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Tristan, Biblioteca Nazionale Francese, fr. 755, miniato a Milano agli inizi del Trecento

La problematica storia della miniatura lombarda

di Maria Grazia Tolfo

Sommario

Farsi una biblioteca: anonimi capolavori: i codici miniati - Regalare un libro - Caccia ai manoscritti - Bottini ambiti: biblioteche di lusso - Generi di successo

L'organizzazione delle botteghe: gli scriptoria - La bottega - Il mansionario del pittore - Copisti - Le ricette di Giovanni Alcherio - I cantieri internazionali

Farsi una biblioteca

Anonimi capolavori: i codici miniati

Chiunque avesse la fortuna e il raro privilegio di sfogliare un codice miniato medievale, all’emozione di tenere fra le mani “un pezzo di storia” dovrebbe aggiungere quella del mistero: in rarissimi casi si conoscono i nomi del copista e del miniatore che hanno realizzato un tale capolavoro. Forse non è così strano: oggi diamo grande valore all’esecuzione manuale artistica, ma siamo a nostra volta molto distratti se l’illustrazione è stampata. Chi di noi, avendo fra le mani uno stupendo libro illustrato, va a vedere il nome dell’artista? O chi si preoccupa di sapere quale redazione si è incaricata della buona riuscita dell’opera?

Un libro, ieri come oggi, è il risultato di una collaborazione di più figure professionali, ma il lettore, per lo più, compra il testo di quel autore e solo in rari casi, quando l’illustratore è un artista già affermato, considera il lavoro grafico, ignorando, come per qualsiasi altro prodotto commerciale, ciò che ha reso possibile il suo acquisto.

Quello che distingue nettamente la storia del libro antico da quello moderno è che la stampa rende disponibile un numero elevato di copie per lettori sconosciuti, mentre nell’antichità nessun copista si sarebbe messo al lavoro senza un committente.

Carlo Magno, analfabeta, diede l’avvio alla biblioteca reale e fece copiare, sempre nei monasteri, codici di varie discipline per formare i dirigenti del suo stato. Fu il primo nell’Europa medievale a rispolverare l’antico concetto di biblioteca. L’esperimento rimase un unicum per diversi secoli e verrà ripreso nel XIV secolo ancora da reali di Francia: re Giovanni II il Buono e la consorte Bona di Lussemburgo diedero impulso alla costituzione di una biblioteca reale, proseguita dai loro figli Carlo V, Filippo di Borgogna e Giovanni di Berry. Carlo V traslocò i libri dal Palazzo dell’Ile de la Cité al castello del Louvre, nella torre della Falconeria. C’erano 910 codici, quasi uguali per numero a quelli della Sorbona.


Regalare un libro

Il libro riccamente miniato divenne un oggetto di lusso idoneo per prestigiosi doni in occasione di nozze e alleanze o poteva essere diretto a parenti lontani o a istituzioni religiose. Nel 1368 Bianca di Savoia chiese al suo ambasciatore Pasquino Capelli, che aveva fama di bibliofilo, di acquistare per lei e per la nuora Isabella di Valois dei codici a Parigi. Pasquino tornò con due Libri d’Ore (non identificati) per le due nobildonne e con una serie di codici per Bianca: l’Evangelarium expositiones (BNF, fr. 187), il Miroir de l’ame (BNF, lat. 5562) e il Trésor di Brunetto Latini (BNF, fr. 1110). A Isabella portò una Bibbia antica del XIII secolo (New York, Pierpont Morgan Library, M 494).

Tacuinum sanitatis di Verde Visconti , Biblioteca Nazionale austrica, Vienna  A Milano Bernabò Visconti fece miniare un Tacuinum sanitatis per sua figlia Verde, che aveva sposato Leopoldo d’Asburgo. Valentina, figlia di Gian Galeazzo Visconti e di Isabella di Valois, nel 1389 portò con sé a Parigi per le sue nozze con Luigi di Turenna alcuni Offizioli, un Salterio, una vita di S. Cipriano, un libretto di versi tedeschi e i Viaggi di sir John Mandeville, ossia uno zibaldone di viaggi in Oriente composto nel 1360. Magari questo codice era stato regalato a sua zia Violante quando aveva sposato nel 1368 Lionello di Clarence, figlio del re d’Inghilterra Edoardo III.

 

Gian Galeazzo Visconti, per ringraziare l’imperatore Venceslao della sua promozione a duca – che costerà tra le altre cose all’avido imperatore la sua deposizione – gli fece dono di una Historia plantarum, miniata a Milano. Il manoscritto, riccamente illustrato, finì nella biblioteca di Mattia Corvino e nel XVII secolo in quella dell’illustre archiatra pontificio portoghese Roderico de Fonseca, che serviva anche i Barberini e i Pamphili. Quando tra il 1700 e il 1744 il manoscritto pervenne alla Biblioteca Casanatense (ms 459), portava il frontespizio col nome del Fonseca.


Caccia ai manoscritti

Le vecchie biblioteche monastiche divennero nel Quattrocento terreno di caccia per appassionati bibliofili che volevano fare il “colpaccio”: trovare testi smarriti e inediti e farli rinascere. Ad esempio nel 1423 l’arcivescovo Bartolomeo Capra trovò nella biblioteca di un convento milanese (non meglio identificato) nove codici con opere poco note di Frontino, Macrobio e Marziale, ma altre completamente ignote, tra cui la Rhetorica e la Dialectica di S. Agostino e la Periegesis di Dionigi (II sec. D.C.), un poemetto che descriveva il mondo conosciuto, nella traduzione fatta in latino da Prisciano (V secolo). Anche Pier Candido Decembrio ebbe il privilegio di trovare codici dimenticati nella biblioteca capitolare di S. Ambrogio e di proporne la riedizione.

 

Bottini ambiti: biblioteche di lusso

La sorte della biblioteca francese e di quella viscontea è interessante e merita due righe. La disfatta francese durante il regno di Carlo VI il Folle portò al sequestro della sua biblioteca nel 1425 da parte del duca di Bedford, reggente di Francia, che la trasportò nel 1429 in Inghilterra. Alla morte del duca la biblioteca venne venduta e dispersa sul mercato inglese, dove si trovano – ad esempio – i codici portati da Valentina Visconti.

Nel 1499 le truppe francesi sequestrarono la biblioteca viscontea a Pavia e la portarono nel castello di Blois. La biblioteca viscontea era stata inventariata nel 1426 e sappiamo che conteneva allora 988 codici e che era composta dai libri ricevuti in dono da Galeazzo II e Bianca di Savoia, da quelli commissionati da loro stessi, dal figlio Gian Galeazzo e dal nipote Filippo Maria, dalle biblioteche sequestrate di Bernabò Visconti nel 1385, nel 1388 di Francesco Carrara di Padova che includeva i libri a lui donati da Francesco Petrarca, e dalla biblioteca di Pasquino Capelli, cancelliere e segretario di Galeazzo II, morto in disgrazia nel 1398. Filippo Maria aveva dato grande impulso alla sua collezione.

 

Generi di successo

Ci sono generi librari che fanno la loro comparsa o raggiungono la massima diffusione in questo periodo: Libri d’Ore, prontuari di medicina, romanzi del ciclo arturiano.

Tra i prontuari di medicina abbiamo il tacuinum sanitatis, il theatrum sanitatis e la historia plantarum. Il tacuinum è un manuale di medicina derivato dai testi arabi di Ibn Butlan e integrato con altre fonti, imperniato sui sei principi fondamentali per preservare la salute: aria, alimentazione, movimento, tono, eliminazione di scorie, emozioni. La salute derivava dalla corretta miscela dei sei elementi. Il manuale divulgativo, riccamente illustrato, venne in auge qualche decennio dopo la peste del 1348, quando ormai l’epidemia era divenuta ciclica in Europa. E’ curioso comunque che i tacuina sanitatis che si sono conservati siano stati prodotti alla corte viscontea.

La pesca alla lampreda nel Theatrum sanitatis alla CasanantenseIl theatrum sanitatis deriva dal testo del medico chirurgo arabo Abu Kasim, scritto tra il 1052 e il 1063, che per contenuto non differisce dal Tacuinum. Consta di un erbario a cui segue la trattazione delle sei cose naturali necessarie al mantenimento della buona salute: aria buona, cibo e bevande convenienti, moto e riposo, sonno regolare, regolamentazione degli umori e moderazione dei sentimenti. La Historia plantarum era una summa della conoscenza farmacologica ereditata dalla Scuola Salernitana e dalle scienze araba, greca ed ebraica, assemblate nell’XI secolo da Matteo Plateali nel suo De semplici medicina.

Esempio di un Libro d'Ore dal Seminario Arcivescovile di MilanoUn altro genere che conosce un vero exploit a quest’epoca è il Libro d’Ore, libro per la devozione personale in cui le preghiere sono scandite nelle varie ore della giornata: Mattino (Laudi), Prima, Terza, Sesta, Nona, Vespri, Compieta. I libri contenevano un calendario illustrato con i lavori dei mesi e l’elenco giornaliero dei santi, i salmi penitenziali, brani dal Vangelo e preghiere mariane. Oppure ci si poteva limitare alle Ore della Vergine o Uffiziolo, un libro di sole preghiere mariane, o ancora a librettini di preghiere per i defunti, ecc. Un altro genere in voga era il Breviario, un compendio di numerose letture e preghiere, diffuso dai Francescani. Se il Libro d’ore conteneva solo i 150 Salmi, allora prendeva il nome di Salterio. I salmi potevano essere recitati o cantati (salmodiati) e non di rado un salterio veniva usato dalle nobildonne per insegnare a leggere ai propri pargoletti, come i musulmani fanno coi versetti del Corano.

Non è comunque da credere che i nobili fossero presi da improvviso fervore religioso e pregassero tutto il giorno. Il Libro d’Ore era un genere alla moda, un pretesto per sfoggiare ricchezza e armi nobiliari. Il duca Giovanni di Berry ne possedeva una ventina e non si stancava di ordinarne un altro se trovava un’idea nuova: avrà mai recitato una delle preghiere dei suoi libri?

La Bibbia, inizialmente di grandi dimensioni per essere letta dai leggii durante le funzioni e i pasti dei religiosi, si ridusse di formato ad uso di studenti universitari o dei predicatori. Oppure poteva prestarsi come dono prestigioso da offrirsi a biblioteche capitolari, come i quattro volumi della Bibbia (Milano, Braidense, AE XIV 24-27) commissionati a Tomasino da Vimercate e Salomone de Grassi nel 1396 da Gian Galeazzo Visconti per la nuova fondazione della Certosa di Pavia.

Altro genere di successo erano i romanzi del ciclo arturiano, in auge dalla metà del XIII secolo. Le storie della Tavola rotonda, della cerca del Graal, le avventure di Lancillotto, Tristano e Guiron deliziavano tutte le corti e i ricchi d’Europa. Di solito questi romanzi erano scritti in francese e così venivano copiati anche in Italia, come indice di internazionalismo culturale. Il romanzo del ciclo bretone più diffuso in Italia era il Tristan, composto intorno al 1230 circa. Venne fatta una traduzione italiana in Francia, ad uso dei facoltosi mercanti che vi risiedevano. 

Tristan, BNF, fr. 755, miniato a Milano Ne possediamo due varianti, molto distanti nel tempo: il Tristan (BNF, fr. 755), miniato a Milano agli inizi del Trecento, e il Lancelot du Lac, disegnato a penna nel 1446-47 nella bottega dei Bembo, il cui titolo non deve trarre in inganno circa il vero protagonista del romanzo. Bernabò rilanciò la passione per il ciclo bretone: erano destinati a lui lo splendido Guiron le Courtois (BNF, Nouv. Acq. Fr. 5243) e il Lancelot du Lac (BNF, fr. 343), entrambi incompiuti nelle illustrazioni. 

Guiron le Courtois, BNF, Nuov. Acq. Fr. 5243 Il titolo del Guiron era in origine Palamède, ma poiché il romanzo era rimasto incompiuto, lo riprese Rustichello da Pisa e lo imperniò sulla generazione precedente quella della Tavola rotonda. Invece della cerca del Graal, l’occupazione principale dei cavalieri divenne quella di giostrare e divertirsi in tornei: l’ideale di Bernabò, che chiamo i figli naturali Tristano, Palamede, Lancillotto, Ginevra, Isotta, ecc. E’ quasi impossibile sapere per quali vie e quando pervennero alla biblioteca dei Visconti antichi codici cavallereschi, come lHistoire du Saint Graal. Histoire du Merlin (BNF, fr. 95), miniato tra il 1280 e il 1290 in una bottega di St-Omer, zona normanna al confine con le Fiandre. Dalla stessa città provenivano l’Agravain. Queste du Saint Graal e Mort d’Artu, continuazione del libro precedente (New Haven, Yale University Library, ms 229).

Quando nel 1426 Filippo Maria Visconti fece redigere l’inventario dei codici della biblioteca pavese, c’erano dieci romanzi cavallereschi (ma non il Guiron le Courtois), niente in confronto alla biblioteca dei Gonzaga, che nell’inventario del 1407 riporta 44 romanzi cavallereschi in francese, tra cui quattro Guiron le Courtois; infine l’inventario degli Estensi del 1436 include ben 19 romanzi cavallereschi: abbastanza per concludere che questo genere fu indubbiamente il preferito nelle corti italiane e non solo.

Ma non c’era solo la passione per questa storia romanzata; i nobili andavano pazzi per la storia romana, alla quale facevano di solito risalire l’origine della propria famiglia, che per lo più vantava ascendenze divine o preistoriche o bibliche. L’autore più amato e ricopiato era Tito Livio, ma anche l’Iliade era fra i testi più conosciuti, oppure c’erano degli zibaldoni come quel Facta dictaque memorande Romanorum libri di Valerio Massimo (Bologna, Biblioteca Universitaria, ms. 2463), miniato a Milano nel 1377 da un discepolo di Jean d’Arbois, o una romanzata Storia troiana narrata da Guido delle Colonne (Milano, Braidense, Fondo Castiglioni), dove la bottega di Anovelo da Imbonate alla fine del XIV secolo si sbizzarrì nelle scene della caduta di Troia. Anche Seneca e Svetonio erano autori molto amati: fra’ Pietro di Pavia scrisse e miniò il Ludo de morte Cesari di Seneca (NBF, ms. lat. 8717) e un bravissimo quanto anonimo maestro illustrò le Vitae Imperatorum di Svetonio (BNF, ms. it. 131), tradotte dal latino per Filippo Maria Visconti.

Per l’aristocrazia erano predisposti degli zibaldoni didattici per l’educazione del perfetto cavaliere, che contenevano invariabilmente Le livre des eschaiz per il gioco degli scacchi, nuovo passatempo erudito, e Le livre de l’ordre de la Chevalerie di Raimondo Lullo. Un esempio, anche se mutilo, di questa antologia del bon ton cavalleresco si trova a Torino (Biblioteca Nazionale Universitaria, ms. L III 14).

C’erano last but not least gli autori contemporanei, Dante, Petrarca, Boccaccio che riscossero subito un gran successo, venendo copiati in continuazione.

Dalla seconda metà del XIV secolo in poi ci fu anche l’exploit dei libri musicali ad uso dei cori durante la messa. Il libro fondamentale era il Graduale, mentre l’Antifonario conteneva le parti cantate nella Messa. Un nostro miniatore specializzato in questo genere di codici fu l’anonimo Maestro del Breviario Francescano, che per il cardinale Bessarione produsse una ventina di libri corali.

 

L’organizzazione delle botteghe

Gli scriptoria

I copisti inizialmente si identificavano con i soli luoghi dove circolavano libri da copiare, ovvero i monasteri con le loro biblioteche. Ma l’età mercantile rese necessaria una quota sempre maggiore di libri e il lavoro di ricopiatura venne affidato anche a laici e donne, che lavoravano a casa propria.

Continuavano a funzionare anche scriptoria monastici, il più famoso dei quali in età viscontea si trovava a S. Pietro in Ciel d’Oro a Pavia, abbinato all’università pavese. Conosciamo anche il nome di due frati: fra’ Pietro e fra’ Amadeo. Fra’ Pietro di Pavia lasciò la sua firma e il suo autoritratto nella Naturalis Historia di Plinio, copiata e anche miniata nel 1389. Ma fra’ Pietro copiava anche più modesti libri universitari, con pochissime miniature, facendosi senza dubbio aiutare da qualche studente squattrinato. Gli argomenti erano quelli universitari: teologia, astronomia, logica, grammatica, diritto civile e canonico. Il testo De Feudis di Ubaldo degli Ubaldi che fra’ Pietro nel 1393 copiò (BNF, ms. lat. 11727) era però destinato allo stesso Gian Galeazzo.

Per gli studenti invece della pergamena si usava la meno pregiata e più deperibile carta, che con l’impiego della stampa ebbe partita vinta.

Boezio, De consolatione, Glasgow, miniato per Gregorio da Genova e scritto da fra' AmadeoFra’ Amadeo copiò il Salterio per Caterina Visconti, che diventerà l’Uffiziolo del figlio Filippo Maria (Firenze, Biblioteca Nazionale, Landau Finally 22) e nel 1385 un Boezio, De Consolatione Philosopiae (Glasgow, University Library, ms. Hunter 374) per Gregorio da Genova, il cui nome sul frontespizio è preceduto da una croce dorata che segnala il suo ruolo di religioso.

 

La bottega

Il funzionamento di una bottega di miniatura è ancora poco studiato. Da quello che si può dedurre dall’analisi dei codici, i miniatori non si concentravano in un’identico spazio fisico, ma solitamente lavoravano per conto proprio, con il coordinamento di un maestro.

Il maestro riceveva la commessa, faceva un preventivo in base a un progetto grafico, nel quale si dettagliava il tipo e la quantità di illustrazioni, la grandezza delle stesse e le dimensioni del codice, che poteva andare dal piccolo librettino di preghiere di pochi centimetri, come lo splendido Libro d’Ore di Jeanne d’Evreux, regina di Francia, o una Bibbia tutta illustrata, come quella per Borso d’Este eseguita da vari artisti.

Il Maestro faceva poi l’impianto grafico della pagina, lo passava al copista, poi distribuiva le pagine a seconda delle specialità dei suoi collaboratori, tenendo per sé le parti più complesse e la preparazione dei colori secondo la sua ricetta, gelosamente custodita. Prendiamo ad esempio la Historia plantarum (Roma, Biblioteca Casanatense 459), un codice di cm 43 x 28 cm e 298 fogli, che Gian Galeazzo Visconti volle regalare dopo il 1395 all’imperatore Venceslao. Vi lavorarono sette miniatori: Giovannino e Salomone de’ Grassi, un miniatore per gli animali, un bravo miniatore di figura, un miniatore di scenette mercantili, un vignettista, un miniatore che usava colori opachi e il miniatore del frontespizio, ossia Michelino da Besozzo. Il manoscritto ebbe 500 illustrazioni di piante medicinali, 80 di animali dai quali si potevano trarre sostanze curative e 30 di minerali. Il maestro si riservava anche le parti che contenevano oro e argento, dato il costo dei materiali. Ad esempio, nelle carte da gioco o trionfi, prodotte dai Bembo, una sottile lamina d’oro veniva adagiata su uno strato di gesso ancora fresco e punzonato per aderire, lasciando fuori le figure o, come nel mazzo Visconti di Modrone, lavorando le figure che hanno vesti dorate con punzoni diversi.

Quando tutti i fogli tornavano completati, si scriveva e illustrava la prima pagina, che conteneva le notizie sul committente, il copista, il capo-bottega e la data di conclusione dell’opera. Infine si rilegava e si chiudeva con una copertina preziosa a volte più dell’intero codice. Disgraziatamente nel rifare le rilegature si perdeva negli anni anche la prima pagina e con essa le informazioni per noi indispensabili. Disponiamo di diversi esempi di progetti editoriali abortiti. Nel 1350 si cominciò il Liber cronice gestorum Mediolani (BNF, ms. lat. 4946), un librone di 43,8 x 27,5 cm e 353 fogli. Le illustrazioni, inserite nel testo, sono rimaste allo stato di disegni a inchiostro, tranne i fogli 3v e 6v, eppure era un libro importante per la dinastia viscontea; era morto il committente? La stessa sorte toccò ai romanzi del ciclo bretone commissionati da Bernabò Visconti.


Il mansionario del pittore

Dalla metà del Trecento le botteghe differenziano la loro produzione e, rivolgendosi a un pubblico mercantile sempre più ricco, si occupano di disegni e pitture per tessuti, vetrate, oggetti di oreficeria religiosa e laica; fanno disegni per architetti, per statue che poi dorano e colorano (senza contare gli artisti che le scolpiscono direttamente, come Giovannino de Grassi); eseguono campagne di decorazione a fresco per le cappelle gentilizie che dal Trecento si affiancano alle chiese, venendo poi a integrarsi con la navata centrale; si studiano altaroli portatili e pale d’altare, si affrescano o decorano a graffito palazzi signorili, ville di delizia, cascinali suburbani; si decorano tavolette lignee per soffitti e cassoni nuziali; si producono tavole e carte da gioco, un settore in grande espansione. Pensiamo poi alla quantità enorme di stendardi processionali, bandiere, gonfaloni, pennoni usati in battaglia, tutti dipinti a mano nelle botteghe che facevano anche miniature. Per farci un’idea, Melchior Broederlam, il pittore ufficiale di Filippo di Borgogna, non disdegnò di dipingere ad olio nel 1396 due grandi bandiere dorate, due bandierine e 100 pennoni per lance; un altro artista parigino, Colard de Laon, gli fece addirittura 4.024 pennoni! Ma pensiamo anche alle tappezzerie su stoffa, che narravano episodi cavallereschi e, rispetto agli affreschi, avevano la possibilità di essere trasportabili o, in confronto con gli arazzi franco-fiamminghi, avevano un costo di gran lunga inferiore. Anche i tendoni e i padiglioni per i raduni all’aperto ricevevano una decorazione con le imprese del committente, come pure i dorsali dei letti e le cortine che li nascondevano. La chiesa e le nuove cappelle gentilizie richiedevano altresì paramenti per altari che, quando non erano ricamati, erano dipinti su stoffa. Ovviamente si aiutavano in questi prodotti di serie con mascherine (stencil) o con timbri o col decoupage.

Il personale che ruota intorno a una bottega è quindi variegato, ma tutti attingono, vincolati dal segreto professionale, ai modelli del maestro, che solo a pochi intimi, per lo più familiari, tramanda i segreti.


Copisti

Per fare un libro (codex) su pergamena occorreva innanzi tutto la pelle animale, di vacca, montone o di vitellino/agnellino nati morti (vellum), che veniva adeguatamente lavorata. Le pelli si lavavano in una soluzione di acqua di calce, poi si levigavano per eliminare il pelo, si stiravano su assi di legno per farle asciugare e si raschiavano per ottenere pelli sottilissime, trasparenti, che venivano strofinate con gesso. A Milano le concerie si trovavano dove l’acqua era più abbondante e in uscita dalla città, ossia intorno alla Vetra di Porta Ticinese.

I copisti compravano le pelli idonee e le tagliavano a formare dei quaderni, come nella rilegatura attuale dei libri, che ha mantenuto la stessa terminologia. La pelle veniva piegata a creare un bifolium (formato grandissimo), un quarto (piegata due volte), un ottavo, formato standard, un sedicesimo, i tascabili. La quaterna era formata da 16 folia. Prima di cominciare a scrivere, i copisti tracciavano le righe e praticavano incisioni nella quaterna per allinearle nelle pagine successive. C’erano libri appositi che davano istruzioni sull’impaginazione (il layout dei moderni grafici), con proporzioni matematiche per i margini, le distanze delle righe e il numero di colonne per pagina. Penne d’oca o meglio ancora di cigno e temperini erano gli strumenti indispensabili al copista, che in caso di errore abradeva la superficie della pergamena. Alcuni copisti ponevano a margine giustificazioni dei loro errori, tipo “la pergamena era pelosa” o “non c’era abbastanza luce” o “il lavoro è stato fatto troppo in fretta”. Quante pagine si potevano copiare, bene, in un giorno? Sembra che il massimo fosse di una dozzina di pagine, ma se il copista lavorava a più libri in contemporanea i tempi si dilatavano.

Gli inchiostri nero e rosso stabilivano l’alta qualità del lavoro – dopo la finezza della pergamena. A Milano Alberto de’ Porcellis era famoso per la sua ricetta dell’inchiostro, che confidò al pittore e raccoglitore di ricette Giovanni Alcherio. Era a base di galle di quercia, prelevate prima che le larve degli insetti fossero uscite dal bozzo e quindi cariche di tannini; le galle pestate si mischiavano a gomma arabica e vetriolo romano (solfato di rame). L’inchiostro, una volta entrato in contatto con la pergamena, continuava ad agire, diventando sempre più scuro.


Le ricette di Giovanni Alcherio

Giovanni Alcherio, pittore milanese, è emblematico per l’importanza che rivestiva la preparazione dei colori e dei supporti per ogni genere di pittura, da quella murale alla miniatura. Nel 1382 l’Alcherio si fa dare la ricetta per l’inchiostro da Alberto de’ Porcellis, che lui definisce “perfectissimus in omnibus modis scribendi et formis litterarum”. Dopo questa data il nostro pittore si trasferisce a Parigi, dove resta fino al 1391 imparando la tecnica di miniatura e pittura francese, cosa che gli fa meritare il soprannome di Giovanni il Francese. Di tutta questa sua arte appresa non possiamo apprezzare nulla, perché non c’è opera che porti il suo nome. Nel 1389 ottiene delle ricette, che include nel suo ricettario De coloribus diversis, da Jacques Coene di Bruges e altre dal normanno Antoin de Campin, in casa del quale abitava. Sarà l’Alcherio a suggerire alla Fabbrica del Duomo di Milano l’assunzione del Coene e di Jean Campin (Jan van Eyck) col suo aiutante Jean Mignot nel 1399 e lui stesso verrà nominato deputato della Fabbrica dal 1400 al 1407. Poi torna a viaggiare per raccogliere ricette dai migliori artisti del momento: nel 1408 intervista a Bologna Giovanni da Modena che lavora a fresco in S. Petronio; nel 1409 è a Genova da fra’ Dionisio, eccellente miniatore; nel 1410 Teodorico di Fiandra, impiegato come ricamatore nel castello di Pavia, gli dà ricette per acquetinte da usare su tela che lui aveva ottenuto da Londra; in quello stesso anno Michelino da Besozzo, impegnato a Venezia, gli confida il suo segreto per l’azzurro ultramarino; un’altra ricetta per l’azzurro l’ottiene nel 1411 a Parigi dal suo amico Jacques Coene. Il Coene ha portato con sé a Parigi Pietro da Verona, che diventa consigliere artistico di Jean de Berry e contribuisce a trasformare in tono più drammatico ed ampio le miniature francesi. E’ in questo contesto che compare il termine “ouvraige de Lombardie”, per definire questo stile nuovo, alla moda, debitore della lezione d’arte senese.

A Parigi l’Alcherio pubblica il secondo trattato Experimenta de coloribus. La fama raggiunta lo mette in contatto con Jean Lebègue, cancelliere dei maestri generali della zecca reale, che utilizzerà i trattati dell’Alcherio in un manoscritto del 1431 (BNF, ms lat. 6741), entrato nella biblioteca di Ludovico Martelli nel 1587.

Quali erano i colori più usati? Il rosso si otteneva dal piombo, dal cinabro o da altri elementi vegetali. Il blu era ricavato dall’azzurrite, ma l’azzurro oltremarino, nel quale si era specializzato Michelino da Besozzo, era prodotto dai lapislazzuli importati a carissimo prezzo dall’Afghanistan. Il blu-viola derivava dal girasole, il verde dalla malachite o dal verderame, il giallo dallo zafferano e il bianco si otteneva con l’ossido di piombo.

Erano i farmacisti (gli speziali) a comprare le materie prime e a mescolarli con albume d’uovo o gomma arabica. Non bisogna quindi stupirsi che i pittori appartenessero all’Arte degli Speziali, patrono S. Michele con la sua bilancia.

 

I cantieri internazionali

Ci sono poi momenti storici particolari, in cui l’attività delle botteghe sembra esplodere per l’apertura di un grande cantiere. A Pavia Galeazzo II costruì il castello visconteo, chiamando a raccolta decoratori da tutte le corti del nord Italia. A Milano nel 1386 suo figlio Gian Galeazzo fondò il Duomo, che volle alla maniera delle cattedrali nordiche. Artisti ed architetti dalla Boemia, Germania, Francia, Fiandre affiancarono le maestranze campionesi che da sempre gestivano l’edilizia e la scultura in Lombardia. Fu come una tempesta di meteore, una notte di S. Lorenzo in campo artistico: di alcuni conosciamo il nome, come l’architetto Anechino (Anex) di Alemagna, ma nessuno ha mai saputo chi fosse; di altre personalità più note abbiamo i pagamenti, ma non si è rintracciato il lavoro svolto. Pochi sono i casi documentati, dei quali è rimasto anche il lavoro.

Però a Milano dopo il 1386 molte cose cambiarono in ambiente artistico, soprattutto nelle miniature, arte apparentemente lontana dall’edilizia, ma non così lontana se si tiene conto della pluralità di compiti che svolgeva una bottega.

Per una visione d'insieme degli artisti controlla in questo sito: Dizionario degli artisti viscontei

Link nel WEB:

http://www.univ.trieste.it/~zuglio/all/moggio/miniatura/Copia%20di%20storia_della_miniatura.htm

Sul Theatrum sanitatis della Casanatense: http://www.beato-de-liebana.com/index_sanitatis.html

Ultima modifica:  martedì 30 luglio 2002

mariagrazia.tolfo@rcm.inet.it

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