sei in Personaggi >> Ritratti femminili >> Caterina Visconti

     


Sommario:

Un matrimonio fatale
Il complotto
La tragedia familiare
Finalmente madre
La duchessa invisibile
La reggenza
Il cerchio si chiude
Bibliografia

 

Caterina Visconti , 
Duchessa di Milano

di Maria Grazia Tolfo

 

Un matrimonio fatale

La data di nascita di Caterina non è nota, ma viene solitamente collocata verso la fine del 1360. Nei dati che la riguardano c'è sempre un ché di taciuto (non si capisce fino a che punto ad arte), che rende molto difficile tracciare una sua biografia.
Prendiamo ad esempio la questione matrimoniale. La prima richiesta che la riguardi (almeno a quanto risulta dalle fonti) risale al 1378, quando lei avrebbe avuto già 18 anni. Sempre che la sua data di nascita sia corretta, è un'età piuttosto Ritratti di Gian Galeazzo e Caterina nel Messale miniato da Anovelo da Imbonate nel 1395tarda, perché Bernabò - in questo non discostandosi dalle tradizioni - fidanzava le figlie appena raggiunta la pubertà. Problemi anagrafici a parte, la domanda di matrimonio riguardava nientemeno che il re d'Inghilterra Riccardo II. A trattare il matrimonio venne a Milano Geoffrey Chaucer e si avvalse dell'assistenza del suo connazionale John Hawkwood, recente genero e capitano di Bernabò. Tutto andava per il meglio, Chaucer aveva già composto The House of Fame per festeggiare il matrimonio, quando nel 1379 Bernabò rinunciò. A Caterina, che si era già immaginata seduta sul trono, dovettero cadere tutti i castelli in testa, anche perché venne dirottata verso un marito che ben conosceva e che non era certo un suo spasimante: il cugino Gian Galeazzo.

Se il buon giorno si vede dal mattino, quello di Caterina fu davvero funesto. Il 15 novembre 1380, giorno fissato per le indesiderate nozze, morì Azzone, l'unico figlio maschio superstite di Gian Galeazzo. La corte pavese chiese a Bernabò una proroga della cerimonia per il lutto, ma il rude signore rispose con un tono oltremodo insensibile e le nozze in S. Giovanni in Conca unirono un affranto ma furibondo Gian Galeazzo e una delusa e rassegnata Caterina . Quale dono di nozze, Gian Galeazzo consegnò alla moglie le chiavi del castello di Monza, tolto alla madre Bianca di Savoia. Mai dono fu meno propizio.

Caterina andò a vivere a Pavia, ma nelle cronache non c'è traccia di lei. Si può dedurre che intrattenesse buoni rapporti con la figliastra Valentina, perché nel momento del bisogno sarà a lei che Caterina si rivolgerà per ricevere aiuto. Ma con il marito e con la suocera che rapporti aveva? Certamente i due non l'avranno fatta partecipe delle loro trame per annientare Bernabò e la sua dinastia.

Il complotto

Quante volte Caterina avrà sentito suo padre sbeffeggiare l'imbelle nipote, che lui pensava di mangiarsi in un boccone alla prima occasione. Ma Gian Galeazzo era un buon simulatore e attendeva il momento propizio per presentare il conto allo zio-suocero. Nel settembre 1383 iniziò a manifestare la sua vera natura. Il casus belli fu uno sparviero che il podestà di Monza non aveva reso a Bernabò. Incapace di farselo restituire con le minacce, perché Monza era estranea alla sua giurisdizione, Bernabò tempestava di lettere il genero, senza rivolgersi alla figlia, che era signora di Monza.

La risposta di Gian Galeazzo allo zio-suocero ci è pervenuta e vale la pena di notarne la fermezza:

"Già altra volta vi abbiamo detto la nostra opinione, che lo sparviero non aveva nessun vostro segno e che fu dato al nostro capitano di Monza da un vostro suddito alla presenza di Rodolfo; ora chiedete giustizia da noi, dicendo che altrimenti farete giustizia da voi, anche se doveste venire personalmente a Monza, mentre lui siede nel suo banco. Ora, noi non ci occupiamo dei vostri ufficiali e sudditi, e non vogliamo che voi vi occupiate dei nostri. Perciò vi preghiamo e ripreghiamo di smettere di inviarci tali lettere."

Bernabò dovette essere stupito dal coraggio improvviso del nipote e allora rincarò la dose a modo suo. Gli scrisse confidandogli che quando era giovane aveva assassinato un medico e che sarebbe stato pronto ad uccidere anche lo zio Luchino se non fosse morto prima. E continua:

"Invero queste mie asserzioni non mi fanno onore, tuttavia ve le ricordo affinché vi rendiate conto che non siamo disposti a tollerare villania senza trarne vendetta, dal momento che voi non volete né mai avete voluto punire alcuno dei vostri che ci abbia recato offesa. A questo proposito voi dite che non volete che noi ci intromettiamo negli affari vostri ma, per la Madonna, non ci sarà nessuno a voi così caro che, se ci avrà offeso, noi non lo puniamo; e in questa faccenda non vi lasceremo più l'iniziativa. Peraltro siamo d'accordo che voi agiate nello stesso modo nei confronti dei nostri" (D. Pizzagalli, pp. 148-150).

Gian Galeazzo giocava con lo zio come un gatto col topo. Il suo ambasciatore Capelli era già andato alla corte francese per saggiare l'appoggio che avrebbe potuto ricevere in un eventuale colpo di mano ai danni dello zio.

Caterina fu messa al corrente di questo deteriorarsi di relazioni o, abituata com'era agli sfoghi paterni, non vi diede importanza? Era preoccupata per la mancanza di eredi e per le accuse che sua suocera Bianca rivolgeva ai suoi genitori di fare sortilegi per impedire che rimanesse incinta, ma riuscì mai a subodorare le intenzioni di Gian Galeazzo nei confronti di suo padre?

La tragedia familiare

Cosa pensò Caterina quando seppe che il marito progettava di recarsi a maggio al santuario di Velate per implorare l'aiuto della Vergine a dargli un altro erede? Non era strano che la escludesse da un pellegrinaggio che in fondo riguardava più lei, visto che la capacità di procreare del marito non era in discussione. Il santuario sopra Varese era un luogo antichissimo di culto legato alla fertilità e sarebbe stato normale che anche lei partecipasse a quel viaggio il 4 maggio 1385.
Invece Gian Galeazzo la lasciò a Pavia e partì con un esercito di 500 lance al comando di Jacopo dal Verme, Ottone di Mandello e Giovanni Malaspina. Passò la notte nel castello di Binasco e si rimise in cammino il mattino successivo molto per tempo. A due miglia dalle mura di Milano Ludovico e Rodolfo, fratelli di Caterina, gli andarono incontro e vennero fagocitati con il solito cameratismo dalle truppe del capitano dal Verme. Sopraggiunse a dorso della sua mula Bernabò, che voleva approfittare dell'occasione per parlare a quattr'occhi col genero ribelle. Nonostante gli fossero arrivati consigli di prudenza sotto forma di pronostici astrologici, Bernabò fu veramente stupito quando il genero in men che non si dica lo arrestò e lo tradusse in gran furia nel castello di Porta Giovia insieme ai figli.

Forse i milanesi non aspettavano altro, fatto è che non solo non ci fu una rivolta in difesa di Bernabò, ma le case dei Visconti vennero prontamente saccheggiate e il 7 maggio si arresero anche le rocche di Porta Nuova e Porta Romana, dove si trovava la riserva aurea di Bernabò. Gian Galeazzo confiscò 700.000 fiorini d'oro e vasellame d'oro e d'argento da riempire sei carri. Il fortificato palazzo di Bernabò a S. Giovanni in conca divenne una prigione per le sorelle di Caterina che ancora vi abitavano.

Cosa fece Caterina quando venne a conoscenza di questa catastrofe che si era abbattuta su suo padre e sulla sua intera famiglia? Dal suo isolamento non ci è giunta l'eco della sua voce. Dallo sgomento iniziale, che immaginiamo colmo d'ansia per la sua incolumità personale, sarà passata a una sorta di egoistico sollievo nel pensare che almeno lei era salva. La scure del marito si batteva solo sui fratelli maschi legittimi o naturali, per assicurarsi la sola discendenza viscontea, mentre le sorelle venivano lasciate incolumi.

La farsa del processo

L'8 maggio successivo Caterina vide il marito spedire una lettera circolare alle più importanti città italiane per giustificare il suo operato con la legittima difesa: Bernabò stava meditando il suo assassinio, quindi Gian Galeazzo si era cautelato arrestandolo. Conoscendo il padre, a Caterina questa difesa poteva anche sembrare plausibile, ma come reagì in occasione del processo che Gian Galeazzo volle intentare contro suo padre, rinchiuso nella fortezza di Trezzo? Tra i capi d'accusa entrava anche il loro matrimonio, che Gian Galeazzo avrebbe forzatamente subito. Nell'arco di tre giorni la poveretta aveva perso la famiglia e, di fronte al mondo, diventava una moglie sgradita.
Gli altri capi d'accusa riguardavano i tentativi reiterati di omicidio ai danni di Bianca e Gian Galeazzo, offese e violenze al podestà di Milano Domenico Ardizzone, al referendario di Gian Galeazzo Stefano di Montecorvaro, violenze contro la comunità del Seprio e contro i Monzesi, tentato assalto al castello di Porta Giovia, matrimoni imposti anche a sua sorella Violante e al figlio Azzone.

Il funerale

Bisogna proprio ammettere che gli storici sono poco sensibili agli affetti. Così viene registrata una notizia riguardante il funerale di Bernabò: "Gian Galeazzo non presenziò alle esequie, perché già dal 10 dicembre, cioè pochi giorni prima della morte, si era opportunamente trasferito con la famiglia a Piacenza dove restò fin dopo Natale" (D. Pizzagalli, p. 167). Questo convalida l'ipotesi che Bernabò sia stato avvelenato e che Caterina sia stata tenuta lontana, impedendole addirittura di partecipare ai funerali del padre, fatti in pompa magna a Milano. Come le avranno comunicato il decesso? Come avranno giustificato la necessità di non prendere parte alle esequie? Per evitare ulteriori disordini a Milano?

Finalmente madre

Dopo l'iniziale spavento, Caterina dovette rassicurarsi circa le intenzioni del marito nei confronti suoi e delle sue sorelle, mentre i fratelli sfuggiti agli arresti erano tutti riparati all'estero. La nascita di un erede diventava per Caterina ora più che mai una questione di sopravvivenza. 

Una prima gravidanza era finita male, Caterina rischiò la vita e fece appello a tutta la sua fede per salvarsi. La coppia fece voto alla Madonna di offrirle i loro figli e di chiamarli tutti Maria.
Le cose migliorarono dopo la morte di Bianca, avvenuta il 31 dicembre 1387. Libera forse dal controllo opprimente della suocera, nel gennaio 1388 Caterina restò nuovamente incinta e il 7 settembre mise al mondo l'agognato erede Giovanni Maria nel castello di Abbiategrasso, dove si trovava per ripararsi da un'epidemia di peste. Per festeggiare l'evento Gian Galeazzo commissionò a Giovannino de Grassi la prosecuzione di un Uffiziolo iniziato nel 1378 in previsione del suo matrimonio con Maria d'Aragona. Neppure questa volta l'Uffiziolo verrà terminato, ma resta ugualmente uno dei capolavori di Giovannino.

Il 22 ottobre 1388 Caterina veniva ufficialmente investita dal marito del titolo di Signora di Vicenza come erede di sua madre Regina della Scala. Per lei era il segno che era entrata da protagonista nelle strategie politiche del marito, che in realtà mirava solo ad aggirare gli accordi presi con i Carrara per la conquista e spartizione del Veneto. Gian Galeazzo a suo comodo tirava fuori questioni di legittimità nella successione ereditaria, proprio lui che aveva privato dei diritti tutti i figli di Bernabò.

Gian Galeazzo aveva un'amante fissa, Agnese Mantegazza, che gli diede nel 1389 Gabriele Maria. Per Caterina questo non dovette suonare come un affronto, perché era normale che i signori avessero più donne e suo padre ne era stato un fulgido esempio. D'altro canto lei continuava ad avere gravidanze a rischio e l'8 gennaio 1390, all'approssimarsi di un nuovo parto, fece voto di costruire una Certosa presso Pavia se fosse sopravvissuta alla nuova per lei terribile esperienza. Il bambino morì, ma Caterina si salvò e mantenne il voto. Suo consigliere era il certosino Stefano Macone, chiamato a Milano nel 1389 per sovrintendere ai lavori della Certosa di Garegnano. Stefano era il diffusore nel Milanese della devozione alla Madonna delle Grazie, importata dall'Oriente nel 1378 e sostenuta da papa Urbano VI per impetrare l'aiuto della Vergine nella risoluzione dello scisma della Chiesa occidentale.

Nel 1392 nacque Filippo Maria e fu veramente l'ultimo, sebbene Caterina avesse solo 32 anni. Non bisogna escludere i problemi di eugenetica derivati dalla consanguineità dei due sposi, che evidentemente non favorivano la procreazione.

La duchessa invisibile

Per adempiere al voto fatto da Caterina nel 1390, Gian Galeazzo fece costruire la Certosa nel parco del castello di Pavia, sul modello di quella che stava costruendo a Champmol il suo ex-cognato Filippo l'Ardito. Il duca di Borgogna fu presente a Pavia nel 1391 insieme al genero di Gian Galeazzo, Luigi d'Orléans, allora ancora conte di Turenna. Bene, in tutte le cronache che riguardano la corte e la costruzione della Certosa, Caterina è assente. 

Dei progetti della Certosa venne interessato anche Giovannino de Grassi, già responsabile dei progetti del Duomo. Caterina lo pregò di miniare per lei un Salterio, ma sembra un capriccio: come non capire che l'attività di miniatore per l'occupatissimo maestro era ormai marginale? Per accontentare la sua Signora, Giovannino doveva assentarsi dalla Fabbrica e tralasciare i progetti della Certosa. Viene quasi il dubbio che Caterina lo facesse apposta, visto che Giovannino sovrintendeva la decorazione della Rocchetta di Campomorto presso Siziano, dove Gian Galeazzo s'incontrava con Agnese Mantegazza e il piccolo Gabriele Maria, da lui molto amato. 
Comunque Giovannino fece in tempo a decorare una parte del Salterio, con una preghiera nell'ufficio della Madonna copiato da fra' Amedeo: "Omnipotens sempiterne Deus miserere famulo nostro domino Galeaz Comiti virtutum et dirige eum secundum tuam clementiam in viam vitae aeternae" (riprenderà il lavoro dal 1399 per un anno il figlio Salomone de Grassi, ma resterà incompiuto fino all'epoca di Filippo Maria).

A parte questo, non risulta che Caterina fosse una committente di codici o che amasse particolarmente qualche lettura. Il marito invece si arricchiva di opere d'arte e di libri. Senza contare i codici miniati prestati dal suo ex cognato Carlo V, alla nuova biblioteca pavese confluirono la biblioteca di Bernabò, coi bei codici di storie cavalleresche, e nel 1388 quella di Francesco Carrara di Padova che includeva i libri a lui donati da Francesco Petrarca. Nel 1398 ingloberà anche quella di Pasquino Capelli, il suo anziano segretario, giustiziato con l'accusa di tradimento. Pasquino era uno dei maggiori collezionisti privati di codici miniati antichi ed altri ne aveva commissionati alla bottega di fra' Pietro a Pavia.

La Duchessa di Milano

L'11 maggio 1395 Gian Galeazzo ottenne dall'imperatore Venceslao l'investitura a Duca e Caterina di riflesso fu Duchessa di terre considerate tra le più fertili d'Europa: bastava questo a farle dimenticare che avrebbe potuto essere regina d'Inghilterra? Gian Galeazzo fece miniare per l'occasione ad Anovelo da Imbonate un Messale da donare alla basilica di S. Ambrogio, dove si era svolta la fastosa cerimonia (Milano, Biblioteca Ambrosiana, ms 6). Al f. 176r compare l'unico ritratto coevo conosciuto di Caterina: insieme a Gian Galeazzo e ad altri personaggi della corte è inginocchiata sotto il manto della Madonna della Misericordia. Ma nelle miniature che riprendono la cerimonia d'investitura lei non c'è.

Vediamo comparire Caterina come committente il 4 giugno 1396 di un paliotto per l'altare maggiore del Duomo, commissionato al solito Giovannino de Grassi. Caterina è pronta a donare alcuni suoi gioielli per realizzare un'opera che la ricordi, ma non se ne farà niente. Altri progetti ben più importanti distoglievano Giovannino dalle sue committenze.

Il 27 agosto 1396 venne posta la prima pietra della Certosa di Pavia. Il Duca era accompagnato da Giovanni Maria e da Gabriele Maria, non c'è alcun cenno nelle cronache alla duchessa e al piccolo Filippo Maria, sempre malato. Il disinteresse di Gian Galeazzo nei confronti della moglie è palese: oltre alla Mantegazza, ha amanti occasionali come una certa Luciotta, detta amasia domini, e una contadina che gli darà nel 1402 un altro maschio, Antonio, futuro signore di Novara.

Insomma, l'immagine che si ricava da questi scarni dati è quella di una donna emarginata dal marito e dalla politica, desiderosa di lasciare senza successo un segno di sé e preoccupata dei figli, la sua assicurazione, che le davano non pochi problemi, soprattutto il piccolo Filippo Maria, che sembrava sempre in punto di andarsene.

Il marito intanto stava dissanguando le casse dello stato con la sua politica aggressiva e dispendiosa, sullo stile di quella del Duca di Borgogna. Già dal 1397 era ricorso al provvedimento del condono, poi aveva adottato l'una tantum: nel luglio 1401 una tassa di 25.000 fiorini sul clero, a settembre 40.000 fiorini di tassa civica a Milano; a novembre una tassa sul reddito dei più ricchi milanesi; nel 1402 ridusse gli stipendi ai dipendenti, prendere o lasciare..la vita. Più che il capo di uno stato, Gian Galeazzo sembra il boss di una società mafiosa, con tanto di energumeni specializzati nel recupero crediti. Non dimentichiamo che c'erano peste e carestia endemiche (anni da tralasciare in un fantascientifico viaggio nel tempo).

Quando il 3 settembre 1402 Gian Galeazzo cadde vittima dei pestiferi strali, in cassa non c'erano più nemmeno i soldi per i funerali. Caterina, che non aveva neppure vagamente la tempra di sua suocera o di sua madre, si vide persa (ammesso che riuscisse a vedersi). Dopo una vita di emarginazione, Caterina si vedeva sbalzata sul palcoscenico di quella che ormai si palesava come la tragedia della sua vita.
I funerali ebbero luogo il 20 ottobre in S. Tecla a Milano, dopo una settimana di nubifragi e allagamenti in tutta la Lombardia. Secondo la volontà del marito, il cuore del duca andò a S. Michele a Pavia, i visceri a S. Antonio di Vienne, il corpo alla Certosa di Pavia, in attesa che si realizzasse il mausoleo progettato da Salomone de Grassi nel 1400. Aprì il corteo funebre Gabriele Maria e Caterina non viene nuovamente citata.

La reggenza

Nel testamento che fece il marito, oltre ad assegnarle la sua dote e un legato di 100.000 fiorini, la nominò tutrice dei due figli legittimi, a meno che non si fosse risposata. Non le affidò ovviamente il governo, che veniva lasciato al Consiglio segreto fino alla maggiore età di Giovanni Maria. A lei spettava solo la firma degli atti ufficiali o il diritto propositivo. Giovanni Maria sarebbe rimasto sotto la tutela fino a 20 anni, in attesa che diventasse maggiorenne anche Filippo Maria, onde evitare tentazioni di sopraffazione del minore.

Il Consiglio era composto da diciassette membri: quattro vescovi (di Pavia, Novara, Pisa e Feltre), Carlo e Pandolfo Malatesta, Francesco Gonzaga, Antonio da Montefeltro, Giovanni Colonna, Paolo Savelli, Jacopo dal Verme, Baldassarre Spinola, Leonardo Doria, Francesco Barbavara come camerario, il cancelliere Giovanni da Carnago, Pietro da Corte e Filippo de Migli. Ovviamente solo pochi fra questi consiglieri risiedevano a Milano: erano persone alle quali Caterina poteva rivolgersi per farsi aiutare in caso di necessità, ma sopra tutti vi era Francesco Barbavara, conte di Valsesia e capo del partito guelfo. Dietro suo consiglio, Caterina si rivolse prima di tutti alla Francia, dove la situazione politica era già complicatissima. A dicembre gli ambasciatori di Carlo VI vennero a Milano e nel febbraio 1403 gli ambasciatori viscontei andarono a Parigi. Come risultato delle trattative, Giovanni Maria avrebbe dovuto sposare una figlia di Isabella e Filippo Maria una figlia di Filippo l'Ardito (non se ne farà niente).

Le prime preoccupazioni di Caterina furono di natura fiscale: le servivano occhio e croce 150.000 fiorini per saldare i debiti del funerale e per pagare le compagnie. Nel marzo 1403 firmò un condono della metà dei debiti a chi versasse gli arretrati, ma il provvedimento venne reiterato un paio di volte senza esito: o i soldi non c'erano o lei non era credibile o tutte e due le ipotesi insieme. I suoi "commercialisti" dovettero impegnare delle terre, infeudarle, venderle e infine fabbricare moneta falsa. Caterina cominciava ad odorare come un animale moribondo attorno al quale si radunano di soppiatto iene, sciacalli e avvoltoi in attesa di spartirsi la carcassa. Due di questi terribili esseri erano Antonio e Francesco Visconti, appartenenti a un ramo collaterale ma non per questo meno pericoloso. I due fratelli, con la scusa di difendere le pure tradizioni ghibelline, accusarono Caterina di appoggiarsi a un guelfo come il Barbavara e si proposero come i veri tutori del Ducato visconteo.

Cosa poteva fare Caterina? Il marito le aveva lasciato uno stato economicamente esausto, le aveva imposto un Consiglio segreto irrevocabile ma contestato. A chi doveva dar retta? La sua mente era incapace di cogliere la portata della situazione, era sempre stata tenuta all'oscuro delle faccende di governo e ora tutti si aspettavano che facesse la cosa giusta.

La secessione nel Ducato

Mentre lei era paralizzata dall'indecisione, "ovunque nelle città viscontee attraverso le notizie che arrivavano da Milano si ebbe la sensazione che vi fosse un cedimento nel governo centrale. Dovunque i rappresentanti del governo, i referendari, i podestà rimanevano incerti sul modo di eseguire gli ordini, sentendo che alle spalle non vi era più persona che fortemente volesse" (F. Cognasso, I Visconti, p. 363).

Antonio Visconti riuscì a coagulare intorno a sé nell'inverno 1403 la dissidenza: nobili che si vedevano alla deriva su una nave senza capitano e non domandavano altro che di scendere. Per non colpire direttamente Caterina - fatica sprecata -, diressero le loro energie contro il Barbavara, ministro delle finanze e già per questo impopolare. Il 23 giugno 1403 Antonio Visconti di fronte a Caterina accusò il suo ministro di complottare per impadronirsi dello Stato. Esiste il resoconto dell'accaduto fatto da un anonimo testimone oculare:

"Madonna la Duchessa licentia el dicto Antonio el quale siando venuto in lo cortile fu advisato per messer Balzarino da Pusterla che per Dio ello non cavalcasse quello die perché Francesco avea zurà de farlo tagliare per pezzo". Antonio rispose di non temere nulla e baldanzoso montò a cavallo ostentando sicurezza. 

Domenica 24 giugno, festa di S. Giovanni, Antonio Visconti raccolse trecento uomini per sistemare a modo suo il contenzioso col Barbavara. "Sentendo questo, la Duchessa chiamò mess. Giovanni da Chasale el quale era del suo consiglio e comandolli che elli andasse per Antonio Bisconte, che venisse a lei. Giunto a chasa del detto Antonio si fecioni innanzi certi de quelli armati e tagliarlo a pezzi con certi de suoi compagni, e romoregiaro la terra gridando - Viva il ducha e muoiano i Barbavari - e con questo gridare se serarono le boteghe e tutto il popolo prfese l'arme e andarono a corte per uccidere Francesco Barbavara ma non si lasciò trovare, corsono a chasa del fratello carnale el quale era abate de Santo Ambrogio e lui tagliarono a pezzi..."

Mentre il da Casale veniva trafitto dagli spiedi ghibellini, la Duchessa passava su una carretta come una buona madre fra il popolo, sforzandosi di distribuire stirati sorrisi rassicuranti e benedizioni, seguita dai figli a cavallo. I mestatori avevano ottenuto il torbido che speravano: il popolo era ricorso alle armi che trovava, la città sconvolta da due giorni di tumulti, le case dei Barbavara saccheggiate e bruciate.
Ad Antonio si affiancò Antonio Porro conte di Pollenzo, nemico giurato del Barbavara. Fu lui a sequestrare il duchino Giovanni Maria, giovane già scellerato di suo, per metterlo simbolicamente a capo dei ribelli, che si divertirono a massacrare l'abate di S. Ambrogio, con Giovanni Maria che sembrava la reincarnazione di un imperatore romano al Colosseo.

Davanti alla cattedrale, intanto, Caterina ormai fuori di sé dal panico domandava reiteratamente a quelli che la circondavano: "Sono io segura?", poi a scanso di equivoci si rinserrò nel castello di Porta Giovia, lasciando che almeno Francesco Barbavara e suo fratello Manfredi si mettessero al riparo con la fuga. Come avrebbe voluto seguirli! Lei che era sempre stata in disparte nei momenti di gloria, ora rischiava di morire per la ragione di stato.

Il governo ribelle

Mentre tutte le città assoggettate ai Visconti si ribellavano, il governo passò nelle mani di un altro consiglio che supportava Giovanni Maria; ne facevano parte Antonio Visconti e suo fratello Francesco, Antonio Porro, Jacopo dal Verme, Ambrogio di Lodrisio Visconti, Cesare figlio di Galeazzo II, gli Aliprandi, i Pusterla. Tutto si concluse entro il 5 agosto 1403 a Milano, ma innescò la miccia per la secessione a catena di tutte le città infeudate ai Visconti, tranne Pavia, dove Caterina volle che s'insediasse l'undicenne Filippo Maria sotto tutela di Castellino Beccaria.

A lei restarono fedeli Jacopo dal Verme (che faceva il doppio gioco?), Pandolfo Malatesta e Facino Cane. Dietro loro suggerimento il 6 gennaio 1404 Caterina fece arrestare il nuovo consiglio di reggenza e quella stessa sera caddero le teste di Antonio e Galeazzo Porro e di Galeazzo Aliprandi, che vennero esposte al Broletto.

Il 14 gennaio si decise il rientro del Barbavara, che però mise piede in pompa magna a Milano solo il 31 gennaio. Si recarono a riceverlo tra gli altri l'arcivescovo di Milano e Francesco Gonzaga, che nel frattempo aveva sposato Anna, la nipote di Caterina figlia di suo fratello Marco.
I congiurati non si arresero: si rifugiarono a Pavia, dove pretesero da Filippo Maria l'arresto di Manfredi Barbavara, che era stato messo lì ad aiutarlo. Il giovane conte non solo accondiscese, ma firmò un atto di accusa contro Francesco Barbavara che, saputa la cosa, abbandonò Milano il 15 marzo 1404.

Non allo stesso modo la pensavano Giovanni Maria e sua madre. Il 19 marzo 1404 il Duca e Caterina quale ricompensa dei grandi servigi resi dal conte Barbavara, loro camerario e governatore, concedevano a lui e ai suoi successori in allodio le terre di Yenne, Chamaz e Monthey, che costituivano i beni dotali di Bianca di Savoia. In sua assenza incaricarono Ludovico Scarampi di Asti - dove si era rifugiato - di dargli l'investitura e riceverne l'omaggio. Era una concessione arbitraria, che aprirà un contenzioso con Amedeo VIII di Savoia, vincitore della contesa, ma dimostra la dissennatezza della duchessa.

Il cerchio si chiude

Caterina pregava, ma non le bastava per sentirsi al sicuro. Giovanni Maria era una marionetta nelle mani senza scrupoli di Antonio e Francesco Visconti. Il 21 maggio ci fu una nuova sommossa cittadina tra guelfi e ghibellini e si può affermare che tutti erano ormai preda del panico. I monaci di S. Simpliciano, armati come lanzichenecchi, al grido di "W i guelfi!" menavano botte da orbi sugli avversari, tra i quali vi era anche Giovanni Maria. Vinsero i ghibellini e il giovane duca considererà il 23 maggio suo giorno fausto e quindi festa pubblica.

Caterina non si era mossa dal castello di Porta Giovia e ai primi di giugno riuscì a organizzare la sua "evasione" verso il castello di Monza, il maledetto dono di nozze del marito. La duchessa, ormai preda della paranoia più cupa, non era però al sicuro neppure lì, perché infatti le comparve dinnanzi il temuto Francesco Visconti, venuto ad arrestarla il 18 agosto. Caterina mandò reiterate richieste di aiuto ai suoi fratelli all'estero e alla corte di Francia, ma nei due mesi in cui rimase prigioniera a Monza non successe niente.

Non sappiamo come venisse trattata, nessuno come al solito pare essersi preoccupato di lei, tranne il suo piccolo Filippo Maria, assolutamente impotente nel soccorrerla. Caterina morì a Monza, si disse per veleno, ma probabilmente contagiata dalla peste, una delle peggiori epidemie che imperversò in tutta Europa. I funerali furono di Stato, ma il suo corpo - contagiato - venne lasciato a Monza e presto dimenticato.

Agli inizi del Cinquecento qualcuno ritenne di poterla considerare beata e di immortalarla in una cappella nel Santuario di S. Maria delle Grazie a Monza, fondato nel 1473. Un piccolo risarcimento per una vita così sfortunata.

Bibliografia

Cognasso Francesco, I Visconti, Dall'Oglio, 1966
Maiocchi R., Francesco Barbavara durante la reggenza di Caterina Visconti, Miscellanea di Storia Italiana, t. XXXV, 1898, pp. 272-278
Muratore Dino, "Archivio Storico Lombardo" 1907
Novati F., Per la cattura di Bernabò Visconti, A.S.L. 1906, pp. 129-139
Pizzagalli Daniela, Bernabò Visconti, Rusconi, Milano 1994

Ultima modifica: domenica 9 marzo 2003

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