e con ordalie. 
  
  
  
  Se
  il collegamento fra i giochi funebri e il capodanno di Samain con l’area
  cimiteriale può essere immediato, meno comprensibile risulta l’utilizzo
  della stessa area per i giochi estivi di Lugnasad, la grande assemblea annuale
  celtica in occasione del raccolto. I giochi
  funebri di Lugnasad sembrerebbero connessi con l’usanza di fare un
  sacrificio allo spirito del grano. Alcuni defunti venivano commemorati a
  Lugnasad perché
  come lo spirito del grano veniva ucciso durante la mietitura, così le vittime
  umano erano placate dal suo sacrificio.
  
  
  
  In occasione delle feste arrivavano al Medhelan anche i coltivatori per scambiare i prodotti alimentari con gli oggetti
  artigianali. Il luogo di culto viene abbinato così sin dalle origini al
  mercato. 
  
  
  Il
  ponte 
  All’anfiteatro
  del Brolo la tradizione locale collega un altro enigmatico edificio, il Pons necis al Bottonuto.
  Il ponte è una reminiscenza di un passaggio provvisorio esistente quando
  nella zona vi era un acquitrino, trasformato poi in darsena dai Romani. Scomparso l’acquitrino, il ponte, per conservarsi così
  tenacemente nella memoria collettiva cittadina, potrebbe rimandare a tempi
  ancestrali, alla religiosità druidica, per la quale il tema del ponte o del
  guado da attraversare è un elemento essenziale, che Mircea Eliade così
  spiega:
  
  
  
  In
  illo tempore,
  in tempi paradisiaci dell’umanità, un ponte collegava la terra al cielo e
  si passava da un punto all’altro senza incontrare ostacoli, perché non vi
  era la morte. Adesso non si passa più sul ponte, se non in spirito. Solo i
  buoni e gli iniziati lo attraversano, perché hanno subito la morte e la
  risurrezione rituali.
  
  
  
  Il ponte poteva essere collegato alla festa di  Samain, che era di per sé il
  ponte dell’alba dei tempi, ricostituito per tre notti. Riassumendo in
  termini di memoria collettiva, il
  ponte è un elemento archetipico, il panthah
  vedico, ossia “cammino angoscioso e pericoloso” che solo pochissimi sono
  in grado di percorrere senza aiuto, ponte collegante le due rive del cielo e
  della terra separate dalle acque della manifestazione.
  
  
  
   
  
  
  
  
  
  La
  scrofa “semi-lanuta”
  
L'animale
  simbolo di Milano (prima dell'avvento del biscione visconteo) era la scrofa
  “semilanuta”. Se togliamo la qualifica "semi-lanuta" derivante
  da Medio-lanum, resta pur sempre la scrofa. L'Alciati narra che quando
  Belloveso giunse in Insubria, elesse sette savi che consultarono l'oracolo per
  sapere in quale luogo dovessero fare le fondamenta. La risposta dell'oracolo
  fu "che una scrofa ricoperta di lana segni il principio e il nome della
  città".
  In
  realtà il luogo non è mai scelto dagli uomini, ma solo "scoperto":
  lo spazio sacro si rivela a loro tramite l'orientamento astronomico e grazie a
  un animale che, lasciato libero, viene sacrificato nel punto in cui viene
  trovato il giorno dopo. Per i Celti la dea solare Belisama
  aveva come ierofania una scrofa bianca,
  soppiantata successivamente dal cinghiale
  bianco, sacro al dio solare Lug.
  Come la scrofa era legata al ciclo lunare, così il cinghiale era connesso a
  quello solare e all'aggressività dei guerrieri. I Celti seppero armonizzare
  nella loro spiritualità il regno lunare della scrofa con quello solare del
  cinghiale; entrambi gli animali avevano il dono di guidare oltre le porte del
  mondo visibile, per cui potevano essere utilizzati per individuare il nemeton
  in cui costruire il santuario. Data l'epoca arcaica in cui venne fondato il
  santuario degli Insubri e la prevalenza dei culti lunari su quelli solari
  nella religiosità dell'epoca, è possibile che sia stata veramente una scrofa
  bianca l'animale-simbolo di Milano e che il santuario fosse dedicato a Belisama
  (poi Minerva). 
  
  
  
  
  
  Il
  culto delle pietre
  Per
  tutto il periodo che intercorre dal VI sec. a.C. al IV a.C. non possiamo che
  fare considerazioni generali sulla religiosità celtica servendoci però del
  materiale fornitoci dalle leggende e dalle tradizioni locali. 
  
  
  Uno
  dei culti che si prolunga in un certo senso fino ai nostri giorni è quello
  delle pietre. Non è che i sassi in sé e per sé siano mai stati oggetto
  di culto, ma lo diventarono in quanto rappresentavano qualcosa o provenivano
  da un luogo intriso di sacralità. I concili del IV secolo condannarono
  ripetutamente il culto delle pietre, oltre che delle fonti e degli alberi
  (condanna ribadita fino al VII secolo, segno di persistenza dei culti). Presso
  i Celti si conosce l’uso di pietre durante le cerimonie d’insediamento dei
  capi, i quali salivano su di esse e
  giuravano di seguire le orme dei
  loro predecessori; sulla pietra era inciso un paio di piedi a rappresentare
  quelli del primo capo. 
  
  
  Le
  chiese di S. Nazaro Pietrasantae di
  S. Vittorello a Porta Romana conservavano due pietre legate al culto ambrosiano:
  sulla prima Ambrogio salì per
  montare a cavallo, sulla seconda si accasciò dopo aver inutilmente tentato la
  fuga per sottrarsi alla sua elezione a vescovo. 
  Possiamo quasi sicuramente affermare di essere in presenza di un antico
  culto pagano esaugurato dall’abbinamento alla carisma-tica figura del santo
  milanese.
  
  
  
  Le ruote
  o pietre forate
  A
  un’altra categoria di pietre cultuali appartiene la ruota o pietra rotonda forata, presente a Milano come  pietra del
  
  Tredisin de Mars  e pietra di S. Stefano. La pietra del Tredesin è associata al culto di S. Barnaba e agli
  esordi della Chiesa milanese. Si tratta di una pietra rotonda, con un buco in mezzo e una
  raggiera di tredici linee, oggetto di grande venerazione nei secoli. Il fatto
  che sia da sempre stata abbinata a S. Barnaba, colloca il culto in tempi
  remoti. La ruota era conservata in origine in S.
  Dionigi a Porta Venezia.  
  
  
  
La
  pietra forata ha un valore particolarissimo, risalente all’India vedica. Il
  foro nella pietra si chiama “porta della liberazione”, attraversando la
  quale l’anima può passare oltre e salvarsi. La pietra può quindi essere appartenuta a un primitivo luogo di
  sepoltura, anche se non necessariamente a un’area cimiteriale. Su un fodero
  in bronzo di una spada hallstattiana si vedono due guerrieri intenti a far
  girare una ruota, che Maria Riemschneider ritiene rappresentino una scena
  rituale, legata all’immortalità che il guerriero si attendeva. Le ruote
  venivano deposte per lo stesso motivo nelle tombe. 
  
  
  
  Ruote di fuoco (di sangue)
  L’altra
  pietra, o meglio ruota degli Innocenti,
  era legata nella tradizione agli scontri fra ariani e cattolici all’epoca
  del vescovo Ambrogio: col sangue
  dei cattolici si sarebbe formata una ruota che, rotolando
  per le strade, si sarebbe fusa sulla facciata della cappella degli
  Innocenti, nel cimitero di Porta Tonsa al Verziere. Un’altra ruota simile
  si trovava nella vicina chiesa di S. Giacomo detto Rodense. Le due ruote
  potrebbero quindi essere simili a quelle del Tredesin e appartenere all’area
  cimiteriale di S. Antonino (area Policlinico) risalente all’età del Ferro.
   
  
  
Ma
  l’accenno alla ruota di sangue rimanda a un’altra zona di antica tradizione
  cultuale celtica, l’area di S.
  Vincenzo in prato e S. Calogero a Porta Ticinese. A S. Vincenzo siamo in
  presenza di un nemeton di olmi, un
  tempo la pianta più diffusa a Milano, nel quale si rendeva omaggio alla
  divinità celtica assimilata dai Romani a Giove, Taranis,
  il dio del cielo burrascoso, il signore del fuoco celeste (folgori), ma anche
  della fertilità apportata dalla pioggia,
  che forma addirittura un pozzo sacro,
  in età cristiana dedicato a S. Calogero. Negli Atti di S. Vincenzo
  si trova un riferimento a un’usanza, secondo la quale veniva fatta rotolare
  una ruota infuocata fino al fiume
  perché si spegnesse nell’acqua e quindi veniva esposta nel tempio del dio
  Taranis.
  
  
  La
  ruota di sangue può essere quindi un ricordo della ruota infuocata fatta
  rotolare in occasione delle feste di mezza estate per richiamare la fertilità
  dei campi. Qualcosa lascia intendere che il simbolismo di Taranis fosse
  associato alla festa di Beltane in giugno: si facevano rotolare le ruote infuocate per magia
  imitativa. Poiché la ruota passava attraverso i campi, si sperava che ne
  sarebbe seguita la diretta azione benefica del sole su di essi. La ruota
  fiammeggiante o i resti delle fiaccole accese gettati al vento avevano l’effetto
  di portar via la negatività accumulata. A Beltane inoltre si facevano incantesimi per la pioggia, andando
  in pellegrinaggio alle sorgenti sacre e aspergendone i campi per favorire le
  piogge.
  
  
  Il
  nemeton venne in epoca romana
  ridedicato a Giove, al quale la divinità celtica era stata assimilata. Scrive
  il Torre:
  
  
  Vogliono
  alcuni storici che in questo sito abbia avuto Milano i suoi principi, così
  gli imperatori residenti in tal città quivi fecero innalzare le loro superbe
  abitazioni e come idolatri che erano, vollero veder vicino anche il tempio di
  Giove e di ciò ve ne daranno sicura certezza alcuni pezzi di marmo bianco
  incastrati nelle mura della casa del piovano, disseppelliti dai vicini
  vigneti.
  
  
  
  
  Pozzi
  e acque
  Il
  pozzo di S. Calogero è inserito nella leggenda dell’eremita Calogero e dei
  soldati bresciani Faustino e Giovita, che il Torre così racconta:
  
  
  ...sotto
  l’altare (della chiesa) correvi un fonte, da cui sovente con attingere delle
  sue linfe se ne riportano aiuti per la propria sanità. Chiamasi chiesa di S.
  Calozero perché quivi tal santo sofferse per ingiusta sentenza di Adriano
  imperatore, ma per divina mano liberatosene. L’anno 134 ritrovavasi egli in
  Milano insieme coi santi Faustino e Giovita, forzati tutti ad acconsentire
  alla inchieste idolatre di giudici, ma essi ripugnando intrepidi l’acconsentimento
  sotto il consolato di Augurino e Sergio in questa diserta piaggia chiamata
  in quei tempi degli Olmi, videsi posti su certi plaustri, che da indomite
  bestie a tutto corso essendo tirati, aspettavasi indubitato l’eccidio;
  seguita credendosi la morte, tutti ritornarono illesi al luogo donde
  partirono, perché la ferocia di quelle bestie non ardì con gli impeti suoi
  naturali passare per gli sterpi e per zolle, da cui n’era per nascere la
  total ruina degli innocenti a torto sentenziati. Liberatosi Calozero da tanta
  crudeltà, inviossi verso la città di Asti, e colà dimoratosi qualche
  giornata, affacendossi a disciplinare nella cattolica legge Secondo che
  indirizzò poscia ai santi Faustino e Giovita, che nelle milanesi contrade
  vivevano, impiegati a impedire il falso culto, che facevasi quivi appunto a Giove, per rimirarsi eretto il suo
  tempio. Dilungavasi però l’esecuzione del battesimo per scarsezza d’acqua
  e quindi a meraviglia divenuto il cielo
  nuvoloso, cadde così densa e continuata pioggia, che diede forma al fonte,
  che qui vedete. Volendo essere Secondo martire in Cristo, in breve ne ottenne
  la grazia, poiché videsi a far vela al cielo sulle onde purpuree del suo sangue. A tali successi divenne cotesto fonte
  in grandissimo pregio appresso al popolo fedele e nelle sue acque naufragò il
  tempio di Giove, che si innalzava qui vicino, mutandosi in tempio dedicato a
  S. Vincenzo. Furono poi edificate intorno alle salutifere acque alcune
  abitazioni, alle quali soleva ritirarsi S. Ambrogio per godere con le orazioni
  delle dolcezze del paradiso, e con gli studi della quiete di queste
  solitudini.
  
  
  
  Se si aggiunge che, secondo i nostri storici della seconda metà dell’Ottocento,
  gli scavi compiuti a S. Calogero avrebbero portato alla luce pietre
  megalitiche attribuite ai resti di un dolmen,
  l’antica tradizione locale che ritiene quest’area una delle più antiche
  di Milano non è così astrusa, anche se bisogna decisamente escludere la
  presenza di un dolmen, che
  risalirebbe a un fenomeno più antico di almeno due millenni. E’ probabile
  invece che si trattasse di un tumulo, simile
  a quelli rinvenuti nelle necropoli di Golasecca, costituito da ciottoloni
  diposti in cerchio con un corridoio d’accesso, il tutto ricoperto di terra.
  Queste sepolture risalgono alla prima fase di Golasecca, tra IX e VIII sec.
  a.C.
  
  
  In
  conclusione, le divinità della tempesta, poiché portano pioggia, presiedono
  alla fertilità. Per questo motivo un santuario dedicato a Taranis poteva
  avere come culto associato quello alla Grande Dea alla quale era dedicato il Medhelan.
  
  
  
  La
  tradizione locale vuole che sul tempio pagano rotondo ne sorgesse uno dedicato
  a S. Maria e poi a S. Vincenzo in prato.
  
  
  Oltre
  al fonte di S. Calogero, un altro pozzo è passato 
  nella leggenda legato a un affogamento,
  quello di S. Calimero, nella
  chiesetta omonima, situata sempre nella stessa area rituale in direzione per
  Pavia.
   
  
  
Nel
  mondo celtico era diffuso l’annegamento rituale: le vittime venivano tenute
  con la testa in un catino fino all’affogamento, che doveva propiziare la
  fertilità simboleggiata dall’acqua. Famoso è il calderone
  di Gundestrup, finemente decorato, dove si vede il dio che sta immergendo
  una vittima sacrificale in una tinozza. Il catino poteva essere sostituito da
  un pozzo - luogo sacro perché in contatto con il mondo ultraterreno, entro il
  quale si gettava la vittima. Nelle tradizioni del Nordeuropa spesso a un pozzo
  era associato un teschio che in età cristiana veniva identificato con quello
  di un santo che vi era affogato, come appunto nel caso di S. Calimero a
  Milano. La divinità che riceveva il sacrificio era Teutates,
  mentre Esus voleva l’impiccagione
  e Taranis il fuoco. Impiccare,
  annegare e soffocare col fuoco significava evitare spargimento di sangue, per
  offrire alla divinità il corpo della vittima il più possibile integro.
  
  
  Narra
  la leggenda locale che Calimero, vescovo di Milano, venne affogato in un pozzo
  vicino a un tempio di Apollo (Belenos), il dio delle sorgenti consacrate,
  perché voleva distruggerlo. Non molto distante, la chiesa con annesso
  convento femminile di S. Apollinare
  ribadiva una leggenda analoga: dentro il pozzo del giardino sarebbero stati
  affogati i martiri Nazaro e Celso (invenuto da S. Ambrogio nel 395). 
  
  
  
Belenos
  era festeggiato a Beltane, che
  abbiamo visto essere una delle feste solstiziali ricordate astronomicamente
  con l’orientamento dell’ellisse. Durante questa festa si celebravano i
  riti della fecondità della terra, nei quali la Dea Madre Belisama si univa al
  dio della pioggia e del fuoco Taranis perché avvenisse la sua fecondazione ed
  è curioso che sempre in prossimità di S. Calimero, nell’attuale via
  Quadronno, la tradizione abbia posto il ritrovo delle streghe alla notte della vigilia del 1° maggio (la nordica notte di Walpurga). La stessa
  festa la ritroviamo anche nella religiosità romana con la festa della dea Maia,
  la Terra. Alla vigilia si faceva una cerimonia notturna e segreta in suo
  onore, alla quale partecipavano solo le  matres familias  più importanti,
  coadiuvate dalla decana delle Vestali, la maxima
  virgo Vestalis, sempre presente in tutte le cerimonie più significative
  per la sicurezza della città, per cui si può supporre che la permanenza del
  rito anche in età romana abbia facilitato la sua fissazione nella memoria
  collettiva.
  
  
  
  Nei
  pressi, in piazza Missori (già di
  S. Giovanni in Conca), si celebrava un altro rito ugualmente di matrice
  celtica: se le Rogazioni triduane dell’Ascensione non avevano avuto successo
  e persisteva la siccità, si metteva a bollire un calderone con ortaggi e carne, con la cui acqua si aspergevano i
  campi dopo una processione che andava fino a S. Calimero. Il calderone è
  parte integrante dei rituali druidici ed è il mezzo per distribuire un
  inesauribile nutrimento. Nei poemi mitologici irlandesi ha anche una valenza
  ctonia, perché rigenera e trasforma. Per noi è rimasto associato all’idea
  di stregoneria e alla preparazione di intrugli magici.
  
  
   
  
  
  
  
  Quello che sconcerta è che dietro di sé questi prodi antenati non abbiano
  lasciato a Milano neppure un torque,
  non una spada, niente di tutto quello che le altre città celtiche esibiscono
  nei loro musei di storia patria. Si potrebbe quasi dubitare della loro
  effettiva esistenza, se non ci fossero reperti e tradizioni a segnalarceli. La
  più antica testimonianza cultuale, in assenza di materiali, sarebbe il tumulo
  di S. Vincenzo, databile alla prima fase di Golasecca (IX-VIII sec. a.C.),
  quindi sarebbe un accenno alla famosa presenza Insubre in quest’area prima
  dell’ “arrivo di Belloveso”. Abbiamo reperti, piuttosto contestati,
  quali i buccheri di fattura etrusca rinvenuti tra via S. Maria Segreta e il
  Cordusio a un livello di scavo relativo al VII sec. a.C.  
  
  
  
  Bisogna
  poi attendere circa due secoli perché vi siano altri ritrovamenti, sempre
  nell’area a sud del santuario, nella zona del Policlinico, di Palazzo Reale
  e di via Rastrelli, tutti databili dal V secolo agli inizi del IV secolo a.C.,
  quindi di poco anteriori alla seconda ondata di Celti. Nel cortile della
  chiesa di S. Antonino nel 1885 si erano ritrovate a m -2,50 alcune tombe a
  cremazione con modesti anelli a globetti e fibule a sanguisuga, tipici della
  tarda fase di Golasecca; un gruppo di bronzi e una ciotola con ossa combuste
  rinvenute nello stesso scavo sono andate perse. La zona costeggiante la via
  Vigentina si trasformò gradualmente nel cimitero dell’oppidum, il che forse
  non impedì che a fianco continuassero i raduni per le feste. La definitiva
  trasformazione in area cimiteriale avvenne nell’età augustea. 
  
  
  L’area
  di via Moneta, in zona Cordusio, ha fornito altre testimonianze, per cui si
  potrebbe avanzare l’ipotesi che la frequentazione del santuario nei secoli
  VI-V a.C. abbia lasciato tracce di presenze (senza abitazioni stabili) nella
  zona immediatamente a sud posta tra la glareata che sottostava il santuario,
  quella in direzione del Ticino a ovest e quella in direzione di Pavia a sud.
  
  
  In
  conclusione, il santuario degli Insubri appariva come un nemeton
  di forma ellissoidale occultato alla vista da un fitto anello di alberi,
  probabilmente olmi e querce, ed era circondato da glareate che ne facevano il
  punto di ritrovo centrale dell’area insubre fino a Como. Le feste si
  svolgevano all’esterno del santuario, nell’area a sud dell’attuale
  piazza del Duomo, compresa tra piazza Missori e corso di Porta Vigentina,
  ricca d’acque, dove si trovano anche altri luoghi di culto. Gli
  alloggiamenti, per lo più provvisori, erano invece sistemati più a nord,
  intorno all’area del Cordusio, molto più asciutta. 
  Tutto sommato, dal 570 al 390 a.C., per ben quasi due secoli, possiamo
  immaginare cosa successe nel santuario degli Insubri solo grazie alla
  persistenza delle nostre leggende, niente 
  più.

  
  
     Il
    patavino Tito Livio scrisse 142 libri in 40 anni di lavoro, ma di questi
    libri 107 sono andati persi.
     Il
    nostro “storico” e Livio appartenevano, come del resto anche Virgilio,
    “a quella ricca ed etnicamente mista regione nordica, la Gallia Cisalpina,
    che era stata formalmente unita all’Italia soltanto dodici anni prima che
    Augusto divenisse il solo dominatore. Sicché il loro è patriottismo
    ardente ed emotivo, proprio di uomini di frontiera e di “coloniali”
    disposti ad assorbire la storia della loro nazione celtica all’interno
    della grandiosa e vincente storia di Roma. M.
    Grant,  Letteratura
    romana, A. Mondadori, Milano 1958, pp. 128-129.
    
     Michael
    Grant, Letteratura romana,
    A. Mondadori, Milano 1958, pp. 127-128.
    
    Renato Del
    Ponte, La religione dei Romani, Rusconi, Milano 1992, nota 147, p. 180.
    "Le figure mitiche hanno invaso la storia sotto mentite spoglie,
    foggiandola sottilmente secondo i loro fini. E' questa una regola pratica
    stabilita molto tempo fa, che si è rivelata costantemente valida quando si
    ha a che fare con il mito vero e non con le solite leggende", Giorgio
    de Santillana,  Il mulino di Amleto, Adelphi Milano 1983, p. 77.
    
     Bitu
    significa anche “tempo, eternità, sempre”, cfr. M.F. Barozzi,
    I Celti e Milano, Ed. Terra di
    Mezzo, Milano 1991, p. 145.
    
    
    Per un approfondimento cfr. F. Le Roux, Le Celticum
    d’Ambigatus et l’omphalos gaulois, in “Celticum”, 1 (1961), pp.
    159-184.
    
     R.
    Del Ponte, La religione
    dei Romani,  p. 48.
    
     D. Sabbatucci,
    La religione di Roma antica, Il
    Saggiatore, Milano 1988, p. 15.
    
     R.
    Del Ponte, Dei e miti italici,
    ECIG Genova 1988, pp. 58-59.
     J.A.
    Mac Culloch, La
    religione degli antichi Celti, Neri Pozza, Vicenza, p. 231; F.
    Le Roux-C.J. Guyonvarc’h, I
    druidi, p. 488.
    
     I
    Dioscuri (dios kuroi) sono i figli
    del dio del cielo e di una mortale.
    
     *Bhel
    “luminoso” e veso “ottimo”.
    Bhel richiama il dio solare Belenus, Apollo.
    
     Maria
    Riemschneider, La religione dei
    Celti. Una concezione del mondo, Rusconi, Milano 1997, p. 118.
    
     Jean
    Markale, Il druidismo,
    Ed. Mediterranee, Roma 1991, p. 100 n. 84. 
     La
    scrofa divenne, a causa del nome latino della città, “Mediolanum”, “semilanuta”. Vedi oltre in questo capitolo.
    
     G. Dumézil,
    Idee romane, ECIG, Genova 1987, p. 96.
    
     M.T.
    Grassi, I Celti in Italia, pp. 14-15, 18-19. Per un affidabile riassunto
    della situazione cfr. Paolo Baldacci,
    La celtizzazione dell’Italia Sett. nel quadro della politica mediterranea,
    in “Popoli e facies culturali celtiche a nord e a sud delle Alpi dal IV al
    I sec. a.C.”, Atti del Colloquio Internazionale, Milano 1980, I, pp.
    147-155.
    
    
    Catalogo della mostra “Como fra Etruschi e Celti”, Como 1986.
     Gli
    Edui erano alleati di Roma dal 121 a.C., quando venne fondata la provincia
    della Gallia Narbonese. Nel 52 a.C. parteciparono alla rivolta generale
    delle Gallie, soffocata da Cesare. Nell’epoca imperiale il paese degli
    Edui fece parte della provincia detta Lugdunese: Bibracte
    decadde come capitale, sostituita da Augustodunum
    (Autun). 
    
    M.F.
    Barozzi, I
    Celti e Milano, p. 76.
    R.
    de Marinis, op. cit., pp.
    91, 95-96; M.T. Grassi, I Celti in Italia, pp. 20-21.
    J. Markale,
    Il druidismo, p. 72.
    
    Altre grafie sono mead-hon
    (gaelico) e may-don  (sequano).
    
    A Milano si conosce S. Ambrogio ad
    nemus (zona arco della Pace), identificato come luogo dove sorse il
    primo monastero per volere di S. Martino di Tours e perciò connotato come
    bosco sacro.
    
    A
    Milano è detto anche pomario.
    
    C.J. Guyonvarc’h, Notes
    d’étimologie et de lexicographie gauloise et celtique. VI. 17. nemos,
    nemetos, nemeton; les nome
    celtiques du “ciel” et du “sanctuaire”, in “Ogam”, 12
    (1960), pp. 185-197; J.Markale,
    Il druidismo, pp. 148-151.
    
    M. Eliade,
    Il mito dell’eterno ritorno, p. 19
    
     Gli
    altri Mediolanum sparsi in Europa
    (un centinaio) hanno o mutato il nome a seconda della fonetica del luogo
    (come Milano) e sono in Francia Maulain, Meilhan, Meillant, Melaine, Meslan,
    Moelan, Moislains, Molhain, Moliens, Molliens; in Germania Medelingen,
    Metelen, Moyland; in Canton Ticino Melano; in Belgio Molhain; oppure hanno
    modificato il nome della popolazione di riferimento, come Evreux (Mediolanum Eborovicum), Saintes (Mediolanum Santonum).  
    
    
    Vade, Le
    système des Mediolanum en Gaule, in Archéocivilisation XI-XII
    (1972-74), pp. 87-109.
    
     Il biancospino
    (scé, sceach, sciach) poteva formare una siepe di separazione
    intorno ad aree sacre, ma l’etimologia di Andegari da andeghée richiama più il termine “an-dee”, ossia “non-dei”, che indicava tutto ciò che stava
    fuori dal nemeton. Al di là di
    ogni possibile etimologia, sembra che il nome della via derivi da quello
    della famiglia Andegari o Undegari che vi abitava.
    
     Il
    circo di Milano aveva il lato lungo di m 470; il circo Massimo di Roma di m
    600; le Terme di Caracalla misurano m 335 di lato. La superficie racchiusa
    nell’ellisse si poteva benissimo qualificare come area appartenente a un
    unico edificio.
    
     Nell’Inventario
    del Museo Patrio di Archeologia sono segnalati:
    
    -
    due cippi scritti (n. 477, 479) depositati nel 1864 con frammenti di anfore,
    utensili in ferro, lacerti musivi da piazza Scala.
    
    - un grande vaso in terracotta (n. 2643) rinvenuto nel 1878 sotto il Caffé
    Cova all’ang. tra via Verdi e piazza Scala.
    
    -
    due frammenti di olle (n. 1148-1149) depositate nel 1865 con altri frammenti
    rinvenuti per lo scavo della Galleria. (La scrivente non ha controllato la
    tipologia del materiale, elencato in Margherita
    Bolla, Le necropoli romane di
    Milano, supplemento V della Not. dal Chiostro del Mon. Maggiore, Milano
    1988, p. 34).
     P.
    Tozzi, Caratteristiche e problemi della viabilità nel settore meridionale del
    territorio di Mediolanum,
    in Milano e i Milanesi prima del Mille, 10° Congresso Internazionale di
    Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 1983, pp. 59-84. Più datato sull’argomento
    ma utile A. Passerini, Il territorio insubre in età romana, in Storia di Milano, Treccani
    degli Alfieri, vol. I, p. 133 e ss.
    
     P.
    Tozzi, op. cit., p. 65. Questa strada per Cremona passò in secondo
    piano probabilmente nella seconda metà del I sec. a.C. in seguito alla
    costruzione della strada romana per Lodivecchio (Laus
    Pompeia). Ancora in età augustea si seppelliva lungo i suoi bordi, come
    dimostrano le due tombe di questo periodo di via Fontana.
    M. Bolla, op. cit., p. 14.
    
     
    P. Tozzi, op. cit., p.
    68.
     M.G.
    Tolfo, Il Sestiere di Porta Romana, CEP Milano, 1991, pp. 30-41.
    
     Il
    mantello del santo cavaliere diviso in due è stato interpretato come un
    simbolo dell’anno celtico, diviso in due stagioni, estate e inverno. L’11
    novembre era l’ultimo giorno d’estate,
    iniziando l’inverno già il 12 novembre.
    
     La
    festa di Imbolc venne fissata intorno al I secolo a.C. al 1°
    febbraio, venendo poi assorbita nel calendario cristiano dalla festa
    della Purificazione o Candelora.
    
     Il
    ceppo è rimasto nella tradizione nordica col ceppo natalizio e in quella
    mediterranea e cristiana con le candele del 2 febbraio, la Candelora.
    
    
    Rituale immortalato con l’uccisione del maiale nei calendari di dicembre.
    
     Mac
    Culloch, op. cit., p. 262.
    
     M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, p. 76.
    
     M. Eliade,
    op. cit., p. 87.
    
     M. Eliade,
    op. cit., pp. 117, 142.
    
     M. Eliade,
    op. cit., p. 73. E' più difficile stabilire quali potessero 
    essere i raccolti legati alle feste celtiche primitive così come
    sono state teorizzate da Cernuti e Gaspani.
     M.
    Riemschendier, La religione dei
    Celti, pp. 120-130.
    
      G. Fiamma, Chronicon
    extravagans, f. 45 cap 39.
    
    
    Flos florum, cap. 132, f. 112.
    
    
    Besta, op. cit., p. 115.
    
     Le
    Roux-Guyonvarc’h, I druidi,
    pp. 96-97.
     J.A.
    Mac Culloch, La
    religione degli antichi Celti, Neri Pozza, Vicenza 1998, p. 173
    
     M.
    Riemschneider, La religione dei
    Celti, pp. 118-119.
     La
    banchina di attracco è stata rinvenuta lungo via Larga, il che suggerisce
    che la darsena fu compresa el piano regolatore augusteo, per venire
    prosciugata alla metà del I sec. d.C. a causa di un dissesto idrogeologico
    che provocò allagamenti un po’ ovunque in città.
    
     Cfr.
    Eliade, Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi.
    
    
     R. Del
    Ponte, La religione dei Romani,
    Rusconi 1992, p. 116. Il ponte venne collegato nella tradizione all’arco
    trionfale alla Crocetta di Porta Romana, costruito intorno al 382 d.C., e
    prolungato fantasticamente con un una costruzione lunga due miglia fino a
    Nosedo (Chiaravalle), di difficile interpretazione.
    
     M. Eliade,
    Trattato, p. 380.
    
    
     Nei
    secoli successivi, senz’altro a partire dalla fine del II sec. a.C.,
    quando viene documentato da Polibio, alla dea verrà dedicato il tempio
    quadrato inglobato nel IV secolo d.C. nella basilica di S. Tecla.
    
     M.
    Riemschneider, La religione dei
    Celti. Una concezione del mondo, Rusconi, Milano 1997, p. 22.
     
    J.A. Mac Culloch, op.
    cit., p. 321. L’uso si perpetuò nel Cristianesimo nella chiesa di S.
    Tomaso in terra mala (via Broletto), dove si conservano le impronte dei
    piedi di Cristo.
    
     S.
    Nazaro Pietrasanta scomparve nel 1888 per l’apertura di via Dante; si
    trovava all’altezza di via Rovello. Una leggenda afferma che si trattava
    della casa in cui avevano abitato Nazaro e Celso giunti a Milano dalla
    Gallia. S. Vittorello occupò
    forse una torre della Porta Romana; la chiesetta, completamente trasformata
    e in rovina, venne demolita per la costruzione di palazzo Meroni, fra l’attuale
    piazza Missori e via Maddalena.
    
     E’
    oggi conservata al centro della navata maggiore della chiesa di S. Maria del
    Paradiso in corso di Porta Vigentina.
     Eliade,
    Trattato, p. 233. La leggenda
    vuole che S. Barnaba, apostolo e fondatore della Chiesa milanese nel 46 d.C.,
    abbia piantato la croce dentro la ruota a S. Dionigi. Ora, inserire la croce
    nel foro - come tuttora si vede a S. Maria del Paradiso - più che a una
    esaugurazione equivale a una nuova nascita, che ripete l’atto di
    creazione, nel nostro caso sotto la nuova religione. 
    
    
    M. Riemschneider,
    La religione dei Celti, p. 107.
     Poi
    intitolata a S. Stefano in Brolo,
    l’unico santo autorizzato a ricevere il culto delle pietre in virtù del
    suo martirio avvenuto per lapidazione.
    
     J.A.
    Mac Culluch, Le
    religione dei Celti, p. 232.
    Secondo
    un mito celtico, riferito da Apollonio, le acque dell’Eridano si sarebbero
    formate dalle lacrime di Belenos, scacciato dal padre. Molto frequentemente
    le lacrime di un dio servono a formare laghi e fiumi.
    
     Mac
    Culloch, Le religione dei Celti, pp. 266-268.
    
    
    Questo rituale è stato trasferito, nella sua assimilazione con le
    lustrazioni dei romani Fratelli Arvali, alle Rogazioni o Litanie triduane,
    introdotte nel V secolo nella Chiesa cattolica nei tre giorni precedenti o
    successivi l’Ascensione.
    
     C. Torre,
    Ritratto di Milano, p. 101.
    
     Carlo
    Torre, Ritratto di
    Milano, p. 100
    
     Il
    primo a parlarne fu il Castiglioni, che nel 1625 cita la basilica di S.
    Maria “ad rotundam”. Il Traversi ha voluto identificarla con la
    basilica vetus citata da S.
    Ambrogio. 
     La
    festa della Dea Madre si perpetuò a Milano fino al XV secolo col culto
    di Diana o della Signora, finendo con l’accensione dei roghi.
     
    
     
     
    
    
   
  
  
  
    
   
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