La possibilità
stessa di dar luogo a grandi agglomerati urbani degni del nome di città, è
lentamente maturata nei secoli ed è sempre stata legata alla capacità di
assicurare non solo un adeguato rifornimento di acqua, ma anche lo smaltimento,
sia delle acque meteoriche che delle
deiezioni umane. Il problema che era ben chiaro già nell'antichità (e
che era stato mirabilmente risolto dai nostri antenati Romani), si ripresentò
con forza nel secolo XIX quando molte città europee iniziarono un veloce
processo di crescita nel corso del quale non solo l'evidente crescita dei
fabbisogni, ma anche i numerosi scoppi di epidemie costrinsero i tecnici e le
pubbliche amministrazioni ad una presa di coscienza, e li spinsero all'azione[1].
La risposta a queste esigenze fu ricercata nella emanazione
di leggi e regolamenti che garantissero una qualità verificabile di servizi
idraulici, e nella costituzione di società, a volte pubbliche a volte private,
che si incaricarono di erogarli. Iniziò così la costruzione di acquedotti
pubblici e di fognature, che storicamente
furono le prime reti a cominciare ad
invadere il sottosuolo delle città moderne (in alcune città un po’
prima, in altre più tardi rispetto alla rete del gas) ed a introdurre l'idea
stessa di distribuire capillarmente un servizio di prima necessità,
sottraendolo all'iniziativa del singolo (non più incaricato di scavare il suo
pozzo o di svuotare il suo pozzo nero).
Benché tali esigenze e le idee su come affrontarle non fossero
affatto nuove, il generale potenziamento di risorse a disposizione della
tecnologia ne permise un affronto più esteso e radicale. Per esempio i
progressi della metallurgia consentirono di fabbricare grandi quantità di tubi
in ferro o in ghisa a prezzi relativamente bassi; pompe e macchine a vapore
aiutarono a distribuire l'acqua nelle tubature più facilmente di quanto non si
potesse fare negli antichi impianti a gravità. S'imparò a costruire dighe e
bacini di raccolta più ampi ed a scavare pozzi più profondi.
Inoltre l'invenzione e la diffusione di dispositivi che oggi
ci sembrano banali, come il water closet, da una
parte fecero crescere i fabbisogni di acqua, dall'altra legarono
indissolubilmente fra di loro i problemi dell'approvvigionamento e dello
smaltimento.
Verso la fine del '700 e lungo tutto l'800 si assistette nei
principali paesi europei ad un pullulare di iniziative in campo
igienico-sanitario.
Può così sembrare strano che la costruzione del primo
acquedotto pubblico di Milano sia avvenuta a partire dal 1888, piuttosto tardi
cioè rispetto ad altre grandi città europee. Ciò trova qualche
spiegazione nel fatto che, proprio per
non essere stata costruita sulle rive di nessun grande fiume, Milano aveva
sentito l'esigenza di far convergere verso di sé un'imponente rete di canali e
navigli, che per secoli ne avevano determinato e caratterizzato l'aspetto
(prima che lo strapotere dell'automobile portasse alla sciagurata decisione di
interrarli). Questi canali derivati da fiumi un tempo puliti, come l'Adda
e il Ticino, costituivano una importante fonte di rifornimento d'acqua, sia per
le industrie, sia per le operazioni domestiche a più intenso consumo come il
lavaggio della biancheria.
Per l'acqua potabile,
ed in genere per gli usi domestici, il rifornimento avveniva tradizionalmente
da una miriade di pozzi privati, che
attingevano dalla ricca e facilmente accessibile falda freatica.
Si trattava in genere di pozzi scavati, con rivestimento in
mattoni, profondi non più di 6-7 metri; molto rari erano i pozzi trivellati,
che raggiungevano i 12-13 metri dando ovviamente acque migliori.
Questa relativa abbondanza d'acqua è probabilmente la più
semplice spiegazione del tardivo
sviluppo di un acquedotto a Milano; anche nella nostra città, comunque,
l'aumento degli abitanti (circa 321.000 al censimento del 1881), l'aumento
delle esigenze igieniche[2]
e dei consumi d’acqua, portarono ad un crescendo di richieste della
"pubblica opinione" e indussero le autorità ad affrontare il
problema. Occorsero comunque quattro anni, dal 1877 al 1881, perché
l’amministrazione comunale, guidata dal sindaco Giulio Belinzaghi, prendesse in
esame ben tredici progetti, nessuno dei quali convinse le autorità comunali, o
per la scarsità delle fonti proposte o per la loro lontananza (o forse perché
altre erano in quegli anni le priorità della Giunta, cioè i grandi progetti
edilizi e di trasformazione urbana, ai quali anche l’acquedotto sarebbe però in
breve risultato necessario).
Alla fine del 1881 un progetto della “Società Italiana
Condotte d'Acqua”, che prevedeva la costruzione di una conduttura che doveva
portare 900 litri d'acqua al secondo da alcune sorgenti della Val Brembana,
piacque alle autorità cittadine; si scatenò però una irriducibile opposizione
di tutte le autorità della provincia di Bergamo, che non fu scalfita nemmeno da
autorevoli prese di posizione favorevoli al progetto, come quella del più
famoso geologo dell'epoca, l'abate Stoppani; furono vani anche i tentativi del
Comune di far dichiarare l'opera, dalle autorità nazionali, di pubblica
utilità.
Passarono così ben sei anni, fino al 1887, prima che il
Comune rinunciasse all'idea e bandisse un nuovo concorso. Nel frattempo era
diventato sindaco Gaetano Negri, ed era stato approvato (nel gennaio
del 1886) il primo Piano Regolatore elaborato, dall‘ing. Beruto. Furono
presentati 22 nuovi progetti, tra i quali una apposita commissione ne selezionò
sette meritevoli di ulteriori approfondimenti. In particolare vale la pena di
menzionare quello presentato dell’ingegner Villoresi (il progettista del grande
canale che collega il Ticino all’Adda) che propose di alimentare la città
tramite una condotta forzata, cioè una tubazione in pressione (12 atmosfere),
che sarebbe partita dai monti lecchesi, e avrebbe permesso di ricavare
dall’acqua anche forza motrice, tramite piccole turbine da installare negli
stabilimenti industriali.
I progetti furono discussi a lungo. Furono chiesti pareri
ufficiali anche a professionisti di fama internazionale, come l'ingegner Burkly[3],
capo delle acque pubbliche di Zurigo, ma alla conclusione di un acceso
dibattito in Comune tutte le proposte furono nuovamente rigettate.
Così alla fine di questa lunga diatriba prevalsero le
modeste, ma concrete e realistiche opinioni dell'Ufficio Tecnico Comunale, in
particolare del giovane ingegnere Felice
Poggi, che proponeva di attingere alla falda freatica, la tradizionale
fonte usata da secoli dai milanesi, costruendo però pozzi profondi, in modo da
avere garanzie di purezza e salubrità dell'acqua.
In effetti, durante la costruzione dei primi due pozzi
sperimentali, intrapresa nella seconda metà del 1888 nella zona dell'Arena, si constatò che a profondità di 20-30
metri degli strati compatti di argilla proteggevano la falda dalle infiltrazioni
superficiali, così che alla profondità raggiunta dallo scavo (il primo pozzo fu
spinto fino a 145 metri, il secondo fino a 81m), l'acqua era ottima ed
abbondante. In questi pozzi l’acqua risaliva per pressione naturale
fino a 3-4 metri dal livello del suolo, ed era così possibile aspirarla
facilmente con delle pompe sistemate
qualche metro più in basso del livello stradale, ed azionate con cinghie.
All'inizio del 1889 fu di conseguenza decisa la costruzione
del primo impianto di pompaggio,
che fu denominato "Arena" ed entrò in servizio
prima della fine dell'anno stesso. Esso era alimentato dai primi due pozzi
sperimentali e da altri quattro scavati nel frattempo. Il macchinario
consisteva in due motrici a vapore, alimentate da tre caldaie “tipo
Cornovaglia”, che azionavano, mediante grandi cinghie, due pompe alternative
della portata complessiva di 140 litri\secondo.
L'utilizzatore di quest'acqua fu il nuovo quartiere
residenziale che stava sorgendo fra piazza Castello, foro Bonaparte e via
Dante, mentre parte dell'acqua non ancora consumata andò a diluire le acque
della rete fognaria dello stesso quartiere[4].
Per regolarizzare la pressione di erogazione dell’acqua, furono costruiti due
grandi serbatoi di accumulo in quota che furono “nascosti” all'interno dei
torrioni del Castello Sforzesco. Questa strana commistione di vecchio e
di nuovo poté avvenire in quanto alla fine del ‘800 il Castello stava subendo
quel radicale processo di restauro e rifacimento che, dopo secoli di abbandono,
lo avrebbe portato alla forma attuale[5].
Per primo fu realizzato, nel 1893, un serbatoio in ferro nel torrione Est, progettato dal prof. Cesare Saldini del Politecnico, e realizzato
dalla ditta Schlaepfer di Torino ; dieci anni dopo, fu la volta del torrione
Sud, dove il serbatoio fu realizzato in cemento armato[6].
Questo primo impianto ebbe una notevole importanza, perché
il suo successo determinò l'impostazione tecnica che l'acquedotto milanese
avrebbe poi conservato fino ad oggi (così come fino ad oggi avrebbe conservato
la caratteristica di essere una iniziativa pubblica). Esso diede inizio ad un
progressivo e costante sviluppo del servizio di distribuzione dell’acqua
potabile, sostenuto dal deciso aumento dei consumi che si innescò via via che i
milanesi si accorsero della comodità dell'avere acqua in abbondanza nelle
proprie case, e che divenne "naturale" pensare che i nuovi edifici
dovessero allacciarsi all'acquedotto.
La rete dell’acqua potabile divenne una sorta di fiore
all’occhiello fra le varie attività volte a migliorare le condizioni di vita
dei cittadini, che la municipalità intraprese[7]
negli anni di fine secolo, in quanto a differenza di altri servizi tecnici a
rete, quali il gas, l’elettricità e successivamente il telefono, fu organizzata
fin dall’inizio come impresa pubblica in virtù di un carattere di necessità
che, sostenevano i suoi promotori, non poteva “convenientemente affidarsi a chi
ne voglia fare motivo di lucro”.
L’acqua rappresentava in effetti una delle acquisizioni (o
riacquisizioni) più significative della tecnica urbanistica ed igienica, i cui
cultori e specialisti avevano gradualmente sviluppato, nel corso dell‘800, una
visione della città intesa come un organismo da nutrire e depurare, mediante un
sistema per la circolazione di sostanze vitali.
“Tanto nel corpo di un animale quanto nell’organismo di una
città il liquido vitale è condotto e distribuito da una rete completa di canali
di diramazioni e ramificazioni”, aveva non a caso scritto, nel 1892, l’ing. Poggi.
In effetti l’abbondante disponibilità di acqua potabile
permise, oltre che la distribuzione agli edifici privati (all’inizio a quelli
di un certo pregio), anche la costruzione di bagni e servizi pubblici, e di
“stabilimenti” di grandi dimensioni, come quelli realizzati, su progetto
dell’ingegnere comunale Giuseppe Codara, al Ponte delle Gabelle (vicino a Porta
Nuova) ed in via Argelati (vicino a Porta Ticinese), dotati di ampie
piscine. Questi impianti consentivano l’accesso, a prezzi popolari, a
stabilimenti balneari certo meno eleganti, ma funzionalmente non diversi da
quelli che la Milano ricca già da molti anni utilizzava: ad esempio il
prestigioso ed elegante Kursaal Diana, a porta Venezia, che era stato costruito
ad emulazione di simili impianti, diffusi nelle principali città europee.
Il secondo impianto di pompaggio fu costruito nel 1898 al
rondò Cagnola (l'attuale piazza Firenze; nel 1903 si aggiunse la
centrale "Parini" (vicino all’attuale P.za della Repubblica). La potenzialità complessiva raggiunse i 410 litri/secondo e la rete di
tubature i 134 Km.
Nel 1910 le centrali di pompaggio erano diventate 10, i
pozzi 87. Le pompe di spinta della rete erano ormai di tipo centrifugo, alcune
ancora azionate da motrici a vapore, ma la maggior parte azionate da
motori elettrici; erano anche in uso le prime elettropompe sommerse.
Gli edifici delle centrali di quell'epoca, in genere
costruiti in sobrie architetture di mattoni a vista, sono tuttora riconoscili,
con un po' di attenzione, nel tessuto urbano: per esempio la centrale di via
Benedetto Marcello o quella di via Cenisio, in anni recenti trasformata
in Museo dell'Acquedotto. Altri di questi edifici furono fin dall’inizio
progettati in maniera tale da confondersi nel tessuto urbano, come la centrale
di corso Vercelli, allo sbocco di piazza Piemonte, quasi completamente
sotterranea e affiorante in superficie solo a formare una sorta di terrazza con
balaustra, in mezzo al verde, o come quella al parco Sempione, realizzata nel
1908, e completamente mimetizzata nel verde, o quella sotterranea di Corso
Indipendenza.
Il progressivo estendersi dell’acquedotto divenne col tempo
una delle “opere di urbanizzazione” fondamentali che caratterizzarono lo
sviluppo della città, così come venne delineato dai successivi piani
regolatori. Le due tabelle seguenti sintetizzano efficacemente, pur
nell’aridità delle cifre, l’ampiezza e la rapidità di espansione
dell’acquedotto cittadino.
Centrale di
pompaggio
|
Anno di
costruzione
|
Portata nominale
litri/sec
|
Numero pozzi
|
Rondò Cagnola
|
1898
|
170
|
12
|
Parini
|
1900
|
100
|
10
|
Marcello
|
1901
|
200
|
12
|
Armi
|
1904
|
400
|
12
|
Cenisio
|
1906
|
300
|
14
|
Vercelli
|
1906
|
400
|
12
|
Parco
|
1908
|
300
|
10
|
Comasina
|
1909
|
40
|
14
|
Maggiolina
|
1912
|
400
|
28
|
Anfossi
|
1915
|
400
|
37
|
Italia
|
1919
|
400
|
26
|
Trotter
|
1920
|
360
|
22
|
Este
|
1924
|
400
|
24
|
Indipendenza
|
1925
|
400
|
26
|
Crema
|
1926
|
400
|
25
|
Palestro
|
1926
|
400
|
23
|
Napoli
|
1927
|
400
|
24
|
Totale
|
|
5830
|
331
|
Centrale di
pompaggio
|
Anno di
costruzione
|
Portata nominale
litri/sec
|
Numero pozzi
|
Capacità vasche
m3
|
Sforza
|
1929
|
200
|
8
|
60
|
Espinasse
|
1929
|
400
|
13
|
250
|
Poggi
|
1930
|
400
|
13
|
250
|
Martini
|
1930
|
400
|
13
|
250
|
Tonezza
|
1930
|
400
|
13
|
250
|
Gorla
|
1932
|
400
|
11
|
500
|
Porta Nuova
|
1933
|
400
|
15
|
1900
|
Cantore
|
1935
|
320
|
12
|
500
|
Marcello
|
1936
|
400
|
12
|
1500
|
Suzzani
|
1937
|
600
|
16
|
1800
|
Ovidio
|
1939
|
400
|
15
|
1500
|
L’affermarsi
del concetto della fornitura d’acqua attraverso l’acquedotto segnò purtroppo
(assieme ad altri eventi), anche il destino dei tanti canali d’acqua che da
secoli solcavano la città, in particolare i navigli, preparando il terreno per
quella copertura, realizzata a partire dal 1929-30, che ne avrebbe
definitivamente sancito la trasformazione in canali di scolo, come tali in
realtà da occultare.
Col passare degli anni ed il progressivo indiscriminato
sfruttamento, pubblico e privato, la falda freatica cominciò a dar segni di
"stanchezza": i primi segni di un pur modesto abbassamento risalgono
già al 1928, e la situazione sarebbe gradualmente peggiorata in conseguenza
dell’incremento dei prelievi operati soprattutto dalle grandi industrie
(siderurgica, chimica e meccanica) che si sviluppavano nell’area milanese. Il
fenomeno si sarebbe poi invertito, a partire dal 1990, in conseguenza della
chiusura degli stessi grandi stabilimenti (ad esempio Pirelli, Falk,
Montedison, ecc.) che ne erano stati la causa principale, fino a procurare
preoccupazioni opposte, legate all’allagamento di sotterranei, parcheggi,
metrò, ecc.
Né ciò, né i ben più seri problemi, legati all'inquinamento
chimico, che si sono manifestati a partire dagli anni '60 ed ai quali si è
rimediato aumentando la profondità dei pozzi fino a 160-180 metri, hanno
comunque più mutato la struttura fondamentale dell'acquedotto milanese ed il Servizio, con i suoi 35 impianti, 2200 Km di
tubature principali e 600 addetti, fa arrivare puntualmente nelle nostre case 300.000.000 di metri cubi d'acqua all'anno.
Dal 30 giugno 2003, invece, la gestione del servizio idrico integrato (comprendente i servizi di acquedotto, fognatura, collettamento e depurazione), è passata dal Comune di Milano alla Metropolitana Milanese S.p.A.
Bibliografia
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KUTZBACH KARL, L'acqua.
Come il fluido segna il costruito, in: “Quaderni Di”, n.
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MOTTA VITTORIO, L'acquedotto di Milano, Edizione a
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RUMI GIORGIO (a cura di), Milano nell’unità nazionale,
1860-1898, Edizione a cura di CARIPLO, Milano 1991
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