La rete fognaria di Milano
di
Gian Luca Lapini
Dall’antichità all’Unità d’Italia
Tra le infrastrutture tecnologiche delle città, la rete
fognaria è certo la più antica. Roma, già nel VI
secolo a.C. disponeva di una vasta rete di fognature costruite allo
scopo di drenare le zone paludose. Lungo le vie cittadine, condotti di
dimensioni modeste raccoglievano le acque e le scaricavano in un grande
collettore fognario, la cloaca maxima, che sboccava nel Tevere.
E’ poi noto che i romani esportarono la loro raffinata
tecnica idraulica in tutte le principali città dell’impero. In effetti,
diversi ritrovamenti archeologici hanno permesso di verificare che anche a
Milano le canalizzazioni urbane hanno tradizioni molto antiche, risalenti al
periodo successivo alla conquista romana della città, quando cominciò una vasta
bonifica dell’area milanese (si veda la ricostruzione idrografica dell’area
milanese ai tempi dell’impero romano, nella cartina fatta nel 1911 dall’ing.
Felice Poggi)(vedi anche la pagina su le strade di Milano).
In epoca imperiale, la città fu dotata di una rete di
fognature[1] che faceva capo ad un canale emissario il quale seguiva il percorso
dell’attuale via Torino, fino al Carrobbio. E’ plausibile che le acque reflue,
oltrepassato il fossato di difesa delle mura, proseguissero incanalate fino nel Lambro
Meridionale. Le tracce di questo canale si possono individuare nei percorsi del
naviglio del Vallone, oggi scomparso, che percorreva l’attuale via Conca del
Naviglio, quindi della roggia dei Lavandai e della roggia Boniforti, fino alla
confluenza di quest’ultima con il colatore Lambro Meridionale
(significativamente anche chiamato”Lambro Merdario”).
La caduta dell’impero romano segnò l’inizio, nel campo delle
opere idrauliche, di un lungo periodo di decadenza durante il quale non solo
non si realizzò niente di nuovo, ma vennero lasciate andare in rovina le opere
esistenti.
Solo verso la fine del Medioevo, o alle soglie dell’età
rinascimentale, si ebbe una ripresa d’attività nella costruzione di canali di
fognatura[2], ma il nuovo impegno costruttivo portò tuttavia alla realizzazione, nel
corso dei secoli, di una rete poco organica e difettosa; le condutture,
infatti, in assenza di un qualsiasi piano generale, venivano costruite secondo
le necessità contingenti e quasi sempre in funzione delle singole strade,
indipendentemente le une dalle altre. Le acque venivano poi convogliate negli
antichi canali che avevano un tempo costituito i fossati di difesa della Milano
romana e medioevale, cioè il Seveso e la fossa interna.
Comunque, a differenza delle fognature moderne, questi
condotti erano almeno teoricamente destinati al solo drenaggio delle acque
naturali e meteoriche, mentre lo smaltimento delle deiezioni umane seguiva un
differente percorso: la raccolta temporanea nei pozzi neri in prossimità delle
case e lo smaltimento nelle campagne.
Su come si svolgesse nella realtà a Milano questa raccolta
nel periodo tardo medioevale e rinascimentale, è possibile ricavare qualcosa
dalla lettura degli Statuti della Sanità, cioè delle leggi riguardanti le strade
e le acque[3],
che venivano emesse da un “Ufficio di Sanità”, cui erano preposti i “Conservatori Ducali della Sanità dello Stato
di Milano”, chiamati anche, più brevemente, deputati sanitatis e,
dopo il 1534, dal “Magistrato di Sanità” e dall’omonimo Tribunale, che rimase
in vigore sino al 1787.
Dando un breve sguardo agli "Statuti delle strade e delle acque del contado di Milano",
risalenti al 1346 (e pubblicati nel 1869 dal conte Giulio Porro Lambertenghi,
che li aveva trovati in un codice della Biblioteca Trivulzio), è possibile farsi
un’idea piuttosto raccapricciante sulle condizioni igieniche della vita
cittadina, della quale essi forniscono un quadro che sarebbe a malapena
credibile se non fosse confermato da altre testimonianze storiche, e soprattutto
dal fatto che quelle sagge prescrizioni furono reiterate per secoli tutte
uguali o quasi, con l’unica differenza della lingua.
Molto spazio è dedicato dagli statuti al problema dei pozzi
neri. Una prescrizione, che verrà ripetuta all’infinito, è quella che vieta lo svuotamento dei pozzi neri,
con relativo trasporto del contenuto, nei
mesi estivi. Per esempio in una grida del 1493, il Vicario di
Provvisione, dopo aver confermato la regola, ormai secolare, che nessuno
potesse svuotare i pozzi neri se non in inverno (spazare alcun destro
seu cloacha così in la cità de Milano, como borghi, si non da mezo novembre per
fin a mezo februaio sotto pena de XXV ducati), avverte però che, anche durante il detto periodo, se il duca
e la duchessa fossero stati a Milano, tale operazione sarebbe stata possibile
soltanto di notte. Non bisogna dimenticare, come avvertiva il preambolo della
grida, che il Duca era "desideroso di magnificare et ornare questa sua inclita cità
di Milano, et de provedere a quelle cose che sono in vergogna de essa cità".
Il servizio di svuotamento dei pozzi neri, era svolto da
appositi addetti, i navazzari (o cisternari), un termine che a
Milano indicava i conduttori delle cosiddette navazze, cioè i carri-botte con i quali veniva trasportato fuori città il liquame
raccolto dai pozzi neri delle abitazioni (almeno di quelle che ne erano
fornite). Essi svolgevano un servizio di pubblica utilità traendone il
vantaggio di utilizzare il liquame in campagna quale concime. A quanto pare,
però, dalla frequenza con cui sono nominati nelle grida e nei regolamenti, essi
costituivano un problema per l’amministrazione civica che tentava in ogni modo
di incanalare e regolamentare, probabilmente con scarso successo, la loro
iniziativa.
I navazzari erano
per certi versi anche gli antenati dei moderni spazzini, in quanto essi erano
pure autorizzati a raccogliere dalle strade il letame[4]
e l’immondizia dei mercati; ed è probabile che entrassero nei cortili e nelle
cantine delle case per portar via la poca o tanta spazzatura domestica. Il contenuto dei pozzi neri situati nelle abitazioni non
doveva essere vuotato né nelle strade, né nelle chiaviche (quando c’erano)
sotto di esse, e neppure nei numerosi corsi d’acqua cittadini, anche se pare
che il Nirone portasse questo nome a causa dei liquami che vi venivano versati.
Questo in teoria, per quanto riguarda il divieto di buttare
liquami per terra non si faceva che riprendere antichissime disposizioni,
ancora del libero Comune, mentre circa gli orari in cui i navazzari potevano
lavorare, bisogna probabilmente rifarsi all’abitudine, tutta spagnola, di
regolamentare ogni cosa minuziosamente, salvo poi urtare contro le difficoltà
che comportava il fare eseguire gli ordini[5],
come sembra di capire dalle ricorrenti grida che lamentano che i cittadini
ricorrono spesso e volentieri a cloache improvvisate, cioè buttano tutto dove
capita (forse perché il servizio dei navazzari aveva un suo costo), e che i
navazzari non sembrano darsi molta preoccupazione di osservare la fascia oraria
loro concessa, cioè dalle due di notte a un’ora prima dell’alba.
Il mestiere era evidentemente indispensabile alla
cittadinanza, ma sembra che fosse interesse sia dei cittadini sia delle
autorità il tenerlo il più possibile occultato. Se il motivo è comprensibile,
quello che è un po’ meno comprensibile è che nessuno, salvo le Grida del Tribunale della Sanità, parli mai di chi svolgeva quel servizio,
che probabilmente ne comprendeva anche altri, quali l’asporto dei rifiuti
domestici. Ancora a fine ‘700, il poeta Parini elenca fra i motivi principali
per cui detesta la vita cittadina, cui preferisce di gran lunga la campagna, il
continuo via vai di navazze.
Su dove poi finisse il contenuto di questi carri, non vi
sono notizie precise. La tendenza, è ovvio, sarà stata quella di trattenere il
materiale utile come concime e di gettare il resto. Dove? Forse un indizio lo
si può trovare in un’ordinanza del Podestà austriaco: il 1 marzo 1816 fa
obbligo ai cisternari di vuotare le navazze fuori dell’abitato, in apposite fosse. Queste fosse tornano
spesso nelle ordinanze successive, ma, quali e dove fossero, non sappiamo, se
non che dovevano trovarsi a una certa distanza dalle mura dall’abitato.
Ritornando al tema del drenaggio delle acque meteoriche, ed
avvicinandosi un po’ di più alla nostra epoca, fu solamente nel 1807 che a
seguito di due decreti del Regio Governo Italico cominciarono i lavori per una
generale riforma delle strade cittadine, nel realizzare le quali veniva
costruita una nuova tombinatura per la raccolta degli scoli stradali. Le strade
di allora erano a sezione concava (con cunetta centrale), e la sottostante
tombinatura aveva una sezione rettangolare, con il fondo costruito in pietra
(beola) e le spalle in muratura di mattoni, mentre la copertura era ancora in
lastre di pietra. La costruzione di queste nuove canalizzazioni nelle
quali, oltre alle acque piovane, finirono ben presto anche quelle di rifiuto,
non contribuì affatto al miglioramento della rete fognaria. Infatti, la realizzazione
del nuovo sistema contribuì all’abbandono dei vecchi condotti, anche di quelli
ancora in buono stato, creando una rete di tombini stradali superficiali, non
ispezionabili, che si potevano spurgare solo rompendo la strada e che spesso si
ostruivano provocando allagamenti.
In sostanza, nella città ancora abbastanza piccola della
prima metà dell’800, in qualche modo le aree del nucleo centrale della città,
e le aree delimitate esternamente dalla fossa interna del naviglio, scaricavano
le proprie acque in parte nel Seveso, ed in parte nel Naviglio stesso. Entrambi
i fossati avevano come emissario comune la roggia Vettabbia le cui acque
venivano utilizzate per l’irrigazione dei terreni agricoli a sud della città,
adibiti prevalentemente a prato marcitoio. Qui si depuravano naturalmente, in
un vasta area irrigua a valle dell'abitato, che era stata bonificata già prima
del 1200 dalla tenacia dei monaci di Chiaravalle, di Morimondo e di
altre abbazie cistercensi: a questi monaci, come è noto, viene attribuita
l'invenzione delle marcite,
così caratteristiche del panorama lombardo.
Il resto del territorio cittadino, cioè le vaste zone
comprese tra il Naviglio interno e la cerchia dei Bastioni, era allora occupato
per lo più da orti e giardini, ed i pochi edifici che vi sorgevano riversavano
i loro scarichi nei numerosi canali irrigui derivati dalla fossa interna. In
sostanza, il problema delle fognature, similmente a quello del rifornimento
idrico, in qualche modo era stato da lungo tempo affrontato, anche se in
maniera precaria. Questo forse spiega, come nel caso dell'acquedotto, perché
passò molto tempo prima che Milano iniziasse a costruire una rete organica e
moderna di fognature.
La fase moderna delle fognature a Milano
Anche quando ebbe termine il lungo periodo di sostanziale
stasi coinciso con l’amministrazione austriaca, il Comune, negli anni subito
dopo l’Unità d’Italia, si diede molto da fare per numerose iniziative di ben
maggiore “visibilità” delle fognature[6].
Ma finalmente, nel 1866, la pubblicazione sulla rivista “Il
Politecnico” di una memoria dell’ingegner Emilio Bignami sullo stato dei canali
di Milano, nella quale si sosteneva la necessità di costruire una appropriata
rete di fognature, diede la spinta all’avvio di seri studi per la realizzazione
di un sistema fognario organico e razionale.
Si giunse così, nel 1868,
al primo vero progetto di fognatura moderna che venne presentato in consiglio
comunale dall’assessore Tatti e dagli ingegneri dell’ufficio tecnico comunale, Cesa Bianchi e Bignami. Il progetto degli ingegneri comunali affrontava nella sua
globalità il problema della sistemazione delle fognature solo della parte più
centrale del territorio cittadino, compresa fra gli alvei del Grande e del
Piccolo Sevese[7]. Si trattava
cioè della zona del centro storico più all'interno dei limiti della fossa dei
Navigli, nella quale come si è accennato, già esisteva una rete capillare ma
disordinata di 123 canali, in parte coperti ed in parte scoperti, con uno
sviluppo di ben 153 Km.
I progettisti adottarono nel loro piano il così detto sistema
misto, nel quale si provvedeva con un unico condotto alla raccolta
delle acque di rifiuto e di quelle piovane. I condotti previsti avevano una
sezione moderna, di tipo ovoidale studiata in modo da mantenere una
buona velocità di efflusso anche in periodi di magra e da evitare la formazione
di depositi sul fondo dei canali, nei quali veniva comunque garantito un flusso
continuo di lavaggio con acqua derivata dal Grande Sevese. Per il loro dimensionamento si fece
riferimento alle prime osservazioni pluviometriche sistematiche
raccolte dall’Osservatorio di Brera, pur adottando ampi coefficienti di
sovradimensionamento.
Quando si passò dal progetto alla fase costruttiva questi
canali vennero realizzati usando conci di cemento oppure cemento idraulico
gettato in opera in casseforme di legno; dove necessario, manufatti più grandi
erano realizzati in mattoni. I lavori non furono comunque molto rapidi ed occorsero circa
dieci anni per realizzare circa 3700 metri di condutture; il problema
dell'inquinamento delle acque superficiali non fu affatto risolto, ed anzi nel
frattempo si aggravò, sia per il tumultuoso aumento della popolazione, sia
perché il territorio comunale aveva subito un forte incremento con
l’aggregazione, nel giugno del 1873, del Comune dei Corpi Santi (esteso tutto
attorno al perimetro della città al di fuori dalle Mura Spagnole).
Passati così altri anni, ed iniziati nel 1884 dall'ing.
Beruto gli studi per il piano regolatore della città, si presentò una grande
occasione per affrontare in maniera organica il problema fognario, almeno nelle
nuove zone di espansione della città, dove in parallelo al tracciamento di
nuove strade ed isolati, specie al di fuori delle mura, e fino alla cerchia dei
viali della nuova circonvallazione esterna, divenne per così dire “naturale”,
prevedere la costruzione, insieme alle nuove strade, anche di una rete fognaria
organica. Rimaneva però aperto il problema di quanto esisteva già, e del
raccordo tra il vecchio ed il nuovo. Per questo motivo la Reale Società
d'Igiene ed il Collegio degli Ingegneri ed Architetti di Milano istituirono nel
1885 una commissione di studio per la fognatura. Fra la fine dello stesso anno
e l'inizio del 1886 la commissione produsse un rapporto nel quale oltre a
precisi giudizi sul poco lusinghiero stato della rete fognaria esistente, si
ribadiva l'opportunità di costruire canalizzazioni basate sul sistema misto, e
si davano diverse raccomandazioni, fra le quali quella di spostare la
navigazione dalla fossa interna a quella esterna dei navigli. Molto
positivamente veniva inoltre giudicato il progetto dell'acquedotto, che era anch'esso in discussione in quegli anni: infatti, il flusso costante di
acqua proveniente dai consumi domestici avrebbe garantito di mantenere sempre
sgombri i condotti.
Una seconda commissione, di nomina municipale, insediata
agli inizi del 1886 e presieduta dall'ing. Gioacchino Tagliasacchi, arrivò a
conclusioni non troppo dissimili (anche se intanto erano passati quasi altri
due anni): si ribadiva l'opportunità del sistema misto, si raccomandava di
costruire i canali abbastanza ampi da essere ispezionabili, si raccomandava lo
sviluppo parallelo dell'acquedotto e della fognatura, e si puntava ancora sulla
depurazione biologica naturale nelle campagne irrigue a sud della città.
La Giunta Municipale accolse le conclusioni della
Commissione Tagliasacchi nel gennaio 1888 e istituì presso l'Ufficio Tecnico
Comunale una speciale sezione, incaricata di preparare il progetto di un
"piano generale di fognatura". Si arrivò così, sotto la guida dell'ing. Felice Poggi (lo stesso del progetto dell’acquedotto), al ”Progetto per la
fognatura generale della città” del 1890: esso prendeva in
considerazione tutta la zona delimitata dai nuovi viali di circonvallazione
esterna della città, ma aveva anche lo scopo di deviare gli scarichi fognari
dai canali del centro storico e di convogliarli più a sud. Il territorio venne
diviso in zone, ognuna servita da collettori quasi paralleli, collegati
trasversalmente da canali minori, che in caso di piogge intense servivano da
scolmatori riversando le acque nei canali più periferici.
Il banco di prova per questo progetto generale fu
rappresentato tra il 1888 e il 1889 dal progetto, sempre ad opera dell'ing.
Poggi, della fognatura del Nuovo Corso (l'attuale via Dante), una nuova arteria
che era in costruzione in quegli anni per collegare direttamente il Cordusio al
Foro Bonaparte. Nel progetto venivano per la prima volta definite a Milano,
come si vede esemplificato nella bella tavola riportata, anche le
modalità per la sistemazione delle canalizzazioni domestiche, delle acque
pluviali e nere di un tipico edificio multipiano, ovvero l’interazione tra le
canalizzazioni private e la pubblica fognatura, fissando un primo regolamento
comunale in materia, che fece poi da riferimento per molti anni a seguire.
E' interessante ricordare che in questo progetto era anche
prevista (ma non fu mai realizzata per problemi di costo) una integrazione tra i cunicoli fognari, ed un cunicolo dei servizi,
che avrebbe dovuto scorrere lungo gli edifici e contenere le tubazioni del
gas, dell'acqua potabile, ecc.. Si trattava di un’ottima idea (già proposta in
altre città europee), che, se attuata, avrebbe risparmiato ai cittadini molti
dei disagi che nel corso degli anni sono derivati dalla periodica escavazione
dei marciapiedi e delle strade per la posa o manutenzione della miriade di tubi
e cavi che passano nel sottosuolo.
Il progetto dell'Ufficio Tecnico Comunale giunse a
compimento nel 1893; i lavori di costruzione furono condotti speditamente,
tanto che nel 1897 risultavano già costruiti 61 Km di condotti, di cui 18 Km di
collettori principali. Molti dei condotti realizzati erano di sezione
ragguardevole, come si può per esempio vedere nella fotografia (sopra a destra) del
collettore di Nosedo in costruzione fra piazza Libia e via Cadore. Ma anche la
tecnica di costruzione dei condotti più piccoli si era notevolmente
perfezionata e procedeva per fasi di lavoro bene definite, per ottenere un
risultato finale costante.
In altri punti l’incrocio fra vari canali, o con le altre
infrastrutture esistenti, implicava la realizzazione di opere di notevole
complessità, che venivano realizzate con attrezzature assai modeste e con
notevole impiego di manodopera (la fotografia qui sotto documenta i lavori per
il sottopasso della stazione ferroviaria di Porta Romana).
Agli inizi del '900, la effervescente espansione della città
proseguiva a grande ritmo. L‘assetto urbano era continuamente sconvolto anche
da interventi infrastrutturali molto pesanti, quali il riassetto della rete
ferroviaria che fece seguito alla nazionalizzazione delle ferrovie del 1905. A Milano si era verificato anche un notevole cambiamento di
fronte politico con l’elezione nel giugno 1899 del sindaco radicale Giuseppe
Mussi, ed un anno dopo, alle elezioni politiche del giugno 1900, con la netta
sconfitta dei liberali (non era stato fra gli altri rieletto l’ing. Giuseppe
Colombo, una delle figure più influenti e prestigiose del mondo
tecnico ed industriale milanese) e l’affermazione di una coalizione di radicali
e socialisti.
In questo clima per vari versi mutevole, il progetto della
rete fognaria fu di nuovo messo in questione, in quanto non pochi temevano che
le impostazioni fino allora adottate fossero insufficienti per le nuove mete.
Due commissioni nominate nel 1901 e 1902 dall'Amministrazione Comunale,
presiedute da due professori del Politecnico, Ettore Paladini e Gaudenzio
Fantoli, confermarono però nella sostanza i precedenti progetti. In ogni caso
gli approfonditi studi della commissione diedero un impulso più rigoroso ai
metodi di dimensionamento dei condotti; fu anche riesaminata la questione della
depurazione biologica delle acque col metodo delle marcite, e ne fu confermata
la validità dimostrando tra l'altro che non si produceva alcun inquinamento
delle acque di falda nella zona interessata. “Il sistema adottato a Milano per la depurazione ed
utilizzazione agricola delle acque di fognatura – affermava la commissione
Paladini - è, per lo stato attuale delle nostre cognizioni, il più efficace ed il
più pratico. Dal punto di vista igienico non si hanno finora inconvenienti di
sorta.” La commissione sottolineava però la necessità, per il
futuro, di estendere l'area irrigata in modo da poter trattare portate
maggiori. In sostanza gli studi delle due suddette commissioni
fornirono gli elementi più moderni di previsione e di calcolo con il quale nel 1911, l'ing. Poggi impostò, in
continuità col recente passato, un nuovo piano di ampliamento, che
seguiva le linee di espansione della città e che fu gradualmente attuato fino
al 1923.
Dopo questa data, che segnò l’aggregazione al territorio
cittadino di una fascia di undici comuni al suo contorno[8], (ne risultò più che un raddoppio della
superficie comunale), nuovi problemi si presentarono per lo sviluppo della rete
fognaria. Le nuove aree erano, infatti, ancora prevalentemente rurali ed
interessate da ridotti ed isolati insediamenti, quasi del tutto prive di
canalizzazioni e fognature, ma nello stesso tempo ricche di rogge e canali
irrigui. Fu necessaria la redazione di un nuovo piano di ampliamento; del
progetto fu incaricato l'ing. Giuseppe Codara dell’Ufficio Tecnico
Comunale, che in uno studio presentato all’inizio del 1924, definì i percorsi
dei nuovi collettori di raccolta e di recapito a valle, in modo che le acque
provenienti dalle zone esterne non andassero a gravare sui condotti provenienti
delle zone centrali: una sorta di anello attorno al vecchio nucleo cittadino
che sgravava completamente la rete già esistente di collettori ed emissari.
Lo studio prevedeva inoltre una serie di importanti
interventi di sistemazione idraulica dei corsi d’acqua, quali la deviazione
dell’alveo dell’Olona, che allora scaricava nella darsena di Porta
Ticinese, l’adeguamento del Cavo Redefossi e il miglioramento delle capacità di
portata del Lambro Settentrionale e Meridionale.
Ormai la rete fognaria milanese aveva assunto quella
complessità e capillarità che gli anni successivi, fino ai giorni nostri, non
avrebbero fatto altro che confermare, adeguandosi un po' per volta
all'espansione cittadina (sempre tumultuosa e difficile da governare,
nonostante il nuovo piano regolatore, approvato nel 1934, circa cinquant’anni
dopo il primo piano Beruto): una rete sempre più vasta e nascosta, via via che
navigli e canali venivano coperti, un po' per aprire nuovi sbocchi al traffico
sempre più invadente, un po' forse per togliere dalla vista e dall'olfatto
corsi d'acqua sempre più sporchi[9]. Un mondo sotterraneo quasi speculare di quello sopraterra, con i suoi
incroci, le sue diramazioni ed i suoi punti “monumentali”.
Dopo la guerra, e la indispensabile ricostruzione di quanto
da essa distrutto, il piano delle fognature del 1953 avrebbe per quasi un
trentennio regolato la costruzione di altri 500 Km di nuovi condotti, portando
agli inizi degli anni ’80 l’estensione complessiva della rete fognaria a circa
1230 Km.
Nel 1983, in ottemperanza ai dettati della legge nazionale
sulle acque (legge Merli), venne predisposto un nuovo piano, che, in previsione
della costruzione a valle della città di tre impianti di depurazione, divideva
il territorio comunale in tre bacini, occidentale, centro-orientale ed
orientale, e definiva una serie di interventi necessari al completamento
dell’ossatura principale dei collettori della rete. Ma la realizzazione dei
depuratori è andata molto per le lunghe, prima per una lunga opposizione, da
parte degli abitanti dei quartieri a sud della città, alla collocazione di un
depuratore che non poteva stare altro che lì, per come pende il terreno, poi
per una vicenda giudiziaria legata agli appalti: la città ha così rivissuto
l’incertezza dei primi tempi dell'inizio della costruzione della rete fognaria,
e Milano si è guadagnata il poco invidiabile primato di unica grande città
europea non dotata di depuratore.
Alla fine i lavori del depuratore di Nosedo sono stati
finalmente avviati e dal 2003 la città ha finalmente avuto il primo dei
depuratori progettati. Per il momento, però, il Lambro rimane ancora il fiume
più inquinato d'Italia ed i discendenti dei monaci inventori delle marcite
continuano a far finta che gli stessi prati possano depurare le deiezioni di
qualche migliaio o di un milione e mezzo di abitanti.
Infine, vale la pena di accennare che negli ultimi decenni
molta attenzione ha suscitato il problema del riassetto generale del bacino
idraulico milanese. Le ricorrenti esondazione del Seveso o del Redefossi, si sono periodicamente incaricate di ricordare ai cittadini la dimenticata
presenza di una vasta rete di acque sotterranee: problemi, purtroppo, mai del
tutto risolti nonostante la costruzione di canali scolmatori, come quello del
Redefossi a San Donato, costruito nel 1976, e come quello, di più recente
costruzione, di Nord-Ovest che raccoglie le acque di Olona, Naviglio e Seveso,
deviandole nel Ticino. Questi interventi hanno contribuito ad attenuare, ma non
a risolvere definitivamente, il problema delle esondazioni, in particolare del
Seveso, che ha continuata a creare problemi nonostante la realizzazione di un
importante manufatto di decantazione e sgrigliatura delle acque (in via Ornato,
prima dell’imbocco del percorso coperto cittadino).
Bibliografia
BIGNAMI SORMANI E., Fognatura e ponti, in: AA.VV, Milano
Tecnica dal 1859 al 1884, Hoepli, 1885, Ristampa Edizioni L'Archivolto,
Milano 1988
CELONA T., BELTRAME G., I navigli milanesi. Storia e
prospettive, Provincia di Milano, 1982
COLUMBO ANTONIO, Le fognature di Milano, in:
“Quaderni della città di Milano”, Edizione a cura del Comune di Milano, 1960 GENTILE A., BROWN M., SPADONI G., Viaggio nel sottosuolo
di Milano tra acque e canali segreti, Edizione a cura del Comune di Milano, Milano, 1990
LA CAVA FRANCESCO, Igiene e sanità negli statuti di
Milano nel secolo XIV, Hoepli, Milano, 1946
POGGI F., La fognatura di Milano, Vallardi, Milano,
1911
VIGARELLO G., Lo sporco e il pulito. L’igiene del corpo
dal medioevo ad oggi, Marsilio, Padova, 1987
Approfondimenti:
Cenni sull'idrografia dell'area milanese
[1] Così si può leggere nel
testo di Gentile, Brown e Spadone, citato in bibliografia: “Importanti
vestigia della rete di fognatura romana sono venute alla luce durante
l’esecuzione di diversi lavori che hanno interessato, nell’arco dell’ultimo
secolo, il sottosuolo milanese. Tra
i più significativi ci sono senz’altro i condotti affiorati durante la
costruzione della fognatura lungo la via Bassano Porrone nel giugno 1892, nelle
vie San Maurilio e Nerino nel 1906 e in piazza San Sepolcro nel 1907, e quello
rinvenuto in anni più recenti in piazza Missori durante i lavori di costruzione
della linea 3 della metropolitana milanese, del quale si conserva un breve
tronco nel mezzanino della stazione Missori”.
[2] A quest’epoca appartiene il
condotto venuto alla luce durante la costruzione della fognatura in corso San
Celso. L’ingegner
Poggi menzionava in una sua pubblicazione il ritrovamento, avvenuto durante i
lavori di costruzione della fognatura in via Ponte Vetero nel 1878 e di corso
Garibaldi e piazza del Duomo del 1892, di una canalizzazione sotterranea
formata da due condotti affiancati realizzati con tubi tronco-conici di
terracotta, imboccati l’uno nell’altro, con rinforzo in muratura e protetti
nella parte superiore da tavelloni in cotto.
[3] Anche se purtroppo gli
statuti più antichi della città di Milano sono quasi tutti scomparsi a causa
di un incendio che, nel 1502, bruciò la cancelleria; ne rimangono, però, alcune
redazioni, sia in latino sia in volgare.
[4] Che i navazzari avessero
pure il compito di raccogliere il letame dalle strade cittadine, sembra
indirettamente confermato dal dibattito che si tenne nel Consiglio Comunale del
31 agosto 1844 sul tema della concessione a un privato dell’appalto della
scopatura e lavaggio delle vie cittadine durante la notte. Nel
verbale della seduta si legge infatti che il Conte Belgiojoso afferma che "se si permette all’Appaltatore
di incominciare la Scoppatura alla mezza notte si verrebbe a pregiudicare i
letamajuoli i quali essi hanno pure il diritto durante la notte di raccogliere
le sozzure nella città". Il Conte Podestà gli ricorda, invece, che questo
non è un loro diritto, ma "una semplice
consuetudine di tolleranza". Il
problema non era del tutto ozioso, dato che i letamaioli erano certamente
cittadini privati, ma i loro vantaggi personali andavano pure verso l’interesse
dell’agricoltura, come il Belgiojoso sapeva.
[5] Un ordine dato sempre dal
Presidente della Sanità, questa volta ai sorveglianti alle porte della città,
nel 1637, stabilisce invece che i navazzari non possano assolutamente entrare
prima delle ventitré: è, comunque, un ordine interno impartito ai sorveglianti
e non direttamente ai navazzari. Oltre
a ciò i detti navazzari debbono per forza essere muniti di apposita licenza. Da
una grida del 1669 si apprende però che questa attività era svolta anche da
molti abusivi.
[6] Ad esempio, il trasferimento
della sede comunale dal Broletto a Palazzo Marino, la sistemazione di piazza del
Duomo e la costruzione della Galleria, il Macello, il Cimitero Monumentale, la
sistemazione dei Giardini Pubblici, ecc.
[7] Questi canali seguono
all’incirca il percorso delle attuali vie Europa, Larga, Maddalena, Stampa,
Carrobbio, Torchio, Nirone, Magenta, San Giovanni sul Muro, Cusani, Dell’Orso,
Monte di Pietà, Montenapoleone, fino a piazza San Babila.
[8] Si
trattò di Lambrate, Crescenzago, Precotto, Greco, Niguarda, Affori, Musocco,
Trenno, Baggio, Vigentino, Chiaravalle.
[9] La fossa interna dei navigli
fu coperta all’inizio degli anni ’30 e successivamente interrata nel 1968-69
per il forte degrado delle strutture di copertura; la Martesana, lungo il
percorso della via Melchiorre Gioia, fu coperta tra la fine degli anni ’50 e
l’inizio degli anni ’60.
Ultima
modifica: lunedì 3 maggio 2004
gianluca.lapini@fastwebnet.it |