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Prostitute e convertite al Pasquirolo

di Paolo Colussi

 

La prostituzione, pur essendo un fenomeno presente in ogni tempo ed ogni luogo, non è tuttavia mai chiaramente descritta nei testi antichi. Scarne notizie ci giungono dalle leggi e dalle cronache, raro il caso di descrizioni letterarie. E’ un argomento che sembra degradare chi scrive e i suoi stessi scritti ed è quindi trattato con grande prudenza e parsimonia. Gli scritti licenziosi, che non sono mai mancati accanto al mondo della cultura dotta, sono inoltre ancora oggi i primi ad essere cancellati dagli archivi e rifiutati dalle biblioteche. Tutto ciò vale naturalmente anche per la storia di Milano e quindi i dati sui quali si basa questa esposizione sono necessariamente scarni, almeno per quanto riguarda la prostituzione, mentre è ovvio che abbondino i dati sulle “convertite”, tema caro a politici e religiosi sul quale sono state spese tante energie spesso con risultati piuttosto modesti.

Comunque nel medioevo la prostituzione non costituisce un serio problema per nessuno. Solo nel XIV secolo inoltrato le autorità laiche si preoccupano dei bordelli e impongono autorizzazioni a chi vuole gestirne uno. A Milano, nel 1387, viene emanato un “decretum contra meretrices et lenones” che cerca di regolare il fenomeno. E’ il nuovo signore di Milano, Gian Galeazzo Visconti, che lo impone alla città mirando in particolare ad un determinato luogo - il Pasquirolo - dove le prostitute sembra si fossero concentrate nei decenni precedenti. Un successivo decreto del 1390 cerca di regolamentare in modo più serio il fenomeno forse alla ricerca di un maggiore decoro per la capitale dell’imminente ducato. Nasce così il "castelletto".

 

Il Castelletto

L'isolato del Castelletto (dalla pianta di Milano del Clarici)A partire probabilmente dalla metà del ‘300 in un isolato del Pasquirolo si erano concentrate numerose “case” di meretrici, che erano state circondate da un recinto. L’isolato in questione era compreso tra la contrada di San Zeno e la contrada di San Martino in Compito che proseguiva verso l’attuale Verziere prendendo il nome di contrada di San Giacomo in Raude. Oggi tutta la zona del Pasquirolo è stata trasformata completamente dalla creazione di piazza Beccaria e dall’apertura di Corso Europa, ciò nonostante l’isolato di cui parliamo è ancora perfettamente riconoscibile perché coincide con il palazzo dei Vigili. Al tempo di Gian Galeazzo c’erano tre case affidate la prima ad Elisabetta, la seconda a Lita e Paneria, la terza in affitto per 140 fiorini e per 3 anni alla matrona Guglielminetta Fiamminga. Al centro dell’isolato c’era anche un’antica chiesa dedicata a San Giacomo Rodense (o in Raude), succursale della parrocchia di San Martino. Gian Galeazzo impone che il recinto sia sostituito da un muro con una sola entrata dalla parte dell’attuale via Beccaria, entrata che dev’essere chiusa durante la notte da un custode eletto e pagato dalle prostitute. (Ecco fatto il primo “condominio” di Milano!)

Questa prima “casa chiusa” si chiamerà perciò d’ora in avanti il Castelletto (clauxura casteleti) ed è definita locum publicum, cioè sotto tutela dell’autorità municipale. Una volta legalizzato il mestiere, anche sulle meretrici iniziano a fioccare norme specifiche volte specialmente ad abbassare il loro status sociale che tendeva ad elevarsi in seguito ai loro lauti guadagni. Nelle leggi suntuarie del 1414, ad esempio, si proibisce loro di portare “coazie”, i treccioni che scendevano quasi fino a terra molto di moda in tutto il XV secolo, e le si obbliga a indossare una mantelletta di fustagno alta non più di un braccio (circa 60 cm).

L’industria del Castelletto doveva essere piuttosto prospera. Bisogna pensare che i bordelli a quel tempo, e per molti secoli a venire (fino al 1880 circa), erano piuttosto simili a saloon del Far West, con ambienti per far musica, ballare, giocare d’azzardo, oltre ovviamente alle camere delle ragazze. Non stupisce quindi che Francesco Sforza, nella sua riorganizzazione degli incarichi pubblici, accomuni sempre bordelli e giochi d’azzardo. Negli Statuta iurisdictionum Mediolani del 1451 si legge “"Quod offitium inventionum armorum, euntium de nocte, bordellorum et bischilaziarum expediatur per vicarium domini potestatis".  [Il compito di reperire coloro che girano armati di notte, i bordelli e le bische dev’essere svolto dal vicario del podestà]

E ancora: "Vicarius potestatis debeat et teneatur cognoscere, examinare et diffinire de causis et processibus inventiunum armorum vetitorum, et cunctium de nocte, de bordellis et luxoribus tassillorum, et prestatoribus ad bischilaziam et de tenentibus bischilatias, quas sumarie debeat decidere et terminare, secundum quod ei videbitur pro meliori." [Il vicario del podestà deve conoscere, esaminare e definire le cause e i processi di coloro che sono trovati con armi proibite durante la notte, dei bordelli e dei giochi con i dadi, e di chi frequenta o tiene bische, e deve stabilire e riscuotere le multe a sua discrezione.]

Questi divieti riguardavano le attività che, a differenza di quelle del Castelletto, non erano autorizzate. Le fortune del postribolo pubblico del Pasquirolo continuano durante tutto il periodo sforzesco e probabilmente sono ancora maggiori negli anni turbolenti del ‘500 quando gli eserciti francesi, svizzeri, spagnoli e tedeschi scorrazzavano per la Lombardia portando fame e peste alle persone per bene e molti soldi ai bordelli. I guai cominciano con l’arrivo a Milano - nel 1565 - del nuovo arcivescovo Carlo Borromeo. Oltre alle numerose iniziative per la prevenzione e il recupero delle meretrici, il futuro San Carlo attacca subito il nemico per vie dirette e indirette. Già nel 1567 si inizia a parlare della soppressione del postribolo o almeno di ridurre gli ingressi ad uno solo, da cui si desume che le direttive di Gian Galeazzo non erano mai state veramente applicate. L’anno seguente, durante una riunione al Broletto Nuovo con le autorità municipali, i Deputati della Malastalla (il grande carcere milanese per gli insolventi) propongono di "comprare l'isola del postribolo pubblico, et ivi fabricare le prigioni in loco et scontro di detta Malastalla". L’acquisto sarebbe stato fatto dai deputati del Luogo Pio che allo scopo avrebbero venduto il vecchio fabbricato delle carceri, essi chiedevano se era possibile ottenere un contributo dal Comune. Lo zampino del Borromeo nella faccenda è abbastanza evidente se si pensa che, mentre il Comune non tira fuori una lira, la Curia è subito pronta ad elargire una cospicua offerta perché l’operazione abbia luogo. I motivi dell’avversione verso il postribolo da parte della Curia sono parecchi:

- primo, purtroppo la prostituzione non sarà mai eliminata, ma in linea di principio non si può tollerare un “postribolo pubblico” (così come il Borromeo non avrebbe mai tollerato un “teatro pubblico”);

- secondo, l’isolato è vicinissimo alla sede dell’arcivescovado;

- terzo, è scandalosa una così grande concentrazione di prostitute in uno stesso luogo.

Quest’ultimo punto era molto chiaro al Borromeo che aveva appena ricevuto dal parroco di San Martino in Compito una lettera con queste desolanti parole: “ciò è nel postribolo gli è una chiesa sotto il nome di S. Giacomo... alla quale gli vanno le meretrici del detto postribolo quali per avanti solevano venire alla detta chiesa di S. Martino ... qual chiesa così sta molto male perché quando si celebra stanno le meretrici insieme con gli ascoltanti i quali per la maggior parte sono ruffiani et persone di mala qualità che ivi fanno mille chiassi et cose inhoneste et saria bene a provederli" (ACAM, Sezione X, S. Carlo, I, 3)

La manovra avvolgente del Borromeo ha successo. Oltre a mettere in atto le numerose iniziative di prevenzione di cui parleremo più avanti, vede procedere le demolizioni delle case delle prostitute messe in atto dai Deputati della Malastalla. Queste demolizioni proseguono fino alla grande peste del 1576. Il progetto del grande palazzo delle carceri (dalla Raccolta Bianconi)A questa data le meretrici in loco sono però ancora 23 (ACAM, Duplicati e status animarum, 39, Stato d'anime di San Martino in Compito del 9-11-1576). Finita la peste, nel 1578, il Capitano di Giustizia pensa di inserirsi nell’iniziativa e trasferire nell’isolato anche il proprio ufficio e le carceri. I lavori a questo punto diventano molto più imponenti e richiedono la demolizione della chiesa di San Giacomo e la costruzione del grande cortile, tuttora visibile nel palazzo dei Vigili. Sotto la direzione dell’architetto Pietro Antonio Barca, l’intero edificio viene costruito in vent’anni. Nel 1603 si apre la Strada Nuova davanti all’ingresso principale e il portale è terminato nel 1605 come ricorda la lapide che lo affianca.

Malgrado queste grandi trasformazioni, nell’isolato, nel lato più vicino alla contrada di San Martino, permane ancora un certo numero di prostitute. Ci pensa Federico Borromeo a completare l’opera con l’aiuto di alcune persone facoltose della zona, tra le quali spicca il nome dell’architetto Aurelio Trezzi. Questi benefettori, intorno al 1614-15, acquistano gli ultimi bordelli rimasti, li demoliscono ed edificano l’Oratorio di Santa Maria Immacolata che viene assegnato alle scuole della Dottrina Cristiana erette secondo i dettami del Bellarmino. Per questa ragione la nuova istituzione sarà sempre chiamata “Oratorio del Bellarmino”. L'Oratorio sarà a lungo il centro dell'attività catechistica della Curia finché, sconsacrato, non diventerà in epoca napoleonica il Teatro Fiando, e poi il Gerolamo per le marionette. Il gruppo di case dove si trovava l’Oratorio verrà infine demolito poco dopo l’unità d’Italia per creare Piazza Beccaria. Le prostitute, scacciate agli inizi del Seicento dalla zona, troveranno un accogliente asilo nella vicina contrada dei Soncini-Merati, dove resteranno fino alla legge Merlin con un discreto numero di case chiuse.

 

Le convertite

L'isolato del Castelletto intorno al 1630 (dalla veduta di Milano del Barateri)Intorno al 1530, passata la grande peste di Carlo V, in un momento in cui la città ha raggiunto il massimo del degrado economico e morale, alcune persone di buona volontà si rimboccano le maniche nel tentativo di ricucire gli strappi più vistosi di una società sconvolta e disastrata. Da Cremona arriva Ludovica Torelli della Guastalla, una ricca nobildonna che aveva venduto il suo feudo della Guastalla per una somma molto rilevante e che intendeva impiegare questi fondi in opere assistenziali a Milano. Per prima cosa la Torelli acquista delle case nei pressi del monastero di S. Ambrogio e vi raccoglie un primo nucleo di ragazze “pericolanti” perché rimaste orfane o abbandonate dalla famiglia. Poi si rivolge alle “traviate”, già avviate sulla via della prostituzione e cerca di costituire per loro un rifugio da dove potessero ricominciare una vita onesta. In pochi anni, sempre nei pressi di S. Ambrogio, in via Santa Valeria, si costituisce così la prima Casa o Ricovero per le convertite, che riceve il 7 novembre 1533 l’approvazione delle autorità pubbliche. L'isolato del Castelletto intorno al 1720 (dalla pianta di Milano redatta per il catasto)A questo primo esperimento ne segue poco dopo un secondo in Porta Ticinese. Grazie anche all’appoggio dei Barnabiti, la Torelli riesce a fondare, all’inizio degli anni ‘40, una casa per le “rimesse” del Crocefisso o di Santa Maria Egiziaca nell’attuale via Crocefisso volta a raccogliere le convertite della zona di Sant’Eufemia, pullulante di prostitute già da parecchi decenni. Altre iniziative si susseguono in questi anni. Sappiamo di convertite nella contrada della Maddalena e nella contrada della Sala verso le quali vengono erogati sussidi dai Luoghi Pii Elemosinieri della città. Nel 1555 Isabella de Cordova fonda la scuola della Madonna del Soccorso “per le peccatrici, le malmaritate e le vergini pericolanti”. A quest’ultima iniziativa partecipano le Orsoline, un nuovo ordine intento anch’esso alla salvaguardia delle ragazze come quello delle Angeliche fondato nel frattempo dalla Torelli.

L'isolato del Castelletto intorno al 1740 (dalla pianta di Milano di Marcantonio Dal Re)Quando il Borromeo arriva a Milano, il problema delle ragazze a rischio, così com’era stato impostato dalla Torelli e dalle Orsoline, trova la sua piena approvazione. Si trattava di estenderlo anche alla famigerata zona del Pasquirolo già sotto tiro, come abbiamo visto, degli attacchi dell’Arcivescovo. La manovra con la quale, accanto alla demolizione del postribolo pubblico viene creata un’alternativa positiva alle prostitute della zona, dimostra tutta l’abilità organizzativa del Borromeo. Conosciamo ormai abbastanza bene la vicenda grazie a numerosi studi, ma è soprattutto un recente saggio di Stefano D’Amico (vedi Bibliografia) che ci consente di descrivere il geniale itinerario attraverso il quale, senza spendere una lira, San Carlo riesce a creare quell’istituto che sarà poi chiamato Deposito di San Zeno o di Santa Maria Maddalena.

La storia inizia nel settembre 1573 quando il mercante di lana Annibale Vistarino si trasferisce con la famiglia dalla parrocchia di S. Stefano in Borgogna nella contrada di San Zeno. La moglie del Vistarino, Giovanna Anguillara, donna già nota a Milano per le sue opere caritative, inizia ad occuparsi delle prostitute della zona. Sappiamo che, assieme all’amica Susanna Chiocca e al padre francescano Gerolamo da Corte, detto il Santagostino, la Vistarini usava recarsi nelle ore più pericolose (durante le feste, nel tardo pomeriggio) nel postribolo pubblico per esortare le prostitute ad abbandonare il loro mestiere. Questa attività dà i suoi frutti e ben presto nella casa della Vistarini vengono ospitate fino a 20 ragazze.

L’arcivescovo intanto non perde tempo e si adopera per trovare una sede adeguata e stabile all’iniziativa. Il 7 giugno 1574 sopprime la parrocchia di San Zenone perché “"compervimus eam parochialem ecclesiam esse valde angustam et male ornatam atque in loco indecenti contructam ut pote prope locum publicum in quo meretrices quae publice se prosternum commorant". [abbiamo appurato che questa chiesa parrocchiale è molto piccola e disadorna ed è situata in un luogo indecente presso il luogo pubblico dove risiedono le meretrici che si prostituiscono pubblicamente] (Atto di unione con S. Vito, ASMi, Fondo di religione, 1043, atto del 7 giugno 1574 rogato dal notaio Bartolomeo Parpaglione)[cit. in S. D'Amico, Stà lontano...].

L’Atto di unione prevede che i redditi di San Zenone passino a San Vito al Pasquirolo che si assume la cura delle anime con l’obbligo di versare 100 lire annue a S. Pietro all’Orto in base a un precedente vincolo di San Zeno nei confronti di quella parrocchia. L’edificio della chiesa e la ex casa parrocchiale vengono invece assegnate alla parrocchia di S. Stefano in Borgogna. Tutta l’operazione trova la sua spiegazione proprio in quest’ultimo punto: è la tanto attesa sede della nuova istituzione. I Vistarini infatti provenivano dalla parrocchia di S. Stefano ed erano in stretta relazione (forse anche di parentela) con il parroco che affida infatti subito a loro l’immobile in questione. Già dal 1575 l’edificio è di fatto affittato ai Vistarini, anche se mancano documenti precisi al riguardo. Nella vita di San Carlo si dice invece che la casa venne affittata dallo stesso arcivescovo, ma ciò non esclude una diversa versione dei fatti, anzi, rivela qual'era la vera mano che stava dietro a tutta l’operazione. I Vistarini in effetti agivano per suo conto ed esaurita questa prima fase dell’operazione se ne tornano nella loro casa in S. Stefano mentre il Borromeo, dopo varie trattative, riuscirà a far pagare l’affitto del Deposito (200 lire e 12 soldi all’anno) ad un illustre personaggio, Giovanni Arcimboldi, che in cambio aveva appena ottenuto per il figlio Giovanni Angelo la conferma del beneficio dell’abbazia di Viboldone. A questo punto il Deposito può essere regolarmente fondato e ciò avviene con regolare atto pubblico. (ASMi, Fondo di religione, 2300, Fondazione, Atto di istituzione del Deposito del 22 luglio 1579 rogato da Giovanni Pietro Scotti)

Come funzionava il Deposito e perché si chiama così? Anzitutto, com’era fatto?

Il Deposito di San Zeno in un'immagine (piuttosto imprecisa) dell'epocaIl Deposito comprendeva la chiesa e la ex casa parrocchiale. Al piano terreno, oltre alla chiesa, c'era il parlatorio, il refettorio, cucina e dispensa, guardaroba. Le ricoverate dormivano nel coro della chiesa. Al piano superiore c'erano quattro stanze per le monache e il "lavorerio". Un piccolo cortile con giardino completava il tutto. La situazione di disagio dovuta alla ristrettezza del luogo portava spesso al sorgere di liti con conseguenti trasferimenti. Non c'era clausura.  Nel "lavorerio" le attività consistevano nella filatura di oro e seta, nella confezione di guanti e calze, in lavori in osso e nel cucito. La capienza era di 15-20 ricoverate più le monache, che erano spesso ex ricoverate, ma la funzione specifica dell’istituzione non era quella di ricoverare le ragazze, ma piuttosto quella di un luogo di “pronto soccorso”, dove accogliere le persone che avevano urgenza di essere alloggiate per poi smistarle al più presto in luoghi più adeguati. Il soggiorno medio risulta essere solo di qualche mese ed è per questo che venne chiamato “Deposito” e non Ricovero o Conservatorio.

Fortunatamente nell’archivio della Curia Arcivescovile si è conservato il “libro delle donne che si accettano e partono” con i dati relativi agli anni che vanno dal 1589 al 1626. Da questi dati, studiati minuziosamente da Stefano D’Amico, possiamo ricavare il quadro seguente della vita della pia casa.

Le 771 donne accolte in quest’arco di tempo hanno un’età che va da 15 a 25 anni. I loro genitori fanno in genere lavori umili: sarti, tessitori, muratori, “velutari”, “prestinari”, “legnamari”, soldati, domestici. Molte delle loro famiglie sono immigrate di recente a Milano.

Le condizioni indicate all'atto del ricovero sono: 

1) deflorate (256 ragazze); sono ragazze violentate o deflorate con falsa promessa di matrimonio da parte di gente comune o anche di persone note (ad esempio il Cerano). Spesso i defloratori mantenevano le ragazze al Deposito o fornivano la dote. 

2) mal maritate (168 ragazze); donne che lasciavano la casa, anche temporaneamente, in seguito a violenti litigi; adultere; mogli di bigami o impotenti; separate. 

3) vergini (58 ragazze); orfane giovanissime. 

4) vedove (38 ragazze); persone prive di una famiglia propria. 

5) meretrici (28 ragazze). Spesso convertite da predicatori, molte però dopo un breve periodo tornavano al vecchio mestiere. 

Come abbiamo detto, le ricoverate si fermavano al Deposito solo per qualche mese. Molte venivano sistemate o riconsegnate alla famiglia, altre fuggivano non sopportando le ingiurie e le percosse che ricevevano nel deposito e soprattutto nelle famiglie dov'erano alloggiate. Alcune evasioni furono realizzate con l'aiuto di "bravi". La retta minima per le ricoverate era di 3 o 4 scudi al mese, chi pagava di più poteva essere esentata dal lavoro. Chi lavorava riceveva per sè un terzo del guadagno. 

Durante il breve soggiorno al Deposito si provvedeva alla loro futura sistemazione.

Dal libro sappiamo che le 771 ricoverate furono sistemate nel modo seguente: 

1) 241 ragazze riconsegnate alla famiglia o al marito; 

2) 136 ragazze messe a servizio. Lo stipendio massimo era di 3 lire al mese. 

3) 73 ragazze maritate. La dote minima per sposarsi era di 100 lire. 

4) 68 ragazze inviate ad altri Luoghi Pii.  

5) 66 ragazze riconsegnate ai protettori. 

6) 36 ragazze fuggite. 

7) 27 ragazze monacate. La dote richiesta dal Deposito era di 600 lire. 

Se il soggetto era troppo ostico veniva consegnato alle autorità dato che il Deposito, a differenza degli altri ricoveri, non aveva la prigione.

La struttura amministrativa del deposito è registrata nelle Regole del Deposito di San Zeno stampate nel 1593 da Pacifico Ponzio. (ACAM, Sezione XIII, 36, fasc.2). 

Il Capitolo (il Consiglio d'Amministrazione dell'ente) è composto da non più di 12 persone ed elegge le cariche: priore, sottopriore, tesoriere e cancelliere (durata 1 anno), i provveditori (durata 6 mesi), i visitatori (durata un mese). I visitatori controllano e seguono la gestione delle madri. I provveditori curano i ricoveri (accettazione, destinazione). Il deposito deve tenere il "Libro dei memoriali" e il "Libro delli offiziali" (ASMi, Fondo di religione, 2317). 

Il Capitolo si riunisce ogni venerdì, vi partecipano anche due sacerdoti e un confessore, che tengono i contatti con la Curia. Spesso sono oblati. Le monache dovrebbero essere Orsoline, ma questo non risulta ufficialmente. Lo si può supporre dal fatto che la Vistarini e il Santagostino erano molto legati a quest'ordine religioso. E' probabile che molte monache fossero reclutate tra le stesse ricoverate. Non c'era una distinzione tra monache e converse. Alcune monache però appartenevano a famiglie rispettabili che sceglievano il Deposito perché costava poco. Queste ultime avevano molte probabilità di diventare madre priora. Nel 1593, anno in cui sono stampate le regole, nel Deposito c'erano 32 donne, di cui 12 monache e 20 assistite. La dote per accedere al ricovero come monache andava da 140 lire a 1000 lire, in media era sulle 600 lire, molto poco rispetto agli altri ricoveri.

L'isolato del Castelletto intorno al 1860Il Deposito riscuote subito un notevole successo che si traduce in lasciti e donazioni, fonti di buone rendite. Nel 1594 gli vengono assegnate la casa parrocchiale di San Martino in Compito, la cappella di San Rocco e la chiesetta di S. Caterina e Stefano. Quest’ultima, sconsacrata, è venduta cinque anni dopo agli Origoni che la inglobano nella loro casa. La cappella di San Rocco verrà acquistata nel 1615 dal mercante Giovanni Giacomo Molina che la demolisce per consentire la costruzione dell’Oratorio del Bellarmino. Al Deposito arrivano anche considerevoli somme grazie a lasciti di ricche signore abitanti nella zona. Virginia Spinola lascia nel 1608 6000 lire, nel 1617 Angelica Casati lascia 1000 lire, ma sono numerosi anche i lasciti di minore entità.

Nel corso del Seicento e del Settecento l’Istituto continua a funzionare fino al suo declino. Nel 1775, quando viene aggregato al Conservatorio della Provvidenza, ha solo 5 ricoverate. Con le soppressioni di Giuseppe II, nel 1784, la chiesa viene sconsacrata e l’intero edificio diventa un alloggio per i soldati.

 

Bibliografia

Regole del Deposito stampate a Milano da Pacifico Pontio nel 1593, Archivio della Curia Arcivescovile di Milano (ACAM), Sezione XIII, 36, fasc. 2

Barbato, Tullio, Case e casini di Milano, Milano, Virgilio, s.d.

Biffi, Serafino, Sulle antiche carceri di Milano e del Ducato milanese, Milano, 1884 [Rist. Milano, Cisalpino-Goliardica, 1972]

Buratti, Adele, L'azione pastorale dei Borromeo e la nuova sistemazione urbanistica della città, in AA.VV., La città rituale, Milano, Angeli, 1982, pp. 9-53 (Sormani M Coll 1361-3)

Cassi Ramelli, Antonio, Il centro di Milano, Milano, Ceschina, 1971 (Sormani P CONS 1397)

D'Amico, Stefano, Le contrade e la città, Milano, Angeli, 1994

D'Amico, Stefano, Poveri e gruppi marginali nella società milanese cinque-seicentesca, in La città e i poveri, Milano, Jaca Book, 1995, pp. 273-290

D'Amico, Stefano, "Stà lontano dalla donna dishonesta" Il deposito di S. Zeno a Milano, in "Nuova Rivista Storica", anno 73, maggio-agosto 1988, pp. 394-424. (Sormani N PER 9)

D'Amico, Stefano, Un insediamento tessile nella Milano di fine '500, in "Nuova Rivista Storica", 75, gennaio-aprile 1991, pp. 51-76 (Sormani N PER 9)

Sebastiani, Lucia, Gruppi di donne tra convivenza e assistenza, in La città e i poveri, Milano, Jaca Book, 1995, pp. 101-115

Verga, Ettore, Le leggi suntuarie milanesi, in "Archivio Storico Lombardo", XXV (1898), p. 41 n. 2  

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Ultima modifica: lunedì 29 luglio 2002

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