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Rina Fort

 

Rina Fort,
la belva di via San Gregorio

 di Mauro Colombo

 

Il 1946 stava ormai volgendo al termine e si avvicinava il Natale, il secondo del faticoso dopoguerra italiano. Milano era in piena ricostruzione, un po’ alla volta gli sfollati rientravano in città e nuove abitazioni sorgevano per dare un nuovo tetto a chi, solo pochi anni prima, aveva perso tutto.

La città era ancora insanguinata da omicidi politici, e la malavita, equipaggiata con armi di facile reperibilità, spesso riempiva le cronache dei giornali con racconti tipo America anni trenta.

Ma anche notizie positive rincuoravano i milanesi: la Scala era stata restaurata e riaperta, ed Enrico De Nicola aveva inaugurato la Nuova Fiera Campionaria. Le elezioni amministrative erano state vinte dai Socialisti, e sindaco era stato confermato Antonio Greppi.

 

La strage

In questo contesto di transizione e irrequietezza, il 30 novembre 1946, l’ultimo sabato prima dell’avvento natalizio, poco dopo le otto di una mattinata fredda e umida, la commessa del negozio di stoffe e cascami di proprietà di tale Giuseppe Ricciardi, bussava invano alla porta dell’abitazione di quest’ultimo, in via San Gregorio al numero 40.

Lo scopo della sua visita era quello di farsi consegnare dalla moglie del titolare, quest’ultimo da alcuni giorni fuori Milano, le chiavi del negozio, per poter aprire come tutte le mattine.

Non ottenendo risposta, si permise di spingere la porta socchiusa, e chiamando a gran voce la signora, si introdusse rispettosa nell’appartamento avvolto dalla penombra.

La commessa ci mise poco a vedere in terra, in una pozza di sangue, uno dei figlioletti del Ricciardi, e poco distante, riversa sul pavimento in senso contrario a quello del piccolo, la signora Ricciardi, Franca Pappalardo. Catapultata in un film dell’orrore, la poveretta corse in cortile e poi in strada cercando aiuto a gran voce.

Arrivarono prima i giornalisti e i fotografi che la polizia. I giornali del pomeriggio poterono così uscire con articoli a quattro colonne e fotografie dei cadaveri.

Accorsi, gli uomini della questura, dopo aver isolato dapprima lo stabile e poi l’intera via, trovarono nell’appartamento altri due piccoli cadaveri: gli altri figli del Ricciardi.

In totale, l’assassino o gli assassini avevano brutalmente ucciso, quasi sicuramente con una spranga in ferro dagli spigoli accentuati, la moglie del Ricciardi, Giovannino di 7 anni, Giuseppina di 5 e Antoniuccio da poco svezzato.

Il Nuovo Corriere della Sera del 1° dicembre 1946, a pagina due, titolò in grassetto: “Massacrati in via San Gregorio una madre coi tre figliuoletti”. Dall’articolo si apprende che la scoperta venne fatta, come detto, da Pina Somaschini, impiegata presso il negozio del marito della vittima. Il cronista riporta un inquietante indizio: oltre ad essere spariti due assegni, sul pavimento era stata trovata una fotografia stracciata dei coniugi Ricciardi immortalati il giorno della nozze. Subito venne avanzata l’ipotesi di un delitto a scopo passionale.

 

Le indagini

Il fatto si era svolto la sera precedente, con buona approssimazione un’ora dopo la cena. Le vittime infatti giacevano in pozze di sangue, materia cerebrale e tracce di vomito, segno di un’iniziata digestione. Il portiere dello stabile dichiarò che quella sera aveva chiuso il cancello alle ore 21 in punto (come previsto dal sindacato dei portieri), ma che tuttavia la serratura mancava da alcuni giorni per riparazioni. Chiunque poteva, in poche parole, entrare nel cortile indisturbato.

Il verbale del primo sopralluogo della Polizia descrive un piccolo appartamento: “con sala da pranzo di circa 3 metri x 3 e mezzo, con divano con due cuscini e una penna stilografica appoggiata; letto matrimoniale in stato di non uso per la notte precedente; al muro immagine di Santa Rosalia, e statuetta della Madonna con lampadina”.

Il contesto dell’efferato omicidio era quello di una famiglia certamente non ricca, che si guadagnava da vivere con un’attività commerciale sempre sull’orlo della crisi.

Gli inquirenti avevano in mano pochi elementi, ma di una cosa erano certi: l’assassino era un conoscente della vittima, dato che questa gli aveva aperto e gli aveva pure offerto un liquore. Anzi, gli assassini dovevano essere due, visto che i bicchierini sporchi erano tre. L’efferatezza del delitto convinse il magistrato che non poteva trattarsi di una semplice rapina: innanzitutto perchè nel quartiere tutti conoscevano i Ricciardi che certo non apparivano dei signori, ma soprattutto perchè qualunque rapinatore, anche se sorpreso durante la sua incursione, avrebbe quantomeno risparmiato il più piccolo dei figli, che mai avrebbe potuto testimoniare data la tenera età. L’uccisione di tutti e quattro gli occupanti dell’appartamento doveva essere una punizione, una vendetta contro il Ricciardi.

Un fatto importantissimo fu però giudicato questo: la donna, prima di essere ammazzata, aveva strenuamente lottato contro chi le voleva togliere la vita, e stretta nel pugno chiuso, irrigiditosi dopo la morte, fu trovata una ciocca di capelli lunghi, neri, sicuramente femminili.

 

I protagonisti

Come detto, Giuseppe Ricciardi non aveva potuto fare nulla per difendere la famiglia. Infatti era da qualche giorno fuori città: si trovava a Prato, dove stava concludendo alcuni acquisti di stoffe per rifornire il proprio negozio. Le indagine iniziarono proprio da lui, per sapere esattamente chi fosse questo individuo.

Il Ricciardi, dunque, aveva aperto l’attività durante la guerra, dopo essere scappato dalla sua Catania occupata dagli Americani. Si era piazzato nella via San Gregorio, una delle vie popolari sorte con l’abbattimento del Lazzaretto. Il quartiere era costellato da piccole attività e botteghe, quasi tutte di immigrati provenienti dal Sud Italia.

Inizialmente era salito al Nord da solo, poi, sistematosi, si era fatto raggiungere dalla moglie. Ma, forse per problemi economici, o forse perché la moglie non era riuscita ad adattarsi al clima di Milano, l’aveva ben presto rispedita a Catania.

Le voci del quartiere dicevano che lui, il catanese, senza la moglie appariva più allegro e sempre circondato da donnine più o meno rispettabili. Aveva addirittura intrecciato una storia sentimentale con una sua commessa. Ma la moglie, avvertita da compaesani anche loro emigrati a Milano (le avevano scritto di venire a tenere sotto controllo l’ardore dell’amato sposo, di spirito troppo focoso), aveva preso armi bagagli e  figli, ed era tornata nell’appartamento di via San Gregorio. Il Ricciardi era stato così costretto a interrompere bruscamente la sua relazione extraconiugale con la commessa, e aveva pensato bene anche di licenziarla, per tacitare ogni possibile futuro sospetto della signora Franca.

Poi tutto era tornato alla normalità: la coppia aveva avuto un altro figlio, ed anzi adesso ne aspettava un quarto. Era stata assunta una nuova commessa e il negozio andava avanti come prima, con più bassi che alti.

Grazie alle voci raccolte tra i negozianti e i vicini di casa, le indagini prendevano dunque un’ulteriore svolta: bisognava rintracciare e ascoltare questa ex commessa ed ex amante. Il suo nome era Caterina Fort, per tutti Rina.

La Polizia la cercò subito a casa, in via Mauro Macchi all’89, poi presso il suo nuovo impiego, una pasticceria di via Settala 43. Fu arrestata proprio mentre faceva colazione in un bar di fronte al negozio, caricata su una jeep della Celere e condotta in gran fretta presso gli uffici della Questura.

L’interrogatorio vero e proprio cominciò il pomeriggio del 30 novembre, a neanche 24 ore dall’omicidio.

Ammise subito di aver lavorato in passato per Pippo Riccirdi, ma che oramai non lo frequentava più e non sapeva neppure dove si trovasse.

Dell’omicidio, ovviamente, era del tutto all’oscuro. In ogni caso la condussero il 2 dicembre sulla scena del delitto, poi, davanti alla sua indifferenza, fu riportata in Questura, dove iniziò un lunghissimo e pesantissimo interrogatorio. Raccontò solo, inizialmente, di essere stata l’amante del Ricciardi, quando questi era solo a Milano. Avevano anche convissuto, a partire dal settembre 1945. Poi salita la moglie, tutto era terminato.

Ma chi era Caterina Fort? Era nata nel 1915 a Budoia, in provincia di Udine, si era poi trasferita a Milano per lavorare, prima come domestica, poi come commessa di negozi. Risultava sposata con un certo De Benedetti, ma questi era da tempo ricoverato in un manicomio. Era sifilitica e psicopatica, e quella col Ricciardi non era stata la prima relazione che intratteneva con uomini sposati.

 

I riscontri

L’interrogatorio fu condotto dal commissario dott. Di Serafino, e durò diciassette ore filate. Secondo quanto la Fort raccontò poi al suo avvocato difensore, mentre le venivano poste le domande un agente continuava a schiaffeggiarla, mentre un altro spesso la sferzava a manganellate.

Alla fine, stremata ed affamata, umiliata e minacciata (“Ti facciamo fucilare”), si decise a confessare il suo orribile gesto. Ma fu una confessione parziale, dove il suo ruolo si riduceva a complice, con l’incarico marginale di accompagnare l’assassino fino alla casa della vittima, e di convincere la signora Franca ad aprire la porta. Il killer, secondo il suo racconto, era un non meglio precisato cugino del Ricciardi. Tutto il piano del resto era stato organizzato dal Ricciardi, per liberarsi della moglie o comunque per spaventarla e farla tornare in Sicilia. Ed anche, o forse soprattutto, per far credere a certi creditori che era stato rapinato di tutto quello che aveva, e di non poterli pagare per colpa di un destino infame.

Nel frattempo anche Pippo Ricciardi venne arrestato e trattenuto, e la sua posizione (compreso il viaggio a Prato) attentamente vagliata.

Gli inquirenti però non credevano ad una sola parola della donna, convinti che avesse fatto tutto da sola. Così il Nuovo Corriere della Sera del 4 dicembre: “Caterina Fort agì da sola ma tergiversa e si contraddice”.

La vera svolta la si ebbe il giorno dopo. I milanesi appresero la notizia leggendo i giornali. Il solito Nuovo corriere della sera del 5 dicembre titolò a caratteri cubitali: “Li ho ammazzati tutti io! – Caterina Fort ha firmato il verbale di confessione”.

Il quotidiano scriveva: “La Questura comunica: Le indagini relative al delitto di via San Gregorio hanno finora accertato in modo irrefutabile la responsabilità della Rina Fort, a cui carico, oltre alle ripetute e dettagliate, seppur finora non complete confessioni, stanno risultanze di fatti inconfutabili. Tali indagini proseguono per l’accertamento di altre responsabilità, finora non sufficientemente chiarite”. Secondo l’articolista ...”Sì, li ho ammazzati tutti io! – Ha gridato finalmente la belva, dopo oltre 100 ore di interrogatori e confronti. ... Le sue deposizioni sono state messe a verbale, e dopo alcuni minuti di esitazione, ha firmato......Ma non ha ritrattato i particolari in precedenza forniti per far credere alla presenza di un uomo e poi di un secondo, sopraggiunto all’ultimo momento”.

La versione della Fort coinvolgeva sicuramente un complice, di cui però lei non conosceva esattamente le generalità. Insisteva nel dire che quella maledetta sera si era recata nell’appartamento della strage assieme ad un parente (o forse solo amico) di Pippo Ricciardi, un siciliano di nome Carmelo. Ma l’architetto di tutto era proprio il Ricciardi.

Secondo la sua deposizione, gli affari al negozio andavano parecchio male, e i creditori non intendevano più aspettare. Allora il Ricciardi aveva convinto lei e un certo Carmelo ad andare nell’appartamento per inscenare una rapina, e lui, nel frattempo, si sarebbe tenuto per un po’ lontano da Milano, giusto per crearsi un alibi, con la scusa di certi affari urgenti.

Ma evidentemente le cose erano andate diversamente, forse la situazione era sfuggita di mano ai due rapinatori improvvisati, e davanti alle urla delle vittime e alla loro violenta reazione, i due avevano esagerato con i colpi, finendo con l’ammazzare l’intera famiglia.

Naturalmente, messo davanti alla storia imbastita dalla sua ex amante, Pippo negò tutto decisamente. Quella era una pazza isterica, aveva avuto tantissimi problemi anche psicologici prima che lui la incontrasse. Era stata seviziata dal primo marito, era venuta in città per fare la cameriera ma era stata oggetto di ricatti sessuali dal suo datore di lavoro. Secondo il Ricciardi, la Fort non aveva sopportato di essere stata scaricata anche da lui (che le era apparso come l’ultima salvezza), e si era voluta tremendamente vendicare sulla moglie e i figli.

Nel frattempo, la Polizia iniziò anche ad indagare nel quartiere e nelle amicizie di Pippo Ricciardi, per scoprire chi mai fosse il “famoso” Carmelo, che la Fort non conosceva se non di vista e di cui, comunque, non sapeva dare esatte generalità.

Ne vennero scovati cinque di Carmelo, amici o parenti del vedovo. Ma solo uno, alla fine, fu identificato come il complice della Fort: Carmelo Zappulla, all’anagrafe Giuseppe.

E così, al termine delle indagini condotte dalla Questura di Milano, a  San Vittore entrarono la Fort e Carmelo Zappulla, quali esecutori materiali, e Pippo Ricciardi, quale mandante del delitto.

Il giorno 10 dicembre il magistrato autorizzò finalmente i funerali delle quattro vittime, che si svolsero il 14 dicembre alle due del pomeriggio, nella chiesa di San Gioachino. Alle esequie parteciparono alcune autorità e anche il Sindaco. Successivamente alla funzione, le bare furono trasportate alla Stazione Centrale e caricate su un treno diretto a Catania, dove vennero infine inumate.

Il giorno 15 il Nuovo Corriere della Sera pubblicò l’ultimo articolo sulla vicenda, riportando la cronaca del funerale.

Dovette passare un anno e mezzo, prima che Zappulla e Ricciardi venissero scarcerati perchè totalmente estranei al delitto di via San Gregorio. L’unica assassina che veniva rinviata a giudizio era, dopo l’espletamento delle dovute indagini, Caterina Fort.

 

Il Processo

La mattina del 10 gennaio 1950 davanti alla corte d’Assise di Milano ebbe inizio il processo contro Caternia Fort, accusata di strage. Suo difensore era l’avvocato Antonio Marsico, che dall’esperienza pre-processuale trasse un interessante libretto che ebbe una certa fortuna, negli ambienti giudiziari, sulla fine degli anni Quaranta e gli inizi degli anni Cinquanta.

Preliminarmente fu affrontato il problema se accettare o meno la costituzione parte civile del Ricciardi, che voleva ottenere il risarcimento per la perdita dei suoi tre figli. Dal momento che l’istruttoria lo aveva scagionato, lo aveva cioè ritenuto estraneo a quel disegno criminoso sul quale puntava la difesa della Fort, fu accettata la sua costituzione, pur tra le proteste dell’avvocato della Fort e del pubblico assiepato dentro e fuori il Palazzo di Giustizia, che riteneva quell’uomo spregevole e indegno padre di famiglia.

La prima domanda che venne rivolta a Caterina Fort fu se avesse o meno commesso i fatti di cui era imputata. Questa iniziò a raccontare ai giudici la storia di via San Gregorio: quella maledetta sera, la sera del 29 novembre, dopo aver preso accordi con Pippo per inscenare la rapina, era uscita, assieme ad una amica, dal pasticceria dove aveva trovato lavoro come commessa intorno alle 18 e 30. Rincasando, era stata affiancata dal fantomatico Carmelo in via Felice Casati, e da quello aveva accettato una sigaretta.

La Fort attribuiva a quella strana sigaretta (da lei definita “drogata”) il senso di stordimento che la avvolse, tanto violento da seguire imbambolata Carmelo, che la condusse, naturalmente, in via San Gregorio 40, dove erano accadute cose terribili, delle quali però lei non aveva memoria, se non fotogrammi sparpagliati e sconnessi.

Ricordava solo di aver colpito con tutte le sue forze la signora Franca, poi solo rumori e colpi dappertutto. Le pareva che nelle stanze vi fosse un altro uomo, forse un amico di Carmelo, ma non sapeva neppure descrivere questo presunto complice.

Era certa solo che ad un tratto si era ritrovata a terra semisvenuta, e che poi Carmelo l’aveva rianimata porgendole un bicchiere.

Poi se ne erano andati giù per le scale, lei si era nascosta per qualche tempo nella cantina dello stabile, ed infine, da sola, si era diretta alla propria abitazione. Lì, aveva avuto persino voglia di cenare, cucinando due uova al tegamino.

Subito il Presidente le contestò le discrepanze tra il racconto fatto in aula, e la deposizione che all’epoca aveva rilasciato presso gli uffici della Questura. Lei attribuì il fatto all’essere stata maltrattata dalla Polizia, di aver confessato dopo un interrogatorio durato quasi venti ore, in condizioni disumane e senza poter tenere testa ai violenti polizziotti.

Il difensore della Fort cercò di fare del suo meglio durante tutto il processo. Si tenga tuttavia presente che all’epoca dei fatti la partecipazione dell’avvocato durante le indagini preliminari era praticamente azzerata. Sotto la vigenza dell’art. 124 del codice di procedura penale (promulgato e pensato in epoca mussoliniana) l’istruttoria era infatti segreta, e ciò significava per l’avvocato difensore non poter assistere all’interrogatorio del sospettato, e neppure ad eventuali perizie, ricognizioni, confronti.

In ogni modo, pur conscio delle difficoltà, l’avvocato Marsico puntava a dimostrare che la Fort non era stata sola in quelle stanze maledette. Voleva provare che altri era quella sera con lei, forse proprio un complice affiancatole dal Ricciardi, secondo i suoi piani criminosi. E per fare ciò mise in luce un fatto fino ad allora abilmente schivato dall’accusa. Durante il sopralluogo nei locali di San Gregorio, era stata rinvenuta una penna stilografica, che si era appurato non appartenere nè alla signora Ricciardi, nè al Ricciardi, nè, ovviamente, alla Fort. Quindi doveva essere di qualcuno che quella sera si era introdotto nell’appartamento assieme alla Fort, e che nel parapiglia l’aveva senz’altro smarrita.

Ma l’accusa sostenne che quella penna poteva benissimo essere caduta ad uno dei tanti (troppi) giornalisti e curiosi che si precipitarono nel locale la mattina dopo, prima che le forze dell’ordine potessero isolare e preservare la scena del delitto.

Altri testi furono ascoltati, per meglio chiarire il quadro della vicenda, ma non emersero nuovi o interessanti risvolti. Venne ascoltato il signor Vitali, che era stato il primo datore di lavoro della Fort, prima che questa finisse nelle braccia del Ricciardi. Si riuscì solo ad appurare che era stata anche la sua amante, il che non l’aiutò certo ad apparire sotto una luce migliore davanti ai giudici popolari.

Anche un conoscente della Fort, che lei sosteneva di aver incontrato la sera che andava a braccetto col Carmelo a compiere la mattanza, disse di averla sì incontrata, ma da sola, senza galanti accompagnatori. Si cercò poi di dimostrare che quest’ultima testimonianza, resa peraltro da un ragazzo all’epoca dei fatti minorenne, era stata forse “pilotata” dal padre, che non voleva rogne con la legge.

Insomma, nessuno pareva credere all’esistenza di complice: la Fort era veramente sola quella sera? Per la giustizia italiana la risposta era sì!

Ad avvalorare questa tesi, intervenne l’avvocato della vedova di quel Carmelo Zappulla, che, seppur innocente, era stato per mesi a San Vittore, e poi era morto poco dopo la scarcerazione.

Il difensore volle ripercorrerne il calvario, a partire dalla sera in cui, era la vigilia del Natale, venne portato in questura proprio a causa del suo nome, Carmelo, lo stesso che la Fort aveva attribuito al complice della sera del delitto.

Il grottesco della storia fu che Carmelo, messo in una stanza con altri personaggi (tra cui due poliziotti in borghese), non venne neppure riconosciuto dalla Fort come il suo complice: alla richiesta di indicare tra i presenti il complice Carmelo, lei additò con convinzione niente meno che uno dei poliziotti!

Poi però, portata in carcere e “informata” dalle voci delle compagne che il riconoscimento era andato male, chiese di poter ritrattare e ritentare (manco fosse una lotteria) il confronto all’americana. Questa volta indicò il Carmelo giusto, lo Zappulla appunto, che per quello scherzetto si era fatto 18 mesi di galera, prima di essere scarcerato con tante scuse.

La perizia psichiatrica svolta sulla Fort ad opera del professor Saporito aveva tolto di mezzo ogni dubbio: era sana di mente, e di una intelligenza superiore alla media. E dalle risultanze dell’istruttoria, era sola quella sera.

La difesa tuttavia voleva allora una risposta: di chi era il mazzo di chiavi e la penna stilografica rinvenuti nell’appartamento? Per forza dovevano essere di un complice, visto che non erano di Caterina Fort, nè del Ricciardi.

Tuttavia non vi fu mai data una risposta alla domanda.

La sentenza emessa dalla corte d’assise di Milano fu infatti la seguente: Canterina Fort era colpevole di omicidio volontario nei confronti della signora Franca e dei piccoli Giovanni, Giuseppina, Antonio, e di simulazione di reato per quanto riguardava la rapina e di calunnia a danno di Giuseppe “Carmelo” Zappulla. La condanna fu l’ergastolo con isolamento diurno per sei mesi, interdizione perpetua dai pubblici uffici e interdizione legale. In separato giudizio civile sarebbero poi state valutate le spese per i risarcimento danni.

La condannata rimase poco a San Vittore: presto fu trasferita nel carcere di Perugia.

Nel 1951 il processo venne nuovamente celebrato, dopo apposito ricorso per Cassazione, davanti alla Corte d’Assise di Bologna.

Si riproposero la audizioni di testimoni a favore della Fort, e si riavanzò l’accusa che la confessione della Fort, quella avvenuta in questura, fu il frutto di un interrogatorio disumano, lunghissimo, senza rispetto per la sua dignità; una situazione, insomma, che avrebbe spinto chiunque a confessare cose non commesse.

L’unico testimone che forse avrebbe potuto scagionare la “belva” era quel ragazzo che l’aveva incontrata la sera dell’omicidio, il Terzaghi. Ma ancora una volta confermò, pur tra molti “non ricordo, è passato troppo tempo”, che la Fort era sola, e che a lui, per quel che gli era parso, nessun uomo le camminava a fianco. Inutili furono le grida della Fort: “Ero accompagnata!!! E tu lo sai!”. Il teste fu invitato ad accomodarsi.

Fu ascoltato di nuovo il Riccirdi, ma la sua versione non si scostò da quella già sentita a Milano. Mai aveva mandato la Fort ad ammazzarle moglie e figli, e lui in quei giorni a Prato c’era andato per affari, non per un alibi o cose del genere.

Insomma, il processo di Bologna era semplicemente un “dejà vu”. L’unica scossa fu data dalla lamentela avanzata alla Camera dei Deputati dal Calamandrei, a causa dell’interrogatorio svoltosi in Questura. Ne seguì anche un’inchiesta e la solita polemica politica.

Il 9 aprile 1952 fu letta la condanna: ergastolo.

Caterina tornò nella casa di reclusione di Perugia, dalla quale scrisse molte lettere al suo avvocato. Tra le tante frasi, forse la più inquietante fu: “Non è la quantità della pena che mi spaventa. C’è una parte del delitto che non ho commesso e non voglio”.

 

Epilogo

Il ricorso in Cassazione venne preso in esame il 25 novembre 1953. Purtroppo per la Fort, non vi fu alcun colpo di scena, e l’ergastolo, ancora una volta, venne confermato.

Rimase a Perugia fino al 1960, poi per motivi di salute, venne mandata a Trani, dal clima più mite.

Poi un’altro cambio di cella, questa volta a Firenze.

Il 12 febbraio 1975 (dopo quasi trent’anni di carcere) ottenne la Grazia per buona condotta dal Presidente della Repubblica.

Pochi mesi prima era morto Pippo Ricciardi.

Caterina Fort morì a Firenze, d’infarto, nel 1988. La sua ostinata ed ultima versione fu sempre quella di aver agito sotto la spinta materiale e morale di un complice del Ricciardi: Carmelo.

Ma quel Carmelo, per la storia e la giustizia italiana, non era mai esistito.

 

Bibliografia

Buzzati, D., Cronache nere, a cura di O. Del Buono, 1989;

Cecchini L., Dieci grandi processi di amore e morte, 1965;

De Matteo G., Contro Caterina Fort-testo stenografico della requisitoria, 1950;

Del Buono O., Boatti G., Rina Fort: due uova dopo la strage, 1989;

Fasanotti P.M., Gandus V., Mambo italiano, 2000;

Marsico A., Il delitto di Rina Fort, gli insegnamenti del suo processo, 1949;

 

Si leggano inoltre, per un buon resoconto della cronaca di quei concitati giorni, le seconde pagine del “Nuovo Corriere della Sera”, dal 1° dicembre al 14 dicembre 1946.

 

Ultima modifica: lunedì 5 gennaio 2004

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