Apprestandosi
a ripercorrere alcune delle tappe iniziali della storia dell'energia elettrica,
non si può far a meno di notare quanto sia stata tardiva la nascita di una scienza dei fenomeni elettrici
rispetto a tanti altri campi del sapere umano, teorici o pratici, nei quali gli
antichi ed i medioevali avevano raggiunto notevoli vette, e quanto sia vicino a
noi il momento in cui la tecnologia è riuscita a immaginare degli utilizzi
pratici dell'elettricità stessa[1].
Fu solo verso la metà
del '600 che il fisico tedesco Otto von Guericke costruì la prima macchina
elettrostatica, prototipo di tutti quei congegni con i quali nel corso del '700
si cominciò ad avere a disposizione un'abbondanza di cariche elettriche e
dunque la possibilità stessa di indagare sui fenomeni elettrostatici, andando
finalmente al di là delle poche osservazioni degli antichi sugli strani effetti
prodotti dallo strofinamento dell'ambra o di materiali simili.
Verso
la metà del '700 illustri fisici come l'inglese S. Gray, il francese F. du Fay
e l'americano B. Franklin cominciarono ad inquadrare i fenomeni elettrici in
modo organico. Si scoprì anche la maniera di accumulare cariche elettriche (in
dispositivi chiamati "bottiglie di Leida", in pratica dei grossi
condensatori) e di provocare correnti intense, anche se di breve durata, con le
quali si cominciarono a descrivere alcune delle proprietà fondamentali
dell'elettricità. Negli ultimi decenni del '700 l'inglese Cavendish ed il francese de Coulomb compirono le fondamentali
esperienze che permisero la formulazione delle leggi dell'elettrostatica; fu
però solamente con l'invenzione della pila
di Volta, nel 1799, che scienziati e tecnologi ebbero a disposizione un
"elettromotore", come Volta stesso lo chiamò, con il quale aprire i
vasti campi di conoscenza collegati alla elettrochimica e
all'elettromagnetismo che sarebbero poi stati fonti di enormi possibilità di
utilizzo pratico.
Già
pochi mesi dopo la pubblicazione della scoperta di Alessandro Volta, l'inglese W. Cruikshank trasformò la rudimentale pila in una efficiente batteria[2],
utilizzando una configurazione "a truogoli", con la quale si potevano
condurre esperimenti più lunghi e significativi. Un altro inglese, H. Davy,
scoprì nel 1802 che la scintilla che si poteva provocare ai capi di una pila
era più forte e luminosa se la si faceva scoccare fra due punte di carbone,
dando il via a tutte le successive idee e sperimentazioni per l'utilizzo
dell'arco elettrico per l'illuminazione.
Le
prime scoperte sulla interazione fra magnetismo ed elettricità furono fatte fra
il 1807 ed il 1820 dallo scienziato danese H. C. Oersted, il quale descrisse le sue osservazioni sul
movimento di un ago magnetico posto in vicinanza di un filo percorso da corrente
elettrica. La sua scoperta diede lo spunto ai francesi A. M Ampère per la sua
teoria elettromagnetica, e D.F.J Arago per la costruzione, nel 1820, del primo
elettromagnete. L'inglese M. Faraday
intuì la possibilità del fenomeno inverso a quello osservato da Oersted, cioè
l'induzione di un movimento di cariche elettriche in un conduttore posto nel
campo di un magnete mobile. Dopo molti esperimenti condotti nel corso di vari
anni, nel novembre del 1831 egli annunciò le sue scoperte sull'induzione elettromagnetica:
da allora fu tutto un susseguirsi di idee e di tentativi per la costruzione di
macchine per la generazione di correnti elettriche per via elettromagnetica,
anche se passarono diversi anni prima che fossero sviluppati generatori
utilizzabili per applicazioni industriali.
Tra
i primi esempi si possono ricordare i generatori a magneti permanenti
sperimentati nel 1858 dall'inglese F.H. Holmes per l'illuminazione del faro di
South Foreland: si trattava di macchine piuttosto rudimentali, pesanti, di
grandi dimensioni, nonostante la potenza generata non superasse 1-2 Kw, e di
basso rendimento; erano però adeguate ad alimentare un arco elettrico la cui
forte intensità era l'ideale per l'utilizzo in un faro.
La
scoperta che rese possibile la costruzione di macchine elettriche di pratico
utilizzo fu quella dell'auto-induzione; in un generatore ad auto-induzione la
stessa corrente prodotta dalla macchina era utilizzata per alimentare gli
elettromagneti necessari a generare il campo magnetico, ed il magnetismo
residuo che rimaneva a macchina ferma era sufficiente a riprendere la
generazione di corrente quando essa veniva rimessa in moto. Diversi inventori
giunsero quasi contemporaneamente alla realizzazione di macchine basate su
questo principio, e per tale motivo ci furono notevoli contrasti fra i vari
Wilde, Varley e Siemens sulla priorità dell'invenzione delle prime dinamo[3],
avvenuta fra il 1866 e il 1867[4].
Le
prime dinamo di dimensioni pratiche e in grado di produrre una vera corrente
continua furono comunque quelle realizzate nel 1870 dal belga Zénobe Gramme. L'indotto delle sue macchine era formato da un anello, simile a
quello descritto da Pacinotti nel 1864, realizzato con fili di ferro dolce, in
modo da ridurre le resistenze passive; attorno a questo anello si avvolgeva una
serie di bobine di filo di rame le cui estremità adiacenti erano unite a
formare un avvolgimento continuo; le estremità delle bobine facevano capo ad un
commutatore a settori multipli e l'indotto ruotava in un sistema magnetico a
due poli.
Le
dinamo di Gramme, realizzate con una meccanica solida e duratura, ebbero un
grandissimo successo come i primi generatori elettrici in grado di funzionare
in modo continuativo, senza surriscaldarsi; accoppiate con macchine a vapore
furono l'elemento indispensabile per la nascita dei primi sistemi di
illuminazione elettrica ad arco.
Nel
1872 F.von Hefner Alteneck della ditta tedesca Siemens e Halske sviluppò un indotto a tamburo che avrebbe
gradualmente sostituito quello di Gramme per la sua maggiore facilità
costruttiva; un ulteriore importante perfezionamento fu quello introdotto nel
1880 dallo svedese J. Wenstrom, che incassò le bobine dell'indotto in fessure o
canali, in maniera molto simile a come tutt'ora si fa costruendo generatori o
motori elettrici.
L'altra
fondamentale invenzione nel campo delle macchine per la generazione di energia
elettrica fu l'alternatore: questa macchina era costruttivamente più semplice e di più facile manutenzione
in quanto non necessitava del commutatore, ma si affermò un po' più tardi
poiché la comprensione e gestione dei sistemi in corrente alternata è più
complessa di quelli in corrente continua. I primi alternatori in cui
l'eccitazione non era data da magneti permanenti furono costruiti dall'inglese
H.Wilde verso il 1867. Macchine più perfezionate costruite dallo stesso Wilde e
da Gramme comparvero nella seconda metà degli anni '70 e verso il 1885
arrivarono a dimensioni e potenze dell'ordine dei 500 Kw.
Assieme
all'alternatore, il trasformatore[5]
fu l'altra macchina di base che permise lo sviluppo di sistemi di generazione e
di trasporto dell'energia elettrica a grande distanza, e con il tempo
l'affermazione dei sistemi a corrente alternata. Con il trasformatore
fu infatti possibile elevare la tensione all'uscita delle centrali, in modo da
minimizzare le perdite durante il trasporto per poi ridurla nuovamente prima
dell'utilizzo finale.
Ci
siamo brevemente soffermati sulla parte "generatori", ma non possiamo
ovviamente fare a meno di dare alcuni veloci cenni sulle principali tappe
nell'evoluzione dei primi fondamentali dispositivi di utilizzo dell'energia
elettrica[6],
ed in particolare di quelli per l'illuminazione, che costituirono il principale
punto di incontro dell'elettricità con la vita quotidiana.
L'utilizzazione
dell'arco elettrico per l'illuminazione approdò ai primi risultati pratici dopo
il 1846, anno nel quale W.E.Staite presentò una lampada ad arco dotata di un
dispositivo ad orologeria per l'avanzamento dei carboncini, che permetteva di
mantenere abbastanza costante l'intensità luminosa, nonostante il consumo degli
elettrodi provocato dall'arco stesso. A parte le già accennate applicazioni nei
fari, l'utilizzo significativo di lampade ad arco iniziò solamente dopo il 1870,
quando cominciarono ad essere disponibili generatori efficienti come quelli di
Gramme[7]
e lampade più affidabili, come quella inventata nel 1876 dal russo Paul
Jablochkoff[8].
La
possibilità di utilizzare, invece dell'arco, la luce emessa da un filamento
incandescente percorso da corrente elettrica fu riconosciuta assai presto; già
nel 1820 Warren de la Rue condusse esperimenti con filamenti di platino
racchiusi in globi di vetro in cui era stato fatto il vuoto più spinto
possibile. Il cammino per arrivare ad una lampada ad incandescenza di utilizzo
pratico fu però lungo, e se il successo arrise alla fine a T. Edison (verso il
1880) non si possono dimenticare altri pionieri di questo campo, come l'inglese
J. Swan, che aveva cominciato a
lavorare in questo campo già dal 1848. Come Edison, Swan fece molti tentativi
infruttuosi prima di arrivare ad una soluzione, ma il suo lavoro poté
diventare più incisivo solo dopo l'invenzione della pompa a vuoto a vapori di
mercurio[9].
Nel 1882 la fabbrica di lampade a filamento di carbone di Swan produceva
lampade di qualità equivalente a quelle di Edison tant'è vero che dopo un primo
scontro giudiziario sulla questione dei brevetti, nel 1883 Edison e Swan
diedero vita in Inghilterra ad una impresa comune.
E'
importante rimarcare che lo sviluppo della lampada ad incandescenza fu
essenziale per quello di tutto il sistema elettrico; infatti la lampada ad
arco, per la sua eccessiva intensità, non si prestava per l'illuminazione di
luoghi chiusi, mentre la lampada ad incandescenza aprì al sistema elettrico
tutto l'immenso campo di utilizzi commerciali e domestici che ne avrebbero
fatto decollare le fortune.
L'altra
invenzione che determinò tali fortune, dischiudendo il vasto mercato degli
utilizzi industriali, fu quella del motore elettrico. A parte le numerosissime
realizzazioni sperimentali sulle quali non è possibile qui soffermarsi, i primi
motori a corrente continua di valore commerciale comparvero verso il 1873,
prodotti da Gramme sullo stesso schema delle sue fortunate dinamo. Quando poi
cominciarono ad affermarsi i sistemi di distribuzione a corrente alternata, si
crearono le condizioni per l'introduzione di un motore ad induzione che, come nel caso dell'alternatore, presentava
il vantaggio di non aver bisogno di un collettore. Il primo motore a campo
rotante[10]
a corrente alternata, di pratico utilizzo industriale, fu quello realizzato
dall'immigrato croato Nikola Tesla
nel 1888, e costruito negli USA dalla Westinghouse. Lo stesso concetto fu
perfezionato da C.E.L Brown nelle officine Oerlikon di Zurigo e da M.von
Dolivo-Dobrowolsky della AEG di Berlino; quest'ultimo fu anche l'inventore del
rotore a "gabbia di scoiattolo" che semplificava notevolmente la
costruzione della parte rotante del motore aumentandone nel contempo la
robustezza.
L'invenzione
del motore asincrono mise a disposizione di tutta l'industria una fonte di
energia che determinò una drastica trasformazione delle fabbriche; un po' alla
volta esse persero il loro intreccio di innumerevoli alberi, pulegge, cinghie e
rinvii che avevano caratterizzato per un secolo l'epoca un cui una singola
macchina a vapore muoveva un intero opificio; da allora in poi ogni macchina
avrebbe avuto il suo motore e l'energia sarebbe arrivata sui fili da una lontana
centrale.
Infine
un breve accenno al fatto che l’elettricità non fu solo scienza ed industria,
ma che entrò nella vita di tutti i giorni anche attraverso altri canali che
probabilmente non furono di secondaria importanza per favorire quella accettazione
sociale di cui ogni novità, anche di tipo tecnologico, ha sempre bisogno per
divenire di uso comune. Tanto più nel caso dell’elettricità, il cui carattere
palpabile, ma nello stesso tempo elusivo, la rendeva più difficile da
comprendere di altre scoperte. Uno di questi canali fu la medicina, campo nel
quale l’elettricità fu ampiamente utilizzata, a proposito ed a sproposito, nel
corso dell’800 come un (spesso presunto) metodo diretto di cura per svariate
patologie, specie nervose, assai prima di diventare l’indispensabile motore di
quella infinita schiera di apparecchi diagnostici con i quali nel corso del
‘900 la medicina stessa si è andata attrezzando. Le scoperte scientifiche, che
avevano in qualche modo mostrato che il nostro corpo è sede di correnti
elettriche, favorirono l’accettazione di pratiche e dispositivi che oggi ci
fanno sorridere, come questa cintura elettrica venduta a inizio ‘900
per corrispondenza dalla Sears-Roebuck di Chicago in grado di ridare potenza
sessuale a maschi stressati.
Ma le stessa adozione di espressioni divenute di
uso comune, nel linguaggio di tutti i giorni, tipo “ mi sento elettrico”,
elettrizzarsi”, “avere le batterie scariche” o “mi si è accesa una lampadina”,
ecc. ecc., testimoniano quanto l’elettricità fosse diventata presente
nell’inconscio collettivo.
[1]
D’altra parte, come osservava, Giuseppe Colombo, uno dei pionieri
dell’industria elettrica italiana, “.. Il fatto è, invece, che l’elettrotecnica
è forse la materia nella quale la parte scientifica ha il maggiore e quasi
l’esclusivo predominio. I più grandi progressi sono dovuti alla teoria pura;
senza gli studi di Hertz non avremmo la telegrafia senza fili di Marconi, come
senza gli studi di Galileo Ferrarsi non avremmo i motori a campo rotante; le
più riputate fabbriche di materiale elettrico sono quelle, e son poche, dirette
o ispirate da distinti teoristi”.
[2] La disponibilità di batterie di efficienza accettabile,
problema sul quale si cimentarono per decenni numerosissimi inventori, rese
possibile il decollo delle reti telegrafiche, che costituirono una delle prime
fondamentali applicazioni pratiche dell'energia elettrica.
[3] La parola dinamo
deriva dal termine "dinamoelettriche" che C. Brooke usò per la prima
volta in una conferenza del 1867 per designare genericamente le macchine
produttrici di corrente elettrica.
[4] Queste prime macchine erano dotate di commutatori a due
soli settori e producevano perciò correnti fortemente pulsanti.
Più evoluto, in quanto dotato di commutatore a segmenti
multipli e di indotto ad anello, era il dispositivo inventato già nel 1860 dal
professore dell'Università di Pisa Antonio
Pacinotti e descritto da un giornale italiano nel 1864. Esso era stato
però essenzialmente pensato come un ausilio didattico, e sebbene potesse
funzionare sia come generatore che come motore, non ebbe utilizzi pratici.
Sorte analoga toccò ad una analogo generatore costruito
attorno al 1861 dal benedettino ungherese Anyos Jedlik.
[5] La possibilità di costruire un congegno induttivo per
elevare o abbassare la tensione era stata definita a livello di principio da
Faraday, ma i primi trasformatori di uso pratico e dimensioni industriali
furono realizzati da due soci, il francese Lucien Gaulard e l'inglese John D.
Gibbs, solamente nel 1882-83.
[6] Tralasciamo volutamente di parlare di utilizzi
prettamente industriali dell'energia elettrica, quali tutti i processi
elettrochimici.
[7] Tra le prime applicazioni si ricorda per esempio
l'illuminazione ad arco dello stabilimento Hielmann a Mulhausen nell'agosto
1875, quella dei marciapiedi della stazione di La Chapelle nel 1876 e della
stazione di Lione nel settembre 1877.
[8] Nella così detta "candela elettrica"
dell'inventore russo, due barrette verticali di carbone, separate da un
distanziatore di caolino, venivano unite a ponte all'apice da una striscia di
grafite. Inserendo la corrente la grafite si consumava e si stabiliva così
l'arco fra i due carboncini che bruciavano gradualmente; per assicurare un
consumo uniforme si usava corrente alternata.
Queste lampade ebbero un buon successo commerciale in
Francia ed Inghilterra grazie soprattutto al forte sostegno commerciale della Société
Générale d'Electricité.
[9] Questa pompa, inventata da H.Sprengler nel 1865, fu
essenziale anche per Edison; in effetti solamente quando si riuscì a effettuare
un vuoto spinto nel bulbo della lampada si ottenne una durata significativa dei
filamenti incandescenti.
[10] La dimostrazione, in base ad eleganti considerazioni teoriche,
di come ottenere un campo magnetico rotante da un sistema di correnti polifase,
che costituisce la base per il funzionamento del motore ad induzione, era stata
espressa dal professor Galileo Ferraris già nel 1885; nello stesso anno egli
costruì diversi prototipi dimostrativi, ma non si curò di brevettare né di
sfruttare la sua invenzione. Solo nel marzo del 1888, cedendo alle pressioni di
autorevoli colleghi, presentò a Torino una memoria dal titolo: "Rotazioni
elettrodinamiche prodotte per mezzo di correnti alternate".
L'assoluta mancanza di spirito imprenditoriale in
G.Ferraris è dimostrata da una sua lettera del 1891 nella quale scrive:"... senza che io me ne sia occupato ho visto a
Francoforte che tutti attribuiscono a me la prima idea, il che mi basta. Gli
altri facciano i denari, a me basta quel che mi spetta: il nome".
In questo disinteresse egli esprime per altro un limite
abbastanza comune alla cultura tecnica italiana di quel tempo, di un'Italia che
infatti, già allora, tecnicamente era fortemente dipendente dall'estero.