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Le origini del civico acquedotto di Milano

di Gian Luca Lapini

La Fontana dei Tritoni in via Romagnosi

 

La possibilità stessa di dar luogo a grandi agglomerati urbani degni del nome di città, è lentamente maturata nei secoli ed è sempre stata legata alla capacità di assicurare non solo un adeguato rifornimento di acqua, ma anche lo smaltimento, sia delle acque meteoriche che delle deiezioni umane. Il problema che era ben chiaro già nell'antichità (e che era stato mirabilmente risolto dai nostri antenati Romani), si ripresentò con forza nel secolo XIX quando molte città europee iniziarono un veloce processo di crescita nel corso del quale non solo l'evidente crescita dei fabbisogni, ma anche i numerosi scoppi di epidemie costrinsero i tecnici e le pubbliche amministrazioni ad una presa di coscienza, e li spinsero all'azione[1].

La risposta a queste esigenze fu ricercata nella emanazione di leggi e regolamenti che garantissero una qualità verificabile di servizi idraulici, e nella costituzione di società, a volte pubbliche a volte private, che si incaricarono di erogarli. Iniziò così la costruzione di acquedotti pubblici e di fognature, che storicamente furono le prime reti a cominciare ad invadere il sottosuolo delle città moderne (in alcune città un po’ prima, in altre più tardi rispetto alla rete del gas) ed a introdurre l'idea stessa di distribuire capillarmente un servizio di prima necessità, sottraendolo all'iniziativa del singolo (non più incaricato di scavare il suo pozzo o di svuotare il suo pozzo nero).

Benché tali esigenze e le idee su come affrontarle non fossero affatto nuove, il generale potenziamento di risorse a disposizione della tecnologia ne permise un affronto più esteso e radicale. Per esempio i progressi della metallurgia consentirono di fabbricare grandi quantità di tubi in ferro o in ghisa a prezzi relativamente bassi; pompe e macchine a vapore aiutarono a distribuire l'acqua nelle tubature più facilmente di quanto non si potesse fare negli antichi impianti a gravità. S'imparò a costruire dighe e bacini di raccolta più ampi ed a scavare pozzi più profondi.
Inoltre l'invenzione e la diffusione di dispositivi che oggi ci sembrano banali, come il water closet, da una parte fecero crescere i fabbisogni di acqua, dall'altra legarono indissolubilmente fra di loro i problemi dell'approvvigionamento e dello smaltimento.

Verso la fine del '700 e lungo tutto l'800 si assistette nei principali paesi europei ad un pullulare di iniziative in campo igienico-sanitario.
Può così sembrare strano che la costruzione del primo acquedotto pubblico di Milano sia avvenuta a partire dal 1888, piuttosto tardi cioè rispetto ad altre grandi città europee. Ciò trova qualche spiegazione nel fatto che, proprio per non essere stata costruita sulle rive di nessun grande fiume, Milano aveva sentito l'esigenza di far convergere verso di sé un'imponente rete di canali e navigli, che per secoli ne avevano determinato e caratterizzato l'aspetto (prima che lo strapotere dell'automobile portasse alla sciagurata decisione di interrarli). Questi canali derivati da fiumi un tempo puliti, come l'Adda e il Ticino, costituivano una importante fonte di rifornimento d'acqua, sia per le industrie, sia per le operazioni domestiche a più intenso consumo come il lavaggio della biancheria.

Lavandaie sui navigli (verso il 1895)

Per l'acqua potabile, ed in genere per gli usi domestici, il rifornimento avveniva tradizionalmente da una miriade di pozzi privati, che attingevano dalla ricca e facilmente accessibile falda freatica.
Tipica struttura di pozzo scavato, in uso a Milano
prima dell’acquedotto (secolo XIX)Si trattava in genere di pozzi scavati, con rivestimento in mattoni, profondi non più di 6-7 metri; molto rari erano i pozzi trivellati, che raggiungevano i 12-13 metri dando ovviamente acque migliori.

Questa relativa abbondanza d'acqua è probabilmente la più semplice spiegazione del tardivo sviluppo di un acquedotto a Milano; anche nella nostra città, comunque, l'aumento degli abitanti (circa 321.000 al censimento del 1881), l'aumento delle esigenze igieniche[2] e dei consumi d’acqua, portarono ad un crescendo di richieste della "pubblica opinione" e indussero le autorità ad affrontare il problema. Occorsero comunque quattro anni, dal 1877 al 1881, perché l’amministrazione comunale, guidata dal sindaco Giulio Belinzaghi, prendesse in esame ben tredici progetti, nessuno dei quali convinse le autorità comunali, o per la scarsità delle fonti proposte o per la loro lontananza (o forse perché altre erano in quegli anni le priorità della Giunta, cioè i grandi progetti edilizi e di trasformazione urbana, ai quali anche l’acquedotto sarebbe però in breve risultato necessario).

Alla fine del 1881 un progetto della “Società Italiana Condotte d'Acqua”, che prevedeva la costruzione di una conduttura che doveva portare 900 litri d'acqua al secondo da alcune sorgenti della Val Brembana, piacque alle autorità cittadine; si scatenò però una irriducibile opposizione di tutte le autorità della provincia di Bergamo, che non fu scalfita nemmeno da autorevoli prese di posizione favorevoli al progetto, come quella del più famoso geologo dell'epoca, l'abate Stoppani; furono vani anche i tentativi del Comune di far dichiarare l'opera, dalle autorità nazionali, di pubblica utilità. Il sindaco Gaetano Negri, sotto la cui amministrazione fu approvata la costruzione del primo acquedotto milanese

Passarono così ben sei anni, fino al 1887, prima che il Comune rinunciasse all'idea e bandisse un nuovo concorso. Nel frattempo era diventato sindaco Gaetano Negri, ed era stato approvato (nel gennaio del 1886) il primo Piano Regolatore elaborato, dall‘ing. Beruto. Furono presentati 22 nuovi progetti, tra i quali una apposita commissione ne selezionò sette meritevoli di ulteriori approfondimenti. In particolare vale la pena di menzionare quello presentato dell’ingegner Villoresi (il progettista del grande canale che collega il Ticino all’Adda) che propose di alimentare la città tramite una condotta forzata, cioè una tubazione in pressione (12 atmosfere), che sarebbe partita dai monti lecchesi, e avrebbe permesso di ricavare dall’acqua anche forza motrice, tramite piccole turbine da installare negli stabilimenti industriali.
I progetti furono discussi a lungo. Furono chiesti pareri ufficiali anche a professionisti di fama internazionale, come l'ingegner Burkly[3], capo delle acque pubbliche di Zurigo, ma alla conclusione di un acceso dibattito in Comune tutte le proposte furono nuovamente rigettate.

Così alla fine di questa lunga diatriba prevalsero le modeste, ma concrete e realistiche opinioni dell'Ufficio Tecnico Comunale, in particolare del giovane ingegnere Felice Poggi, che proponeva di attingere alla falda freatica, la tradizionale fonte usata da secoli dai milanesi, costruendo però pozzi profondi, in modo da avere garanzie di purezza e salubrità dell'acqua.
In effetti, durante la costruzione dei primi due pozzi sperimentali, intrapresa nella seconda metà del 1888 nella zona dell'Arena, si constatò che a profondità di 20-30 metri degli strati compatti di argilla proteggevano la falda dalle infiltrazioni superficiali, così che alla profondità raggiunta dallo scavo (il primo pozzo fu spinto fino a 145 metri, il secondo fino a 81m), l'acqua era ottima ed abbondante. In questi pozzi l’acqua risaliva per pressione naturale fino a 3-4 metri dal livello del suolo, ed era così possibile aspirarla facilmente con delle pompe sistemate qualche metro più in basso del livello stradale, ed azionate con cinghie.

Pozzo dell’acquedotto in costruzione (fine ‘800)Pompe della centrale Armi, sotto il livello stradale, azionate da cinghie

All'inizio del 1889 fu di conseguenza decisa la costruzione del primo impianto di pompaggio, che fu denominato "Arena" ed entrò in servizio prima della fine dell'anno stesso. Il torrione est del Castello durante il restauro, con il serbatoio in ferro dell’acquedotto (verso 1893)Esso era alimentato dai primi due pozzi sperimentali e da altri quattro scavati nel frattempo. Il macchinario consisteva in due motrici a vapore, alimentate da tre caldaie “tipo Cornovaglia”, che azionavano, mediante grandi cinghie, due pompe alternative della portata complessiva di 140 litri\secondo.

L'utilizzatore di quest'acqua fu il nuovo quartiere residenziale che stava sorgendo fra piazza Castello, foro Bonaparte e via Dante, mentre parte dell'acqua non ancora consumata andò a diluire le acque della rete fognaria dello stesso quartiere[4]. Per regolarizzare la pressione di erogazione dell’acqua, furono costruiti due grandi serbatoi di accumulo in quota che furono “nascosti” all'interno dei torrioni del Castello Sforzesco. Questa strana commistione di vecchio e di nuovo poté avvenire in quanto alla fine del ‘800 il Castello stava subendo quel radicale processo di restauro e rifacimento che, dopo secoli di abbandono, lo avrebbe portato alla forma attuale[5]. Per primo fu realizzato, nel 1893, un serbatoio in ferro nel torrione Est, progettato dal prof. Cesare Saldini del Politecnico, e realizzato dalla ditta Schlaepfer di Torino ; dieci anni dopo, fu la volta del torrione Sud, dove il serbatoio fu realizzato in cemento armato[6].

Serbatoio in ferro dell’acquedotto nel torrione est del Castello (1893)Serbatoio in cemento armato dell’acquedotto nel torrione sud del Castello (1904)

Questo primo impianto ebbe una notevole importanza, perché il suo successo determinò l'impostazione tecnica che l'acquedotto milanese avrebbe poi conservato fino ad oggi (così come fino ad oggi avrebbe conservato la caratteristica di essere una iniziativa pubblica). Esso diede inizio ad un progressivo e costante sviluppo del servizio di distribuzione dell’acqua potabile, sostenuto dal deciso aumento dei consumi che si innescò via via che i milanesi si accorsero della comodità dell'avere acqua in abbondanza nelle proprie case, e che divenne "naturale" pensare che i nuovi edifici dovessero allacciarsi all'acquedotto.

La rete dell’acqua potabile divenne una sorta di fiore all’occhiello fra le varie attività volte a migliorare le condizioni di vita dei cittadini, che la municipalità intraprese[7] negli anni di fine secolo, in quanto a differenza di altri servizi tecnici a rete, quali il gas, l’elettricità e successivamente il telefono, fu organizzata fin dall’inizio come impresa pubblica in virtù di un carattere di necessità che, sostenevano i suoi promotori, non poteva “convenientemente affidarsi a chi ne voglia fare motivo di lucro”.
L’acqua rappresentava in effetti una delle acquisizioni (o riacquisizioni) più significative della tecnica urbanistica ed igienica, i cui cultori e specialisti avevano gradualmente sviluppato, nel corso dell‘800, una visione della città intesa come un organismo da nutrire e depurare, mediante un sistema per la circolazione di sostanze vitali.

“Tanto nel corpo di un animale quanto nell’organismo di una città il liquido vitale è condotto e distribuito da una rete completa di canali di diramazioni e ramificazioni”, aveva non a caso scritto, nel 1892, l’ing. Poggi.

Il bagno comunale al Ponte Delle Gabelle (inizi ‘900)

In effetti l’abbondante disponibilità di acqua potabile permise, oltre che la distribuzione agli edifici privati (all’inizio a quelli di un certo pregio), anche la costruzione di bagni e servizi pubblici, e di “stabilimenti” di grandi dimensioni, come quelli realizzati, su progetto dell’ingegnere comunale Giuseppe Codara, al Ponte delle Gabelle (vicino a Porta Nuova) ed in via Argelati (vicino a Porta Ticinese), dotati di ampie piscine. Questi impianti consentivano l’accesso, a prezzi popolari, a stabilimenti balneari certo meno eleganti, ma funzionalmente non diversi da quelli che la Milano ricca già da molti anni utilizzava: ad esempio il prestigioso ed elegante Kursaal Diana, a porta Venezia, che era stato costruito ad emulazione di simili impianti, diffusi nelle principali città europee.

La centrale Cagnola (1898)Planimetria dei pozzi e della centrale dell’acquedotto di via Parini (1903)

Il secondo impianto di pompaggio fu costruito nel 1898 al rondò Cagnola (l'attuale piazza Firenze; nel 1903 si aggiunse la centrale "Parini" (vicino all’attuale P.za della Repubblica). La potenzialità complessiva raggiunse i 410 litri/secondo e la rete di tubature i 134 Km.
Nel 1910 le centrali di pompaggio erano diventate 10, i pozzi 87. Le pompe di spinta della rete erano ormai di tipo centrifugo, alcune ancora azionate da motrici a vapore, ma la maggior parte azionate da motori elettrici; erano anche in uso le prime elettropompe sommerse.

Motrici a vapore e trasmissione a cinghia per l’azionamento delle pompe (Centrale Comasina)Motori elettrici per l’azionamento diretto di pompe centrifughe (Centrale Benedetto Marcello)

L’edificio della Centrale Cenisio dell’acquedotto (1906)

Gli edifici delle centrali di quell'epoca, in genere costruiti in sobrie architetture di mattoni a vista, sono tuttora riconoscili, con un po' di attenzione, nel tessuto urbano: Centrale dell’acquedotto seminterrata in corso Indipendenza (1925)per esempio la centrale di via Benedetto Marcello o quella di via Cenisio, in anni recenti trasformata in Museo dell'Acquedotto. Altri di questi edifici furono fin dall’inizio progettati in maniera tale da confondersi nel tessuto urbano, come la centrale di corso Vercelli, allo sbocco di piazza Piemonte, quasi completamente sotterranea e affiorante in superficie solo a formare una sorta di terrazza con balaustra, in mezzo al verde, o come quella al parco Sempione, realizzata nel 1908, e completamente mimetizzata nel verde, o quella sotterranea di Corso Indipendenza.

Il progressivo estendersi dell’acquedotto divenne col tempo una delle “opere di urbanizzazione” fondamentali che caratterizzarono lo sviluppo della città, così come venne delineato dai successivi piani regolatori. Le due tabelle seguenti sintetizzano efficacemente, pur nell’aridità delle cifre, l’ampiezza e la rapidità di espansione dell’acquedotto cittadino.

 

Centrale di pompaggio

Anno di costruzione

Portata nominale litri/sec

Numero pozzi

Rondò Cagnola

1898

170

12

Parini

1900

100

10

Marcello

1901

200

12

Armi

1904

400

12

Cenisio

1906

300

14

Vercelli

1906

400

12

Parco

1908

300

10

Comasina

1909

40

14

Maggiolina

1912

400

28

Anfossi

1915

400

37

Italia

1919

400

26

Trotter

1920

360

22

Este

1924

400

24

Indipendenza

1925

400

26

Crema

1926

400

25

Palestro

1926

400

23

Napoli

1927

400

24

Totale

 

5830

331

 

 

Centrale di pompaggio

Anno di costruzione

Portata nominale litri/sec

Numero pozzi

Capacità vasche m3

Sforza

1929

200

8

60

Espinasse

1929

400

13

250

Poggi

1930

400

13

250

Martini

1930

400

13

250

Tonezza

1930

400

13

250

Gorla

1932

400

11

500

Porta Nuova

1933

400

15

1900

Cantore

1935

320

12

500

Marcello

1936

400

12

1500

Suzzani

1937

600

16

1800

Ovidio

1939

400

15

1500

 

L’affermarsi del concetto della fornitura d’acqua attraverso l’acquedotto segnò purtroppo (assieme ad altri eventi), anche il destino dei tanti canali d’acqua che da secoli solcavano la città, in particolare i navigli, preparando il terreno per quella copertura, realizzata a partire dal 1929-30, che ne avrebbe definitivamente sancito la trasformazione in canali di scolo, come tali in realtà da occultare.

Col passare degli anni ed il progressivo indiscriminato sfruttamento, pubblico e privato, la falda freatica cominciò a dar segni di "stanchezza": i primi segni di un pur modesto abbassamento risalgono già al 1928, e la situazione Struttura di un pozzo e di una centrale moderna dell‘acquedottosarebbe gradualmente peggiorata in conseguenza dell’incremento dei prelievi operati soprattutto dalle grandi industrie (siderurgica, chimica e meccanica) che si sviluppavano nell’area milanese. Il fenomeno si sarebbe poi invertito, a partire dal 1990, in conseguenza della chiusura degli stessi grandi stabilimenti (ad esempio Pirelli, Falk, Montedison, ecc.) che ne erano stati la causa principale, fino a procurare preoccupazioni opposte, legate all’allagamento di sotterranei, parcheggi, metrò, ecc.

Né ciò, né i ben più seri problemi, legati all'inquinamento chimico, che si sono manifestati a partire dagli anni '60 ed ai quali si è rimediato aumentando la profondità dei pozzi fino a 160-180 metri, hanno comunque più mutato la struttura fondamentale dell'acquedotto milanese ed il Servizio, con i suoi 35 impianti, 2200 Km di tubature principali e 600 addetti, fa arrivare puntualmente nelle nostre case 300.000.000 di metri cubi d'acqua all'anno.
Dal 30 giugno 2003, invece, la gestione del servizio idrico integrato (comprendente i servizi di acquedotto, fognatura, collettamento e depurazione), è passata dal Comune di Milano alla Metropolitana Milanese S.p.A.

Diagramma orario dell’erogazione dell’acquedotto milanese

 

Bibliografia

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BEAUMONT MAILLET LAURE, L’aeau a Paris, Hazan, Paris, 1991
BIGNAMI GIOVANNI ROMOLO, CODUTI MARIA GRAZIA, Gli uomini e l'acqua, Cuneo, 1986
BRUCE F.E., Approvvigionamento idrico, in: Charles Singer (a cura di), Storia della tecnologia, vol. 6, tomo 2, Bollati Boringhieri, Torino, 1993
COMUNE DI MILANO, Milano nel 1906, Monografia edita dal Comune di Milano in occasione della Esposizione Universale
COMUNE DI MILANO (a cura di), Documenti storici dell’acquedotto milanese, Edizione a cura del comune di Milano, Milano 1989
FABIO ENZO, FASSITELLI LUCA, Pipelines di Roma antica, Edizioni Petrolieri d’Italia, Milano, 1997
KENNARD J., Ingegneria sanitaria: rifornimento d'acqua, in: Charles Singer (a cura di), Storia della tecnologia, vol. 4, tomo 2, Bollati Boringhieri, Torino, 1993
KUTZBACH KARL, L'acqua. Come il fluido segna il costruito, in: “Quaderni Di”, n. 10/1990, Napoli, 1990
MOTTA VITTORIO, L'acquedotto di Milano, Edizione a cura dell'Ufficio Stampa del Comune di Milano, Milano, 1981
MOTTA VITTORIO, L'acquedotto di Milano, Edizione a cura del Comune di Milano, Milano, 1989
RAWLISON J., Ingegneria sanitaria: igiene, in: Charles Singer (a cura di), Storia della tecnologia, vol. 4, tomo 2, Bollati Boringhieri, Torino, 1993
RUMI GIORGIO (a cura di), Milano nell’unità nazionale, 1860-1898, Edizione a cura di CARIPLO, Milano 1991
RUMI GIORGIO (a cura di), Milano nell’Italia liberale, 1898-1922, Edizione cura di CARIPLO, Milano 1993

 



[1] Per esempio le epidemie di colera che scoppiarono a Londra nel 1849 e 1853-54, che causarono la morte di più di 20.000 persone.
Ancora tra il 1870 ed il 1890 scoppiarono in Europa oltre 600 epidemie più o meno gravi, il 70% delle quali causate dall'acqua.Si tenga anche presente che nel secolo XIX le prime fondamentali scoperte microbiologiche diedero una ragione oggettiva al noto principio che legava la salute pubblica alla purezza dell'acqua e allo smaltimento dei liquami fognari.

[2] La contaminazione delle acque era causata dalla mancanza di una rete fognaria. Le acque reflue domestiche venivano scaricate in pozzi neri o cisterne sotterranee, che venivano periodicamente svuotate. Risulta che nel 1862 esistesse un apposito servizio comunale di svuotamento; esisteva inoltre un ufficio di sorveglianza, per eseguire analisi delle acque contaminate.

[3] Nella sua corposa relazione, Burkly esprimeva più volte il suo favore all’utilizzo di acque sotterranee, come poi fu fatto. Così scriveva:
“ Benché i progetti d’acqua di sorgente e principalmente quello della valle Pioverna e Varone siano studiati con moltissima cura, sono però d’avviso che le autorità di Milano dovrebbero prendere anzitutto in considerazione le acque sotterranee... Per quanto concerne la provenienza dell’acqua da immettere nel serbatoio di accumulo, le condizioni speciali della città giustificano la scelta dell’acqua sotterranea...”

[4] Della disponibilità di acqua pulita nella zona del Parco Sempione avrebbe beneficiato, qualche anno dopo, anche il Civico Acquario, che fu realizzato in occasione della Esposizione Internazionale del 1906.

[5] Il progettista dei restauri fu l’architetto Luca Beltrami.

[6] A realizzare l’opera fu l’impresa Porcheddu di Genova, che stava in quegli anni diffondendo in Italia l’utilizzo delle strutture in cemento armato secondo il brevetto del belga Francoise Hennebique.

[7] Si può ricordare, fra l’altro, la realizzazione di alloggi popolari a partire da un primo lotto approvato nel 1903 tramite la costituzione dell’apposita azienda per la loro costruzione, e la realizzazione delle Centrale del Latte, allora denominata “vaccheria modello”.

Ultima modifica: lunedì 17 maggio 2004

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