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Il gas a Milano

di Gian Luca Lapini

Uno degli addetti alla accensione dei lampioni pubblici di Milano: i lampedée (1821)

 

Origini dell’illuminazione pubblica a Milano

Per chi abita in una città moderna come Milano è normale pensare che di notte strade e piazze siano illuminate (salvo magari lamentarsi che c’è inquinamento luminoso e che non si vedono più le stelle). Non è quindi facile immaginare quanto dovesse essere buia la nostra città, ancora nel '700, con una illuminazione stradale allora in gran parte affidata alle sole insegne di botteghe ed osterie, ed alle lampade votive poste davanti alle, per fortuna numerose, immagini sacre e tabernacoli.

Intendiamoci, a Milano la situazione non era molto peggiore che in tante altri luoghi perché anche nelle più grandi città Europee i servizi di illuminazione pubblica erano modesti. In sostanza le abitudini non erano ancora molto cambiate dai tempi medioevali, quando le comunità cittadine si preparavano alla notte come a un periodo di pericoli ed insidie: al tramonto aveva inizio il ritiro verso le case, le porte delle mura venivano chiuse e con l’oscurità vigeva il coprifuoco. La ronda notturna perlustrava le strade munita d’armi e di fiaccole che servivano non solo ad illuminarle la via, ma anche a permetterle di essere vista come forza d’ordine pubblico. I privati cittadini che si recavano in strada di notte, dovevano anch’essi avere con sé un lume per non rendersi sospetti.

A Milano un passo in avanti decisivo nel campo dell’illuminazione pubblica fu fatto solo nel 1784, quando con un decreto dell'imperatore austriaco Giuseppe II i proventi del gioco del lotto e delle imposte sui fabbricati, pagate dai milanesi all’amministrazione asburgica, furono dedicati a impiantare un servizio di illuminazione pubblica con lampioni ad olio. Dal 1787 in poi questo servizio fu affidato ad un apposito corpo di operai accenditori, i lampedée, che con la loro scala sulle spalle passavano rapidamente ad accendere e spegnere un fanale dopo l'altro e ne curavano il rifornimento e la pulizia. Le lampade ad olio, perfezionate con l'introduzione del “becco di Argand”, raggiunsero rapidamente le migliaia e rimasero poi in funzione fin oltre la metà del secolo, solo gradualmente soppiantate dai lampioni a gas.

Con l’introduzione del gas illuminante, ricavato dal carbon fossile, iniziò anche a Milano quella “rivoluzione della luce” (che qualche decennio più tardi sarebbe stata accelerata dalla luce elettrica), che avrebbe gradualmente cambiato il nostro modo di intendere il giorno e la notte, allungando i tempi della vita cittadina sempre più verso le “24 ore su 24”.

La storia dell'utilizzo del gas ricavato dal carbon fossile per l'illuminazione, pubblica e privata, costituisce una vicenda per molti versi esemplare non solo per l'affermarsi di un'industria e di una tecnologia assai importante per tutto lo sviluppo tecnico economico delle società occidentali, ma anche per rendersi conto di come abbia preso piede il concetto stesso di “rete tecnologica di servizio”, cioè quello della possibilità di una distribuzione di beni primari, prodotti in officine centralizzate e messi a disposizione di larghi strati di popolazione.

 

Il gas illuminante a Milano

Nella nostra città le prime iniziative di produzione ed utilizzo del gas illuminante furono opera di privati, in particolare del conte Porro Lambertenghi, appassionato di fisica e primo imprenditore lombardo ad impiantare una filanda a vapore. Milano e la Lombardia, dopo l’effimera esperienza della Repubblica Cisalpina, a seguito del congresso di Vienna del 1815 erano tornate sotto il dominio austriaco. Nel palazzo Porro di via dei Tre Monasteri (l'attuale via Monte di Pietà) la storia del gas si mescolò con quella dei primordi del Risorgimento: qui infatti si riunivano, attorno alla rivista “Il Conciliatore”, che sarebbe stata di lì a poco soppressa dagli austriaci, patrioti quali Silvio Pellico e Federico Confalonieri. Silvio Pellico[1], che era precettore dei figli del conte, fu da lui incaricato di tradurre in italiano il Trattato pratico sopra il gas illuminante del tecnico inglese Frederick William Accum, che fu pubblicato a Milano nel 1817.

Forno di distillazione del carbone (a dx), gasometro e depuratore del gas (a sx), in una illustrazione del trattato di Accum del 1817L’anno successivo, 1818, il palazzo Porro fu illuminato con una apparecchiatura acquistata direttamente in Inghilterra da Frederic Winsor, un imprenditore che aveva fatto fortuna a Londra offrendo il primo servizio pubblico di illuminazione a gas in Europa. Non ci sono rimasti documenti di come fosse esattamente fatta questa apparecchiatura, ma è probabile avesse un aspetto non molto diverso da quello di una delle illustrazioni del trattato di Accum, riprodotta qui accanto.
Si sa comunque che insieme alle macchine arrivarono anche delle consistenti partite di carbone di Newcastle, probabilmente per garantire che fosse della qualità più adatta alla produzione di gas, ed anche un meccanico inglese per avviare l’impianto. Il conte Porro avrebbe voluto andare avanti, con impianti più grandi ed organizzare un servizio pubblico, ma le autorità austriache non ne vollero sapere.

Pochi mesi dopo il Cav. Aldini (nipote del famoso Luigi Galvani, pioniere degli studi sui fenomeni elettrici), illuminò il teatro privato di via dell'Olmetto con il gas prodotto da un modesto distillatore (non di carbone, ma di olio), ma neanche lui riuscì a convincere l'amministrazione austriaca, ed a realizzare, come avrebbe voluto, un impianto per illuminare a gas il "teatro Regio della Scala".

Dopo questi tentativi bisognerà arrivare quasi alla metà del secolo prima di avere a Milano uno sviluppo consistente dell'illuminazione pubblica a gas, con una lunga preparazione nel corso della quale non mancarono le proposte, ma ci fu opposizione al gas, sia da parte dell’amministrazione austriaca, sia da parte dell’establishment tecnico-scientifico, compresa l'emissione di timorosi regolamenti, "contro i pericoli terribili della fabbricazione e dell'uso del gas illuminante, nel caso che siffatto genere di notturna illuminazione avesse ad essere introdotta anche in questa provincia".[2]

Altre città italiane avevano intanto preso l’iniziativa, e come per il treno[3] fu la “borbonica” Napoli ad anticipare Milano, illuminando per prima col gas, nel settembre 1837, il Portico di S. Franceso di Paola di fronte al Palazzo Reale[4].

Dopo un ennesimo rifiuto fatto ad una richiesta di concessione, avanzata nel 1842 dal conte Emanuele Caccia, finalmente nel giugno 1843 l'Amministrazione Comunale, con un contratto firmato davanti al notaio Tommaso Grossi, concesse alla società dell'ingegner Achille Guillard di Parigi l'appalto per l'illuminazione pubblica a gas, con la facoltà di costruire lo stabilimento di produzione, compreso un gasometro da 1850 metri cubi, a San Celso appena fuori Porta Lodovica, su di un’area molto prossima a quella dove attualmente sorge la Centrale del Latte, in una di quelle zone all’esterno dalle mura spagnole, dette dei Corpi Santi, dove stavano sorgendo abitazioni popolari, magazzini commerciali e le prime fabbriche.Ritratto giovanile di Carlo Cattaneo (1826)

Ci sembra significativo che, nonostante la città fosse ancora sotto il dominio austriaco, per una iniziativa industriale come questa bisognasse rivolgersi all’estero, per giunta alla rivale Francia. A quanto pare non solo le capacità locali di costruire impianti meccanici di dimensioni e complessità rilevanti erano ancora molto modeste (fu infatti necessario ricorrere in gran parte a materiali di importazione), ma neanche le capacità finanziarie ed imprenditoriali, locali e austriache, erano tali da sostenere autonomamente una simile impresa. Eppure non era mancato all’iniziativa il sostegno delle migliori menti milanesi, quali quella del saggista, economista e patriota Carlo Cattaneo, che dalla righe de “Il Politecnico”, una delle prime riviste tecnico-scientifiche d’Italia, da lui fondata nel 1839, aveva più volte preso posizione a favore di questa, così come di tante altre tecniche moderne. Cattaneo era anche stato uno dei primi soci dell’ing. Guillard.

La prima rete di distribuzione del gas comprendeva circa 15 Km di tubazioni interrate, mentre erano 377 i “becchi” di illuminazione a gas, posti a 40-60 metri l'uno dall'altro. Nelle officine il gas poteva essere prodotto in 48 forni, sia con carbon fossile di importazione, sia dagli schisti bituminosi provenienti dalla zona di Besano (Varese) per la cui estrazione Guillard aveva già da qualche anno una concessione.

Dalla data di inaugurazione dell’impianto, il 31 luglio 1845, i lampedée ebbero nuovo lavoro per accudire i nuovi lampioni a gas. Il poeta milanese Leopoldo Barzaghi, così celebrava l’evento in una sua rima del 1845:

Tipico lampione a gas, con fiamma a coda di pesce (prima metà ‘800)Ona fiammella delicata e bella
Lustra compagna di stell, fada a crespin,
Senza inasprì la vista, adess l’è quella
Che brusa a gass, e senza su el stoppin
E inlumina Milan in sta manera,
Chi se speggia in di donn, fàn bella cera.

Ah Milan te diventet purancha bella,
Adess te po sta al pari de Parîs,
In sti poch agn set deventaa ona stella
[...]

Paris, Turin, Londra, Venezia insemma
Che gh’han avuu el regâl prima de tì
De sta roba inscì bella, de sta gemma,
Sdegnaven de parlatt, disend inscì:
- Va via Milan, orbonna, sanza gass
Te see pêg che la pell d’on ananass.

In una bella incisione di quegli anni c’è rimasta la testimonianza di come doveva apparire, nel suo complesso, quel primo impianto.

La prima officina del gas a Porta Ludovica (1845): a sx i forni, a dx i gasometri, sullo sfondo S. Celso e il Duomo

Se vogliamo immaginarci come fossero fatti i forni di distillazione del carbone, possiamo osservare come, non moltissimi anni fa, ancora si presentavano gli impianti in abbandono delle officine del gas di Mortara (PV), costruite verso fine ‘800 con tecnologia similare: sono ben riconoscibili le bocche di carico delle storte ed i tubi di uscita del gas, di disegno assai simile a quelle in uso nell’800.

Forni in abbandono nell’officina del gas di Mortara (costruita fine ‘800)Schema di storta (forno) orizzontale di Murdock, per la distillazione del carbone, in uso nell’800

 

 

 

 

 

 

 

 

Di lì a due anni, nell’autunno del 1847, la storia del gas si sarebbe di nuovo intrecciata con le vicende politiche milanesi. Nell’autunno del 1847 era infatti morto il vescovo cittadino, il tedesco Gaisruck, e grandi festeggiamenti erano stati preparati per l’insediamento del nuovo arcivescovo, l’italiano Bartolomeo Romilli. Davanti all’arcivescovado, in p.za Fontana, era stata in particolare allestita una grande illuminazione straordinaria a gas che i milanesi si recarono in gran numero ad ammirare per più sere: in realtà era una buona occasione per esaltare l’italianità del nuovo eletto. Si trattò di manifestazioni spontanee, presto disperse con la forza dagli austriaci, che fecero da prodromi a quello che sarebbe successo di lì a pochi mesi (marzo 1848) con le Cinque Giornate di Milano.

Ritornando agli inizi dell’illuminazione pubblica a gas, è interessante riportare che il servizio veniva pagato dal Comune; una discreta cifra per quei tempi: 4,66 centesimi di lira per ora e per fiamma[5]. Nonostante questo la società non rendeva abbastanza così che il servizio, già nel 1846, passò di mano venendo rilevato dal sig. Jean Baptiste Roux che mutò la ragione sociale della compagnia in: Roux & C. Il Comune stipulò nel 1851 una convenzione a prezzi un po’ più favorevoli con questa compagnia, che gestiva un impianto anche a Bologna, ma che si dimostrò anch’essa poco durevole. Di lì a qualche anno le subentrò una più solida società, con impianti ed interessi in molte città europee, la Union des Gaz di Parigi, che dal 1859 in avanti mantenne il monopolio, dimostrandosi capace di destreggiarsi bene anche fra le variazioni e gli sconvolgimenti del quadro politico, a partire da quell’anno in cui si combatté la Seconda Guerra d’Indipendenza, i cui esiti avrebbero portato nel 1861 alla proclamazione del Regno d’Italia. Ai privati, residenti lungo le strade del centro percorse dai tubi del primo impianto di S. Celso (corso Monforte, corso Venezia, via Brera, via Larga, per citarne solo alcune), era data la facoltà di allacciarsi alla stessa rete che alimentava i lampioni. Le tariffe per i privati erano peraltro assai più care, così che per molti anni l’illuminazione a gas rimase fuori della portata anche dei ceti medi, affermandosi però largamente negli esercizi commerciali e produttivi.

Una ventina di anni dopo l’inizio del servizio, verso il 1867, la rete di illuminazione stradale a gas era abbastanza completa anche nelle zone più periferiche e si era anche diffuso l'uso privato, essendo ormai in servizio circa 30.000 “becchi” (così si chiamavano le utenze). Fra gli utilizzi pubblici del gas, particolarmente significativo fu quello fatto a partire dal gennaio 1861 presso la Biblioteca Nazionale di Milano (la Braidense) dove tre sale illuminate a gas consentirono l’accesso serale di un gran numero di lettori.

Diffusione dell’illuminazione pubblica a Milano, fino al 1867

A gas era illuminata anche la Galleria Vittorio Emanuele che unisce la piazza del Duomo a quella della Scala; costruita fra il 1865 e il 1877, era stata intitolato dai milanesi al re sabaudo che era stato l’artefice dell’Unità d’Italia. La liberazione della città dalla tutela austriaca aveva messo in moto un vivace processo di sviluppo commerciale ed industriale, del quale l’elegante “salotto” cittadino, con il suo riuscito intreccio fra classicità decorativa e modernità della copertura il ferro[6] e vetro, divenne presto uno dei simboli. Un particolare curioso: i lampioni dell’ottagono, la parte più alta della Galleria, non venivano accesi a mano, ma tramite una specie di trenino a molla, battezzato dai milanesi il ratin (topolino), che correndo su un binario portava una fiammella che li accendeva in rapida sequenza.

Nel periodo cruciale per la nascita dell’Italia moderna, quello che va dalla Prima Guerra d’Indipendenza (1848), alla presa di Porta Pia (1870), i progressi del gas furono, comunque, non solo milanesi, e l’introduzione e l’estensione dei servizi di illuminazione a gas coinvolse un buon numero di città di tutto il paese. Le società del gas italiane erano comunque in buona parte in mano a capitali stranieri, francesi, inglesi e belgi. L’Union des Gaz era in particolare una vera e propria multinazionale.

 

Energia del gas a Milano

Con il trascorrere degli anni gli usi privati divennero prevalenti, tant'è vero che nel 1881, per esempio, il consumo privato fu di 8 milioni di metri cubi, quello pubblico di 1,6. Fra i consumatori privati cominciò ad essere cospicuo il numero degli utenti industriali, in genere di piccole dimensioni, che per le necessità di forza motrice dei loro stabilimenti, utilizzavano dei motori a combustione interna[7] alimentati a gas, molto più semplici e immediati da usare di una macchina a vapore e della relativa caldaia (che impiegava ore per andare in pressione).

Come osservava l'ing. Giuseppe Colombo, dopo aver calcolato in circa 2000 cavalli vapore la potenza delle macchine a quel tempo impiegate nell’industria milanese:
"Questa cifra comprende le macchine a gas, le quali vi portano ora, è vero, un contingente assai piccolo; ma è un fatto che esse si vanno rapidamente estendendo, e se dovesse, come pare probabile, diffondersene l'uso nella stessa misura in cui si estende a Torino[8], in breve esse verrebbero a rappresentare una forza cospicua".

L’aumento dei consumi aveva richiesto alla Union des Gaz la costruzione di una nuova officina di produzione, sempre fuori Porta Ludovica. Schema di becco a gas con reticella ad incandescenza di Auer (verso 1885)Lampione a gas ad incandescenza, in uso a Milano fino al 1922Inoltre nel 1870 era entrata sul mercato milanese una seconda società, la “Compagnia lombardo-veneta per la carbonizzazione dei fossili terziari”, di Jean-Jaques di Guillet, che aveva ottenuto l’esclusiva per la fornitura al Comune dei Corpi Santi (le zone periferiche della città), che allora erano amministrativamente indipendenti, ed alla stazione centrale delle ferrovie; a questo scopo aveva realizzato una propria officina di produzione del gas nella zona di Porta Nuova[9].

Dopo poco più di quarant'anni dalla sua introduzione a Milano, l’utilizzo del gas per l’illuminazione cominciò una fase di declino a partire dai primi impianti di illuminazione pubblica elettrica, attorno al 1883. Nonostante la tecnologia dell’illuminazione a gas avesse compiuto un notevole progresso, con l'invenzione, nel 1884, della reticella ad incandescenza Auer[10] che permetteva di ridurre notevolmente il consumo di gas a parità di intensità luminosa, l’elettricità avrebbe un po’ alla volta scalzato il dominio del gas (gli ultimi lampioni a gas sopravviveranno in città fino al 1922). A poco servirono l’opposizione della società del gas, le battaglie legali ed anche le campagne pubblicitarie (si veda qui sotto il bellissimo manifesto di Giovanni Mataloni del 1895, piuttosto osè per il suo tempo): la semplicità impiantistica e soprattutto la pulizia dell’illuminazione elettrica si sarebbero inesorabilmente affermate, nonostante i costi dell’elettricità fossero inizialmente più alti di quelli del gas.

Pubblicità delle lampade a incandescenza a gas Auer (G.Mataloni, 1895)

Intanto si preparava quanto era tecnicamente necessario per la funzione principale che il “gas di città” avrebbe avuto nel XX secolo, quella di una fornitura pratica e conveniente di energia calorifica per usi civili ed industriali. Furono innanzi tutto perfezionati i processi di produzione del così detto gas d'acqua, con i quali si aumentarono notevolmente le rese energetiche della gassificazione del carbone. Investendo il carbone incandescente in fase di distillazione, o il carbon coke residuo, con getti di vapore si provocava la scissione delle molecole d'acqua ed una combustione parziale, ottenendo così un gas ricco di H2 (idrogeno) e CO (ossido di carbonio); questo gas non era il migliore per l'illuminazione, in quanto dava una fiamma poco luminosa (ed infinite furono le diatribe e le accuse di adulterazione ai produttori di gas), ma aveva un buon potere calorifico. Così nel 1904 l’Union des Gaz avanzò al comune la domanda di poter installare nelle proprie officine un impianto per la produzione del gas d'acqua.

Nell’ultimo quinquennio dell’800 il prezzo del gas si era comunque mantenuto sempre alto (nel 1891 fu proposto anche l’aumento del dazio sul gas, oltre che su altri beni, per diminuire il passivo del bilancio comunale), e questo provocò un malumore crescente fra gli utenti, che si riunirono in comitati di protesta in tutti i quartieri cittadini. Fu uno dei tanti motivi di disagio e malcontento che portarono allo scoppio nei moti di piazza del 1898, che come è noto furono stroncati a cannonate dal generale Bava Beccaris.

Nonostante tutto, comunque, le condizioni di vita anche dei ceti popolari un po’ alla volta miglioravano, mentre la città proseguiva nel suo tumultuoso sviluppo e nell’incremento della popolazione. Pubblicità di cucina a gas (anni ’20)Così, dopo il 1900, l’aumento dei consumi di gas per usi civili ed industriali si fece più deciso e la copertura del servizio del gas sul territorio urbano quasi totale: infatti nel 1905 si contavano 91.500 contatori (ormai si contabilizzavano i contatori, non più i becchi) per circa 550.000 abitanti, con una rete di distribuzione di circa 327 Km[11]. Era il risultato di una politica iniziata ancora nel 1865, quando nel rinnovo della convenzione con il Comune l’Union des Gaz si era impegnata entro due anni a portare la rete del gas "all'intiera città entro le mura... ed estenderla ad eventuali zone esterne che in futuro dovessero passare sotto la giurisdizione della città". La diffusione del gas, non solo come mezzo di illuminazione, ma anche per cottura, produzione di acqua calda e altri usi domestici[12] aveva raggiunto ormai un'ampiezza tale da incidere sui costumi e la vita stessa della città.

Si tratta, val la pena di sottolinearlo, di una delle “comodità” fondamentali del vivere moderno. Non bisogna infatti dimenticare che, prima del gas, per la cottura dei cibi si faceva affidamento sui focolari, sulle stufe a carbone o sui fornelli a carbonella di legna, tutte tecniche legate ad una pesante necessità di rifornimento di combustibile e di accudimento al fumo e alla sporcizia. Stanza da bagno con scaldacqua a gas, fine ‘800Scaldare l’acqua per le necessità igieniche personali o per fare il bucato era anch’essa una operazione complessa e faticosa, e questo non contribuiva certo a rendere facile il mantenimento di condizioni igieniche eccellenti.

La coscienza che la fornitura del gas costituisse ormai un servizio di rilevante importanza sociale e politica si espresse in molte città italiane nella municipalizzazione delle locali società del gas (fu effettuata a La Spezia già nel 1877, a Como nel 1894, a Padova e Vicenza nel 1896). La fine del secolo è in effetti caratterizzato dal forte movimento del così detto “socialismo dell’acqua e del gas”, a seguito delle cui influsso verrà emanata nel 1903 la legge Giolitti sulla municipalizzazione dei servizi pubblici. Questa legge vide il convergere degli interessi liberali e socialisti (con il parere favorevole anche dei cattolici) in quanto i primi vi vedevano la possibilità di un certo arginamento delle tendenze monopolistiche nel campo di servizi essenziali a vantaggio della libera concorrenza, i secondi la possibilità di creare una fonte di introiti alle finanze locali, a vantaggio delle politiche sociali. La legge si inquadrò poi senz’altro nel tentativo giolittiano di avvicinare i socialisti e di legarli al governo del paese.Sciopero dei gasisti del 1909 : la forza pubblica sostituisce gli operai

La stessa coscienza era ovviamente ben presente fra i lavoratori del settore del gas, che non mancarono di far sentire il peso del loro numero e della importanza del loro servizio, per sostenere le loro rivendicazioni in occasione del primo massiccio sciopero cittadino a Milano nel novembre del 1901, e del primo sciopero generale nazionale del settembre 1904. Qualche anno più tardi, nel 1909, una pesante agitazione dei gasisti avrebbe coinvolto tutte le grandi città italiane, a testimonianza di quanto la fornitura di gas di città fosse ormai entrata decisamente negli usi comuni.

A Milano la possibilità di municipalizzare il servizio fu esaminata nel 1905, ma fu respinta, in quanto giudicata troppo onerosa dalla stessa amministrazione che si stava, nel frattempo, attivamente dando da fare per superare il monopolio della produzione di energia elettrica (con la costruzione della centrale elettrica comunale di piazza Trento).

 

Le officine del gas delle Bovisa

"Se ne stava ferma di fianco alla siepe. Gli occhi fissi sull’acqua della cava, dove i fuochi e le ombre di quel tramonto si rovesciavano come se sprofondassero nell’inferno. Anche la sabbia e la ghiaia parevano accendersi di luce rossastra, prima di lasciarsi vincere dall’ombra. Appena di là dalle fabbriche, dai camini e dai gasometri della Bovisa, i treni della Nord passavano e ripassavano indifferenti e veloci." (G. Testori, Il Fabbricone, 1961)

La produzione del gas rimase perciò monopolio della Union des Gaz, che in quello stesso anno 1905 iniziò la costruzione delle nuove e imponenti Officine del Gas della Bovisa, capaci di una produzione di 300.000 metri cubi giorno, che avrebbero più che raddoppiato la disponibilità di gas in rete, caratterizzando per decenni il panorama della periferia nord-ovest della città.

Forni e depositi del carbone alle Officine del gas della Bovisa (costruzione 1905)Le Officine del gas della Bovisa inserite tra i raccordi ferroviari: foto aerea degli anni ‘40

 

 

 

 

 

 

Negli impianti della Bovisa la distillazione del carbon fossile, che arrivava per ferrovia tramite i collegamenti sia alle FF.SS., sia alle Ferrovie Nord Milano, avveniva in camere di materiale refrattario, alte e strette, affiancate in lunghe "batterie". In questi impianti, soprattutto le fasi di movimentazione del carbone erano state in buona parte meccanizzate, così che si erano notevolmente ridotte le necessità di personale. Il processo di distillazione durava circa trenta ore ed andava accuratamente sorvegliato: infatti se la temperatura di distillazione era troppo bassa rispetto al valore ottimale di circa 800°C, si aveva la formazione di depositi catramosi, se era troppo alta le camere si incrostavano di un duro strato di grafite che doveva poi essere faticosamente rimosso a mano.

Le camere di distillazione erano chiuse da portelloni che venivano aperti al termine del processo; a questo punto il carbone coke residuo veniva scaricato con una macchina di spinta e raffreddato.
Il gas veniva raccolto da collettori in depressione e convogliato ad un primo “processo di lavaggio in controcorrente” per la rimozione delle impurezze che inevitabilmente si generano nel processo di pirolisi, e che devono essere rimosse affinché il gas possa essere distribuito in rete senza creare problemi alla rete stessa ed agli apparecchi che lo utilizzano (ad esempio, depositi o incrostazioni, attacchi corrosivi, ecc.).
Raccolto in piccoli gasometri polmone, passava ad un successivo processo di purificazione da benzolo ed ammoniaca e quindi veniva inviato ai grandi gasometri di accumulo. Il gas prodotto per distillazione veniva miscelato a seconda delle necessità con altri tipi di gas, tipicamente gas d'acqua prodotto con il coke stesso, ed era così pronto per essere immesso nella rete, pompato da appositi compressori centrifughi.

Il carbon coke residuo (un carbone leggero e poroso, di buon potere calorifico che bruciava con una fiamma corta) era una delle fonti di maggior attivo per la società produttrice, che lo rivendeva ai numerosi grossisti di carbone da riscaldamento che operavano a Milano e provincia. Un altro sottoprodotto di un certo pregio era un fertilizzante azotato che veniva ricavato dalle acque ammoniacali derivanti dal lavaggio del gas. Si ottenevano anche solfato ammonico, catrame, benzolo e toluolo che trovavano pronto impiego in una serie di piccole industrie chimiche che si trovavano al contorno dell’impianto, rendendo la Bovisa il primo polo chimico dell’industria milanese.

La società Union des Gaz sopravvisse a Milano fino al 1920. Durante la Prima Guerra Mondiale, e nei due anni che avevano fatto seguito alla sua fine (l’eccitato “biennio rosso”), le difficoltà di approvvigionamento del carbone, le tariffe calmierate e le agitazioni sindacali, avevano messo sempre più in difficoltà la Union fino a costringerla a cercare l’apporto di nuovi capitali. Era nata così una nuova società, che assunse la denominazione “Società Gas e Coke”, dando un nuovo impulso allo sviluppo degli impianti e della rete.

Gasometro autoportante da 130.000 mc, Officine della Bovisa  1953Nel 1931 un nuovo cambio di mano vide subentrare la Edison, ormai divenuta la più potente società elettrica italiana, che era molto interessata a penetrare anche nel campo della produzione e distribuzione del gas; essa stipulò con il Comune un accordo di concessione, dando avvio alla SASPEP (Società Anonima Servizi Pubblici e Partecipazioni). Nel 1934 fu definitivamente chiusa la vetusta officina di San Celso e la produzione del gas si concentrò tutta alla Bovisa. Nel secondo dopoguerra gli impianti della Bovisa vennero ulteriormente sviluppati e modernizzati, in modo da soddisfare l’incremento della domanda. A questo scopo nel 1953 fu costruito alla Bovisa il terzo gasometro da 130.000 m3 , del tipo autoportante, senza traliccio esterno di guida, che si aggiunse agli altri due costruiti rispettivamente nel 1906 e nel 1930. Questo imponente manufatto ebbe un suo gemello nella zona est di Milano, alla Cavriana (v.le Forlanini) dove già prima della guerra era stato costruito un primo gasometro allo scopo di rendere disponibile un secondo polmone di accumulo del gas, necessario per regolarizzare la pressione in una rete di distribuzione ormai di estensione e complessità considerevoli.

Con i gasometri la periferia di Milano, così come quella di tante altre città europee, si era arricchita di costruzioni simboliche che non mancarono di colpire la fantasia di scrittori e pittori (compaiono per esempio nelle famose periferie milanesi di Mario Sironi).

'Gasometro', Mario Sironi, 1943

Alla Bovisa la produzione del gas dal carbone sarebbe cessata definitivamente solo nel 1969; da allora in poi la produzione del gas di città sarebbe proseguita in un impianto meno complesso e più pulito del precedente, che utilizzava un processo chimico così detto di “reforming” del gas naturale o di distillati di petrolio.

Per sessant’anni la Edison rimase per i milanesi sinonimo di gas, e lo rimase anche dopo che questa storica società uscì parzialmente dalla scena cittadina con la Nazionalizzazione della energia elettrica del 1963. Fu infatti solo nel 1981 che la Azienda Energetica di Milano, dopo anni di discussioni e rinvii, riscattò dalla Montedison la gestione della rete del gas: una rete ormai vecchia e tutta da ristrutturare, per poter passare dal "gas manifatturato", che ormai tutti consideravano aver fatto il suo tempo, al "gas naturale", cioè al metano. E’ dunque toccato all’AEM il compito e la capacità di effettuare i grandi investimenti necessari per l'imponente opera di trasformazione di quell'immensa ragnatela di tubi che la tenacia dei nostri nonni e padri aveva costruito (la Edison, presagendo la sua fine imminente, non faceva più da molti anni investimenti consistenti).

Così, la definitiva conclusione della storia del "gas di città" a Milano si è avuta nel 1994, dopo quasi 150 anni dagli inizi, quando, terminata la decennale opera di metanizzazione dell'intero territorio urbano, gli ultimi impianti di produzione del gas sono stati disattivati ed i giganteschi gasometri della Bovisa sono stati definitivamente svuotati, dando l’avvio ad uno dei più importanti progetti di riutilizzo e riqualificazione di aree ex-industriali della nostra città.

La rete cittadina del gas non è ormai più che una propaggine locale di una enorme rete che copre capillarmente gran parte del territorio dell’Italia e dell’Europa, e che ha le sue radici in luoghi ben più lontani delle officine di San Celso o della Bovisa: Algeria, Russia, Mare del Nord.

E’ difficile prevedere per quanti anni ancora in questa rete di tubi continuerà a circolare gas naturale: il metano è ancora abbondante, e non è certo terminato il processo di scoperta di nuovi giacimenti, ma prima o poi esso terminerà. La rete del gas rimarrà comunque una costante del futuro delle nostre città, anche se in essa, molto probabilmente, non circolerà più un gas naturale, ma di nuovo un gas artificiale: forse idrogeno o forse di nuovo gas di carbone, non più probabilmente prodotto in piccoli impianti locali, ma in enormi complessi centralizzati.

 

Bibliografia

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SCHIVELBUSH WOLFGANG, Luce: storia dell’illuminazione artificiale nel secolo XX, Pratiche Editrice, Parma, 1994

 

Approfondimenti:

Origine dell’illuminazione pubblica in alcune città europee
Il gas illuminante in Europa
Il gas illuminante in Italia



[1] Il Pellico fu arrestato e condannato a morte a seguito della repressione austriaca seguita ai moti di rivolta del 1820-21, che avevano avuto il loro inizio ad opera dei carbonari napoletani; condanna poi commutata alla reclusione nel carcere Moravo dello Spielberg.

[2] Dal Regolamento stilato nel 1835 dall'Imperial Regia Delegazione di Milano dell'istituto di Scienze e Lettere.

[3] La prima ferrovia italiana, la Napoli-Portici, è infatti del 1839, mentre la Milano-Monza entrò in funzione l’anno successivo.

[4] Fra i possibili motivi di questo “ritardo” della capitale del Regno Lombardo-Veneto rispetto a quella del Regno delle Due Sicilie, bisogna probabilmente tener conto anche del fatto che, non esistendo ancora le ferrovie, il rifornimento della materia prima, il carbone, non era molto agevole per Milano, dove doveva arrivare via terra dal porto di Venezia. Ovviamente la lontananza dalle fonti di produzione e le difficoltà di trasporto del carbone avevano un grosso impatto sul suo prezzo; tipicamente una tonnellata di carbone costava 10-12 lire a Cardiff, 25 lire all’arrivo via mare in Italia, e 35 lire a Milano.

[5] La distillazione (pirolisi) del carbone avveniva in forni a storta inizialmente in ghisa e successivamente in refrattario. Il carbone veniva riscaldato esternamente utilizzando come fonte di calore altro carbone o lo stesso gas. Le sostanze volatili che si liberavano venivano depurate da catrame, ammoniaca ed altri gas; come residuo restava un carbone leggero e poroso, il coke. Da 100 parti di carbone si ottenevano in media 17 parti di gas illuminante, 70 di coke ed il resto di altri composti. Il gas era composto in media di 48 parti di idrogeno, 33 di metano, 12 di idrocarburi, 6 di ossido di carbonio ed 1 di altri gas; da una tonnellata di carbone in media si ricavavano dai 200 ai 280 metri cubi di gas. Il rendimento energetico della trasformazione non era certo straordinario, e questo spiega perché il costo del gas era sempre piuttosto alto.
Verso la fine del secolo presero piede i forni a camera (verticali, orizzontali o inclinate), specie negli impianti più grandi, in quanto facilitavano le operazioni di carico/scarico del carbone, che gradualmente furono meccanizzate. Il consumo del gas era inizialmente contabilizzato in base al numero di bruciatori (becchi) in uso ed al tempo di utilizzo: ciò portava però a grandi abusi, soprattutto dei privati, e stimolò presto gli inventori ad immaginare dispositivi, i contatori, per la misura del flusso di gas.

[6] La forte dipendenza tecnologica dell’Italia dall’estero, ancora in quegli anni, è testimoniata dal fatto che la copertura in ferro della Galleria fu realizzata dalla ditta Jauret di Parigi.

[7] Si trattava di motori a ciclo Otto, lo stesso che caratterizza tutt’oggi i motori d’automobile a benzina; l’esperienza accumulata nella loro progettazione e costruzione sicuramente fu preziosa, di lì a qualche anno, per la produzione dei primi motori automobilistici.

[8] Peraltro a Torino, grazie alla presenza sul mercato di più fornitori, il costo del gas era nettamente più basso che a Milano: 20 centesimi, contro 36 centesimi al m3.

[9] Questa società fu peraltro assorbita, pochi anni dopo, dalla Union des Gaz, quando i Corpi Santi divennero parte di Milano.

[10] Karl Auer von Welsbach (1858-1929), chimico tedesco, fu allievo di Robert Bunsen (inventore del becco Bunsen), e grande studioso degli elementi denominati terre rare. Scoprì la capacità di alcuni di questi di emettere una forte luminosità se portati ad incandescenza. Fu lui l’inventore di quelle reticelle di lantanio-cerio, che disposte all’esterno di una fiamma a gas, ne aumentano enormemente la luminosità. Sono tuttora usate, per esempio nelle lampade a gas da campeggio.

[11] A quella data le officine del gas erano quattro, due a Porta Lodovica-San Celso, una a Porta Nuova e una a Porta Venezia.

[12] Fornelli a gas erano stati presentati già alla Esposizione Universale di Londra del 1851, ma i primi tentativi di utilizzo riguardavano in genere applicazioni di grandi dimensioni, come le cucine per comunità. Lo scaldaacqua a gas era stato brevettato da Benjamin Maughan già nel 1865; la cottura dei cibi con fornelli domestici a gas cominciò a divenire popolare solo dopo il 1880.

Ultima modifica: lunedì 8 marzo 2004

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