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Il delitto della Cattolica

 di Mauro Colombo

Interno della Cattolica

 

Millenovecentosettantuno, lunedì 26 luglio, ore 9 di una mattina già afosa, università Cattolica del Sacro Cuore a Milano.
Mario Toso, seminarista ventunenne dell’Istituto salesiano di Mirabello Monferrato varca i cancelli dell’ateneo, probabilmente incurante della canzone “4 marzo 1943” di Lucio Dalla, in testa alle classifiche di vendita di quel periodo, che la piccola radio della guardiola discretamente accesa trasmetteva per cercava di far sembrare meno lunghe le noiose giornate del custode.
Il giovane, attraversato il secondo cortile, prende a salire le scale del blocco G, alla ricerca di un istituto ove effettuare alcune ricerche. Giunto all’ammezzato, è attirato dallo scrosciare ininterrotto dell’acqua udito oltre la porta dei bagni femminili, in un’università quasi deserta di quel caldo luglio da pre-esodo estivo. Rimane qualche secondo a riflettere, poi timidamente apre la porta per verificare cosa originasse quell’inutile spreco d’acqua.

Dirà la stampa il giorno dopo: ”Quello che ha visto l’ha trattenuto sulla soglia, con le gambe che cominciavano a tremare e il cuore che balzava in gola. Tra due stanzini, una grande chiazza di sangue e immersa in essa una ragazza esanime stesa sul fianco destro. Altro sangue dappertutto, sui muri, nei due stanzini, sulla maniglia della porta”.

Il giovane seminarista, che avrebbe portato quella scena tra i ricordi della sua vita e tra gli incubi delle sue notti, corse urlando a cercare aiuto, avvisando a gran voce il custode, Mario Baggi, che dovette recarsi di persona nei bagni per capire esattamente cosa volesse dirgli il ragazzo in preda al terrore e alla confusione più disarmante.
Furono sufficienti pochi minuti perché sulla scena del delitto accorressero altri studenti, seguiti da polizia, carabinieri ed, infine, dal sostituto procuratore della Repubblica, il dottor Paolillo, con il commissario capo Caracciolo, il commissario Rosati e il maggiore dei Carabinieri, Rossi.

Quello che fu immediatamente accertato era che il corpo della povera ragazza, identificata per Simonetta Ferrero, anni 26, laureata alla Cattolica e impiegata presso la Montedison, abitante coi genitori in via Osoppo a Milano, era stato selvaggiamente massacrato con almeno dodici colpi di arma da taglio, inferti sul ventre, sul collo, sul volto. Il cadavere appariva composto e vestito, non si notarono apparenti segni di violenza, e forse proprio per evitarla la ragazza aveva disperatamente tentato di difendersi, e prova ne erano alcune lievi ferite alle mani, alzate probabilmente nel tentativo di arrestare i colpi mortali del coltello assassino.

Il Corriere della Sera del 27 luglio titolò: “Giovane laureata uccisa a coltellate” – “Tenebroso assassinio all’università cattolica”. Per Milano, che già non viveva anni sereni, un’altra brutta storia da inserire negli annali della cronaca nera.

Pianta dell'Università Cattolica

 

La vittima, le sue ultime ore

La giovane Simonetta, come risultò facilmente dalle prime indagini, era uscita di casa il sabato precedente, 24 luglio, di buna mattina, per sbrigare alcune ultime commissioni in vista della imminente partenza, programmata per quella sera stessa, alla volta del mare di Corsica, ove avrebbe trascorso, secondo i programmi, due settimane di relax e divertimento. Salutati i genitori alle 10.30, disse loro che sarebbe andata da un tappezziere di via Luini, per scegliere alcuni rivestimenti per certe sedie di casa, dall’estetista di via Dante, e alla Cattolica, in cerca di alcune dispense di diritto per un’amica.

Non fu vista in nessuno dei due negozi, evidentemente aveva pensato di passare prima in ateneo. La poveretta però non sapeva che le due librerie universitarie erano chiuse i sabato estivi, e gli inquirenti ricostruirono quegli ultimi suoi minuti ipotizzando che trovata chiusa la prima, quella vicino all’ingresso, si fosse spinta fino al secondo cortile, per tentare con la seconda. Vistala chiusa, forse volontariamente aveva imboccato le scale per raggiungere, prima di tornare alle altre incombenze, i bagni femminili, magari per darsi una rinfrescata.

Interno della CattolicaE lì, senza testimoni, quello che accadde poteva essere svelato solo dalla Scientifica.

Di certo si trovò nei bagni dell’ammezzato, all’appuntamento con la morte, tra le undici e le tredici.

Furono subito sentiti alcuni muratori che lavoravano in quei giorni al piano terreno, impegnati nel rifacimento della pavimentazione in parquet. Ma il loro racconto, plausibile, si basava su di un elemento semplicissimo: il rumore assordate del martello pneumatico non avrebbe permesso loro di udire alcunché, e poi in ogni caso alle dodici avevano staccato per andare a pranzo. L’assassino avrebbe potuto uccidere quindi sia approfittando del frastuono, incurante delle eventuali grida della vittima, oppure dopo, sfruttando il deserto estivo della pausa pranzo.

Il sabato sera dell’omicidio, naturalmente, la famiglia allarmatissima per non aver avuto più notizie della figlia fin dalla mattina, aveva sporto denuncia di scomparsa al commissariato Magenta. La domenica era per loro trascorsa nell’angoscia più nera, fino alla tragica realtà emersa quel lunedì mattina. Per il padre e la madre andavano a quel punto le maggiori preoccupazioni: il primo aveva già subito due infarti, la seconde era stata colta da collasso appena appresa la notizia.

La vita della giovane fu, come da prassi, scandagliata fin nei minimi particolari: laureata brillantemente, era impiegata, come il padre, alla Montedison di piazzale Cadorna 5, dove si occupava di selezionare i nuovi assunti. Frequentazioni per bene, nessun fidanzato, sport, musica, volontariato tre volte alla settimana come infermiera alla Croce Rossa. Insomma, niente di niente, per gli inquirenti una sola pista: vittima innocente di un maniaco, di un bruto in cerca di qualche avventura. Esclusa la rapina: nella borsetta lire e franchi già cambiati per la vacanza in Corsica erano rimasti intatti e in ordine.

 

Le difficili indagini

Il 28 luglio furono resi pubblici i risultati dell’autopsia eseguita sul corpo della vittima. L’esame autoptico, che si era svolto all’istituto di medicina legale ad opera dei professori Falzi e Basile (a testimoniare l’importanza del caso), disegnò una realtà ben più violenta di quella emersa il giorno prima. Le coltellate presenti sul corpo erano trentatré, inferte da una lama lunga, ben affilata, ad un solo taglio (quale poteva essere un buon coltello da macellaio). Ventisette colpi entrarono in profondità, soprattutto nel torace e nell’addome, colpendo organi vitali. Sette i colpi che avrebbero provocato la morte, tra i quali uno che aveva reciso di netto la carotide. Le altre ferite erano più superficiali: alle mani, segno di un tentativo di difesa volto a fermare il coltello o a strapparlo di mano all’assassino, e alla schiena, segno invece questo di una fuga tentata inutilmente. L’autopsia escluse con certezza la violenza sessuale. Se anche quella fosse stata lo scopo del maniaco, la reazione della Ferrero, non aveva permesso al mostro di completare il suo disegno perverso.

Il mesto riconoscimento del cadavere fu, come ci spiega la stampa, riservato a due lontani parenti, onde evitare l’insostenibile ma necessario rituale ai poveri genitori, o alle due sorelle delle vittima, tutti estremamente colpiti dalla sorte tanto maligna.

Come detto, considerate le testimonianze relative alla vita privata delle giovane, del tutto irreprensibile, si iniziò con il mondo dei “guardoni”, come li definì la stampa dell’epoca.
Così si apprese che più di un tipo strano aveva frequentato l’università. Almeno sei erano i maniaci che gravitavano attorno all’ateneo, e spesso si spingevano persino nei corridoi, per importunare le ragazze e per offrire loro non si sa bene quali avventure galanti.
Uno addirittura seguiva le studentesse sui treni. Due erano stati identificati, si trattava di un quarantenne sedicente ingegnere navale, e di uno studente fuori corso da, ormai, 20 anni, che ancora bazzicava i locali universitari, soprattutto i bagni. Tutti ovviamente furono ben bene interrogati, le loro posizioni attentamente vagliate, ma tra alibi provati e verifiche incrociate, nessuno di quei depravati apparve essere coinvolto con l’assassinio.

Ma la polizia non si fermò ai primi segnalati, e decise di andare in fondo al mondo dei maniaci che troppo spesso avevano importunato, a volte anche pressantemente, le donne sole dell’università e delle vie limitrofe.
Il Corriere della Sera del 29 luglio titolò: ”Drammatico censimento dei maniaci” – “Una allucinante folla di anormali emerge dalla difficile inchiesta della polizia e dei carabinieri. La presenza di un ambiguo personaggio confermata da due impiegate”.

E proprio quest’ultimo ambiguo personaggio catturò l’attenzione degli investigatori. La testimonianza di due impiegate destò parecchio interesse. Le due donne dissero che il giovedì precedente, durante la pausa pranzo, dalle parti della galleria Borrella (piazza sant’Ambrogio, a due passi dall’ateneo) furono avvicinate da un giovanotto, di circa 25 anni, in pantaloni e camicia. Questo cominciò a seguirle rivolgendo loro frasi indecenti e volgarità a carattere sessuale. La voce era: “eccitata, rauca,…il discorso era osceno”. Il maniaco le seguì fino al portone del loro ufficio, poi scomparve appena le due entrarono nel palazzo.

Il cerchio si strinse attorno a tre depravati che pare avessero bazzicato la Cattolica il sabato mattina del delitto, uno addirittura era stato visto camminare (ma sarà poi stato vero?) sventagliandosi con un indumento intimo femminile. I tre divennero subito i sospettati, e iniziò nei loro confronti una vera caccia al mostro, non solo a Milano, ma anche in provincia, dove questi individui spesso risiedevano, per poi raggiungere la città con le ferrovie Nord.

Nel frattempo, il seminarista Toso, che aveva scoperto il cadavere, venne ascoltato in Procura durante un lungo colloquio col dottor Paolillo, ma come quest’ultimo disse ai giornalisti: “Il ragazzo ha fornito spiegazioni logiche e plausibili del perché fosse entrato nel bagno della scala G.” Quindi, era stato creduto quando aveva raccontato di essere entrato nei gabinetti perché incuriosito da quello scrosciare ininterrotto d’acqua.

Si appurarono inoltre due cose. Innanzitutto Simonetta andò alla Cattolica non per fare un favore ad un’amica, visto che questa confermò sì di averle chiesto alcune dispense, ma ciò era accaduto un mese prima, difficile dire che fosse tornata quel sabato mattina per qualche ulteriore piacere che aveva in mente di farle (e quindi, perché era andata in università? Aveva un appuntamento?). Secondo, prima di andare alla ricerca di quelle dispense di diritto, la poveretta era entrata, per una piccola spesa, in una profumeria di corso Vercelli. La commessa ricordò che all’ingresso c’era accostata una Fiat 500 bianca, ma non seppe dire se aspettava o meno la cliente, né vide se la ragazza, uscita, fosse poi salita sull’utilitaria o se ne fosse andata a piedi (e quindi, quella mattina era con qualcuno?). Insomma due elementi poco chiari, ma che comunque vennero tenuti in giusta considerazione.

Fu vagliata con grande professionalità anche la posizione dei quattro muratori.Vennero ascoltati per un intero pomeriggio, le loro abitazioni perquisite e i loro abiti da lavoro minuziosamente ispezionati. Risultarono decisamente estranei al fatto, e dal loro racconto si stabilì che il maniaco aveva agito prima di mezzogiorno, sfruttando il rumore assordante che i quattro facevano col martello pneumatico.

Il 29 luglio, nella chiesa di piazzale Brescia, si volsero i funerali, ai quali accorsero moltissime persone, compresi i colleghi di lavoro, le crocerossine del volontariato e numeroso personale della Cattolica.

Purtroppo dei maniaci sospettati nessuna traccia, e le certezza cominciavano a diventare sempre più deboli speranze.
Si trovò e venne sentito un seminarista, tal Bianciardi, che frequentava i treni della Milano - Saronno, sui quali si vantava di abbordare donne sole alla Cattolica. La sua casa venne perquisita, si trovarono diari definiti “allucinanti”. Ma essendo estraneo al tutto, fu ricoverato per accertamenti medici.
Vennero raccolte altre testimonianze, e venne fermato anche un pazzo che si aggirava in largo Gemelli, sotto il sole di trentatré gradi, con un quadro di carattere religioso invocando i santi, in una specie di processione privata. Venne però catalogato come “maniaco a carattere religioso”.
Durante uno degli ultimi sopralluoghi sulla scena del delitto, gli inquirenti trovarono tracce di sangue non della vittima, dal che si ipotizzò che il pazzo si fosse a sua volta ferito, ma anche questa scoperta non portò a nulla.

Dal primo di agosto, la stampa spostò l’attenzione su di un altro “avvenimento”: l’esodo estivo dell’esercito dei vacanzieri. Soliti titoloni tipo: Migliaia in coda ai caselli, le stazioni prese d’assalto, lunghe code sulle principali direttrici per il mare.
Il 3 agosto il Corriere racconta ai pochi milanesi rimasti in città che il maniaco avrebbe avuto tutto il tempo per cambiarsi d’abito, lavarsi e lasciare indisturbato il luogo senza incontrare nessuno. Il giorno seguente, setacciata di nuovo la Cattolica, all’inchiesta si aggiunse il ritrovamento di un fazzoletto, di uno straccio e di un indumento blu.

Ma il 5 agosto la stampa si butta su altro caso terribile: ”Massacrato al casello ferroviario”. Si trattava di un selvaggio delitto allo scalo romana, ma in poche ore venne fermato l’assassino, amico della vittima, che con questa divideva un abituro ricavato tra i magazzini merci abbandonati.
Il caso Cattolica cominciò così ad occupare i tagli bassi o i trafiletti, solo per informare che erano stati sentiti ben 150 sospettati, compresi due lontani parenti.

Poi la stampa dimenticò il terribile avvenimento, e si concentrò sulla situazione invivibile della Milano d’agosto, dove risultava impossibile persino trovare pane e latte a causa delle botteghe chiuse per ferie. A fine mese i giornali ricominciarono a parlare di traffico, causato dal solito ovvio controesodo.

E con la riapertura delle fabbriche, il delitto della Cattolica entrò nella palude dei casi irrisolti, palude dalla quale, ad onor del vero, cercò prepotentemente di uscire nell’autunno del 1993, quando una lettera anonima volle raccontare la “sua” verità circa un prete ormai maturo che all’epoca dei tragici fatti era conosciuto per aver importunato pesantemente alcune ragazze iscritte alla Cattolica.

Furono doverosamente riaperte le indagini, ma il tempo ormai aveva cancellato inesorabilmente qualsiasi possibile riscontro oggettivo.
E sul tutto, fu posta per sempre la pietra tombale.

Ad oggi, il caso di Simonetta Ferrero è rimasto un delitto senza colpevoli, o come si direbbe nel linguaggio dei giallisti, un delitto perfetto.

 

Fonti

"Corriere della Sera", luglio e agosto 1971

"La Notte", luglio e agosto 1971

 

Ultima modifica: mercoledì 4 maggio 2005

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