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Atlante milanese  

 

 La laicizzazione dell'area sacra in età comunale

Sommario
 
Il broletto dei consoli: il consolato nel broletto arcivescovile - la   domus  solariata - L'amministrazione al Broletto vecchio
La Credenza di S. Ambrogio e la Motta  
L'isolato del Rebecchino
L’area delle cattedrali come zona mercantile 
Il Broletto Nuovo
Bibliografia


Il broletto dei consoli

Il consolato nel broletto arcivescovile
L’esordio dell’organizzazione politica del comune vede i poteri articolati in tre organi: il consolato, un consiglio ristretto detto Credenza e l’assemblea generale o parlamento detto arengo, che non costituisce all’inizio né il superamento dell’autorità e della giurisdizione vescovile, né rappresenta una forma di democrazia popolare in quanto è guidato dai maggiorenti della città. 
Nel 1097 un atto del chierico Eriberto viene stipulato “in consulatu civium, propre ecclesiam Sancte Marie”. E’ un edificio modesto, tanto che lo si dice anche casella consulariae;  questa prima "casetta" per la riunione dei consoli era di proprietà dell'arcivescovo,  che manteneva il diritto di presiedere e sciogliere il consiglio pubblico.  
Col Concordato di Worms del 1122 l’imperatore Enrico V rinunciava a ogni interferenza nella scelta, nella nomina e nella collocazione dei vescovi. A partire da questo momento l’organizzazione socio-politica intorno all’arcivescovo iniziò a sfaldarsi in seguito al venir meno dell’ipoteca imperiale sul ministero episcopale e al conseguente allentamento dei vincoli di carattere militare della feudalità verso l’arcivescovo, che manteneva però importanti prerogative, tra cui il potere giudiziario.
Nella gestione del comune la preponderanza numerica dei ceti feudali lasciò a poco a poco il posto ai tecnici del potere, ossia quei consoli che furono iudices, notarii, causidici poi consules iustitiae, cui competeva il disbrigo degli affari interni e l’amministrazione ordinaria della giustizia nella città e nel contado milanese. Era la fascia più aperta ad accogliere nelle professioni e nell’amministrazione i ceti emergenti, in una specie di cursus honorum che aveva alla base i servitores, con funzione analoga a quella dei cancellieri nel tribunale per la inquisitio e l’istruzione delle pratiche, e i nuntii e missi, ufficiali esecutivi delle sentenze, e per la professione notarile i notarii communis a capo della cancelleria del comune.
Ma furono i consules communis a portare le più gravi responsabilità politiche: essi curavano gli affari esterni, stipulavano alleanze e paci, gestivano beni e diritti pubblici, esercitavano il potere giudiziario nelle cause miste e di appello, servendosi talvolta di delegati, controllavano le entrate ordinarie e il prelievo fiscale attraverso l’ufficio del camerarius
L'elezione dei consoli veniva fatta dall’arengo su designazione dei consoli uscenti fra membri appartenenti alla classe dei maggiorenti. Nel 1130 i consoli milanesi sono saliti a 23, suddivisi nei tre ordini dei capitanei (10), valvassori (7) e dei cives (5), mentre di uno non si conosce l’appartenenza. La carica di console inizia a durare un anno, a partire dalla Festa della Purificazione, il 2 febbraio, quando si faceva il corteo della Madonna Idaea da S. Maria Beltrade a S. Maria Maggiore.

La domus solariata   
Una sentenza del 10 novembre 1138 è emessa nella domus solariata consulatus civium, ossia nella casetta dei consoli che era stata ampliata con portici e sopralzata (solariata) di un piano, al quale si accedeva con una scalinata esterna. A partire dal 1145 questo modesto edificio ebbe una propria recinzione citata come broiletum consulariae.
Il numero esiguo di consoli per compiti così vasti obbligò col tempo a una separazione di funzioni all’interno dell’organismo consolare. Nel 1153 si ebbe lo sdoppiamento del consolato fra consoli del comune e consoli di giustizia, ma siccome era ancora l’arcivescovo a detenere il potere giudiziario, questa magistratura aveva gravi problemi di legittimazione. 
Il comune consolare corrispondeva all’affermazione dei gruppi e dei ceti che avevano più diritti, privilegi e poteri da consociare, ma che erano più vicini alla matrice feudale dalla quale derivavano. Al consiglio non si accedeva per diritto di nascita né per investitura feudale, ma come titolari di una quota dei diritti di cui  il comune era entrato in possesso. Quella rappresentata dai consoli fu però un’oligarchia capace di svolgere una politica d’interesse più generale a quello ristretto del loro ceto. Furono essi a guidare l’espansione del comune nel contado e a difendere le autonomie contro Federico Barbarossa.

L'amministrazione al Broletto Vecchio 
Nel settembre 1155 cominciarono ad addensarsi le nubi - e che nubi! - sul Comune milanese: Federico Barbarossa emanò un editto col quale bandiva i Milanesi e li privava della zecca, del teloneo (tassa su trasporti e commerci) e di ogni altra regalia, in favore della fedele Cremona. I Milanesi venivano definiti “empi distruttori” di Como e di Lodi e ricevevano una prima “lezione” nell’agosto 1158.
Nel gennaio 1159, onde evitare il ripetersi di ribellioni, i messi imperiali vennero a Milano per eleggere il podestà, ma una sommossa li obbligò a fuggire. Si crearono i consules negotiatorum nello stesso anno, attivi tanto all’interno che all’“estero”: si occupavano dell’apertura dei mercati alle città della Lega, dell’uso delle vie d’acqua, della tutela dei mercanti.
Bisognerà attendere il 1186 perché a Milano si accetti la nomina come podestà con ius gladii del piacentino Uberto Visconti, che doveva sostituire in blocco i consoli del Comune. La nomina, fatta fra giusperiti estranei all’ambiente milanese, era valida un solo anno e c’era un collegio di cittadini, il Consiglio minore, che vigilava sul suo operato, trattenendo una parte del suo stipendio a titolo di cauzione per eventuali danni. Il podestà era quindi un funzionario investito del potere giudiziario, che esercitava affiancato da un corpo di officiales, che si configuravano una vera e propria burocrazia. L’esperimento podestarile non convinse pienamente i Milanesi, che fino al 1214 ritornarono spesso alla magistratura consolare. 
Nel 1188 venne ultimato il palazzo della Credenza, che probabilmente sostituiva l'antica domus solariata distrutta dalle truppe imperiali. Ma si era pensato in piccolo e dopo neppure un decennio l'esplosione della burocrazia comunale impose l'aggiunta di un'ala accanto alla Credenza, terminata nel 1196. A questi due blocchi di edifici se ne aggiunse un terzo per i consoli di giustizia nel 1208, nel quale trovò posto dal 1213 anche il consolato delle fagìe (pascoli), ossia la magistratura di carattere giudiziario per il territorio fuori dalle mura. Milano era stata divisa in sestieri che si prolungavano in settori extracomunali di sei miglia lungo le strade che si dipartivano dalle porte.
A questo punto, secondo la descrizione che ne fa Galvano Fiamma agli inizi del Trecento, il Broletto Vecchio era costituito da tre palazzi posti in modo tale da formare un quadrilatero con la chiesa di S. Maria Maggiore. A oriente si apriva la porta verso il Verziere, a occidente la porta verso l’arengo, dove si teneva il foro vestimentario. Nel palazzo della Credenza abitava il podestà con la sua famiglia; a fianco della chiesa era il collegio dei giudici e sedes tabelionum.
Il fatto che tutti questi edifici comunali fossero sorti nel broletto arcivescovile e che si trovassero uniti alla cattedrale spinse i rettori del comune a reperire un'area nuova, connotata come laica, dove trasferire le magistrature comunali. Si avviò quindi la costruzione del Broletto Nuovo, trascurando gli edifici ancora funzionanti del Broletto Vecchio. Nel 1251 il podestà Girardo Rangone faceva presente che la Curia del Comune minacciava di crollare se i lavori di sistemazione iniziati non si fossero conclusi a breve; il guaio era che le casse comunali erano drammaticamente esauste.

 
La Credenza di S. Ambrogio e la Motta

Dal 1194, col Trattato di Vercelli, Milano aveva acquistato la libertà dei traffici su tutte le vie d’acqua e di terra nella pianura lombarda; due anni dopo gli accordi con Como assicurarono ai Milanesi i valichi alpini per l’esportazione al nord dei prodotti agricoli e artigianali; nel 1197 il Trattato di Lodi garantiva i traffici verso l’Adriatico e il Trattato di Monferrato l’accesso a Genova.
La classe artigiana e mercantile si era a tal punto rinforzata da necessitare nel 1197 l’acquisto della Torre dei Bottazzi, all’angolo tra la contrada dei Mercanti d’oro e quella dei Berrettai, dove mettere la sede della Credenza di S. Ambrogio. La Credenza era  conosciuta come espressione del popolo grasso, ossia mercantile, ma di fatto era guidata dalla classe capitaneale: il suo capo era detto “Capitano del popolo”, carica ricoperta inizialmente da Dando Marcellino,  podestà di Genova. Gli artigiani che poi entrarono a farne parte nelle loro corporazioni di arti e mestieri erano inizialmente considerati solo come “massa di manovra”[1]. L’altra grossa organizzazione era della Motta, che riuniva le discendenze popolari più ricche e potenti; la sua sede non è ancora stata identificata. 
Nel 1201 si designò un podestà per ognuna delle due classi: Raniero Cotta per la Motta, Drudo Marcellino per la Credenza. 
La posizione assunta dalla Credenza spinse la Motta a creare la Società dei Gagliardi, alla quale la Credenza oppose la Società dei Forti, due eserciti che scesero in campo in città nel 1205. L’ultima a sorgere fu la Società dei Coronati: 600 nobili che nel 1240 militavano al comando di Ludovico da Lampugnano al servizio di Gregorio da Montelongo, rettore del comune insieme al francescano Leone da Perego. I due avevano assunto una specie di dittatura al di sopra delle magistrature comunali pe fronteggiare l’attacco di Federico II di Svevia.


L'isolato del Rebecchino

L’isolato a sud di S. Tecla, poi noto col nome di Rebecchino, era stato abbandonato a partire dal VI secolo. Sopra le macerie erano sorte strutture in legno nel VII secolo, che avevano lasciato il posto a orti o semplici prati incolti fino alla fine del X secolo, quando l’isolato tornò ad essere costruito. Grazie alle indagini archeologiche svolte in occasione degli scavi per la MM3, si è potuto rilevare che a Milano era continuata la tradizione edilizia in legno.
Fra IX e X secolo aumenta gradualmente la densità abitativa. Il modello longobardo delle case allineate lungo le strade con orti al centro degli isolati non sembra più applicabile. La metà dell’XI secolo, dopo le guerre civili per l’allentamento dei vincoli vassallatici medievali, segna l’inizio del periodo aureo della storia milanese. Il valore delle terre e delle case in città aumenta in modo esponenziale; in città è un fiorire di costruzioni, soprattutto nelle zone eleganti, il che dimostra l’aumento della popolazione e la ripresa della vita economica. E’ il periodo in cui s’iniziano a costruire case-torri private, che sfruttano al massimo il valore del terreno, ma le guerre successive non ne hanno salvato nemmeno una. Oltre alla casa-torre dei Bottazzi, sede della Credenza di S. Ambrogio, conosciamo quella dei Feroldi, vicino al monastero del Lentasio, che fu venduta al Comune per far posto al Broletto Nuovo. 
All’inizio del XII secolo Milano viene descritta da Landolfo il Giovane come una città ricca, dove la gente si veste con pellicce di vaio, di griso, di martore, usa preziosi ornamenti e si nutre con cibi squisiti.
Come detto, la maggior parte delle case, fino al XIII secolo, mantenne però molte parti in legno, perché si potevano smontare e portar via. E’ quanto successe in occasione dell’esilio imposto ai milanesi da Federico I, quando si smontarono pareti e tegole per ricostruire le case nei borghi esterni. Non che le case fossero le tipiche case longobarde di legno a un solo piano: avevano pareti in muratura all’esterno ed erano solariate, ossia a due o più piani fuori terra, ma le pareti interne erano in legno recuperabile, secondo la tradizione centro-europea.
Dal XIII secolo le case erano ormai tutte a due o più piani, con altana, dislocate su un perimetro quadrato o rettangolare a portico, con pozzo al centro, magazzini, pollai, stalle, ecc. L’abitazione civile si componeva di alcuni elementi: la camera riscaldata, detta caminata; i balconi dette serrande, la lobia, ossia la ringhiera e la baltresca o altana. Alle case di accedeva attraverso un ingresso principale che dava nell’anditus o portichus, terminante con una pusterla. Tra queste due porte era la zona franca, dove dovevano fermarsi gli ufficiali giudiziari.


L’area delle cattedrali come zona mercantile 

La basilica di S. Tecla con le strade circostantiNel medioevo tutte le funzioni della vita sociale si svolgevano nelle strade, per cui anche i mercati si localizzavano lungo le vie centrali. Intorno alle chiese di S. Maria Maggiore e di S. Tecla s’insediarono a partire dal sec. X delle botteghe, dette banca e stalla, le prime mobili al contrario delle seconde. Tra la fine del XII secolo e l’inizio del XIII l’aspetto mercantile della zona si era rafforzato in seguito allo sviluppo demografico, economico, sociale e commerciale seguito alla Pace di Costanza del 1183.
L’area delle cattedrali consolidò il proprio carattere di cuore della città e punto di aggregazione dei traffici commerciali. La vita della basilica e del clero dipendevano dai mercati che si svolgevano nell’area circostante, di possesso del capitolo e dalla Soprastanzeria.
Dopo il rifacimento di S. Tecla sotto il portico in facciata, il Paradiso, c’era un mercato. Le botteghe e i banchi erano appoggiati alla facciata della basilica. Tra i banchi e i pilastri c’era un piccolo transito al coperto, che separava anche il mercato della polleria e della pescheria minuta. La profondità del Paradiso corrispondeva a quella di due banchi più il transito.
Il Paradiso era un luogo di sepoltura, per cui la nostra sensibilità considera veramente fuori luogo la  commistione fra morte e mercato, che invece era giudicata assolutamente normale nel medioevo. Troviamo la stessa situazione di mercato nel quadriportico di S. Ambrogio o nel cimitero di S. Gabriele, tanto per fare alcuni esempi. Addossate alla facciata di S. Tecla c’erano diverse arche funebri, sotto il pavimento vi erano tombe con sopra lastre di pietra; i banchi si disponevano sopra le tombe e lasciavano libero solo un accesso alla tomba, senza suscitare alcuna perplessità.
Il diritto di esposizione era pagato a carissimo prezzo; le botteghe erano in legno e non misuravano di solito più di due metri. Vi si vendevano per lo più drappi di lana, berrette e calzature, oppure vi si potevano trovare banchi di sarti, ma non mancavano anche le bancarelle alimentari. L’insieme non era molto diverso dalla varietà che si trova oggi nella successione dei negozi in una via o nella disposizione delle bancarelle al mercato, con una maggior specializzazione.
Il coperto di S. Tecla e la Pescheria costituivano due complessi commerciali notevoli, attigui l’uno all’altro e a carattere permanente. La Pescheria si divideva in “pescheria minuta” e “pescheria grossa”. Tra le due pescherie c’erano le Drapperie ospitate in edifici di proprietà comunale. Il passaggio fra le due pescherie, che tagliava in due le drapperie, era detto “stretta dei sonagli”. La pescheria minuta era su terreno di proprietà dei decumani; vendeva gamberi e pesciolini piccoli almeno dal XII sec. La pescheria grossa vendeva pesce di taglia grossa; occupava l’area che un tempo era stata del monastero di S. Maria del Lentasio, drapperie incluse, entrata in possesso del Comune dopo la costruzione del Broletto Nuovo, ma rimasta come parrocchia col titolo del Lentasio.
Insieme alla pescheria minuta c’era il mercato dei polli, precedentemente alloggiato sulla “carrereccia”, vicino alla porta della canonica dei decumani.
Appoggiati al lato meridionale di S. Tecla almeno dal XIV sec. c’erano i banchi dei pellicciai, mercanti di pelli ovine, che ostruivano la contrada che da loro prendeva il nome, stretta tra l’isolato del Rebecchino. I banchi dei vaiari, i mercanti delle più pregiate pellicce di vaio, erano collocati nella contrada che fiancheggiava la pescheria grossa. La via proseguiva con la contrada dei berrettai, dal mercato che vi si teneva.
A nord della basilica, per tutta la sua lunghezza, era appoggiato dal XII secolo il coperto dei Borsinari, noto anche come coperto di S. Tecla, dove si vendevano borse, borsini, cinture e bottoni. La zona absidale di S. Tecla era occupata da bancarelle varie, incluse quelle del pane, di abiti usati (pataria) e per le varie riparazioni. A nord della pescheria grossa c’era la contrada della Frixaria (mercerie), ossia il mercato della passamaneria, dei nastri e delle frange. La contrada aveva botteghe a più piani, munite di portici; fra le sue bancarelle c’erano anche rivendite di formaggi e calzature.
All’interno della recinzione, tra gli edifici religiosi a nord della piazza e il complesso delle cattedrali si era formata una stradina, detta contrada del Mangano, tutta affittata a banchi di vendita, sulla quale si affacciava S. Gabriele o casa dei lettori e l'Albergo della Balestra; poco oltre incontrava a destra la via Catale (Cattedrale?) che passava tra il battistero di S. Stefano e il Duomo.
Dietro la canonica degli ordinari in via Pattari, nella zona detta “còmpito”, c’erano le “beccherie” (macellerie), rimaste nella zona fino alla costruzione del Palazzo del Capitano di Giustizia. La loro presenza suscitò sempre reclami per i miasmi che si levavano dalle carni soprattutto nei mesi estivi, per le ossa che venivano gettate ad ostruire le cantarane (i tombini per la raccolta delle acque reflue) e per le bestie che attraversavano la navata del Duomo ancora nel Cinquecento, con giustificato disappunto dell’arcivescovo Carlo Borromeo.


Il Broletto Nuovo

La città sembrava lanciata verso un’inarrestabile espansione politica ed economica, quando si riaffacciò il pericolo imperiale, impersonato da Federico II. Tra il 1214 e il 1216 era stato redatto da quattordici esperti nominati dal podestà il Libro delle consuetudini, che raggruppava la legislazione comunale. Si formarono gli emendatores statuti, col compito di elaborare le normative, di raccoglierle in libri, di armonizzare fra loro le norme succedutesi nel tempo, di eliminare le contraddizioni. La commissione diverrà in seguito l’Ufficio degli Statuti al Broletto Nuovo e sarà gestita per tradizione dalla famiglia Panigarola, nel palazzo che mantiene le forme del gotico rinascimentale.
E’ in questo clima che nasce il progetto del primo piano regolatore milanese, che tiene soprattutto presente la viabilità. Le vie di terra, difficili da mantenere in efficienza ieri come oggi, erano abbandonate in gran parte a favore delle vie d’acqua. La posizione occupata nel Broletto vecchio era decentrata rispetto agli assi principali romani, ma fino a quel momento questa marginalità era stata irrilevante. Ora si richiede che ci sia un cuore di Milano che ne rioccupi il centro e si sceglie l’antica curia romana, all’incrocio dei due assi viari tra nord e sud.
Nel 1228 il podestà Aliprando Fava di Brescia delibera la costruzione del Nuovo Broletto. E’ un progetto strano, a voler ben guardare, perché ad esempio il palazzo nuovo del comune occupa il centro della carreggiata e la realizzazione del recinto richiede una serie di abbattimenti ed espropri, a volte difficili da realizzare, con una logica che sembra preannunciare tanti futuri piani regolatori.
Palazzo della Ragione Nel 1233 è pronto il Palazzo della Ragione, dove si riunisce il Consiglio; nel 1251 si realizza anche il Palazzo del Podestà e una ventina di anni dopo il Palazzo della Credenza di S. Ambrogio, centro del potere guelfo dei Torriani, noto come palazzo di Napo Torriani. Fino alla presa di potere dei Visconti gli uffici amministrativi e politici di Milano rimasero divisi fra i due Broletti, poi il Broletto vecchio venne trasformato in residenza privata di Ottone e Matteo Visconti. Il primo passo al trasferimento potrebbe esser stato fatto da Ottone, che essendo arcivescovo aveva pieno diritto ad occupare l’antico broletto arcivescovile quando nel 1277 poté finalmente entrare a Milano. Il nipote Matteo, designato a succedergli, occupò inizialmente il palazzo della Credenza al broletto vecchio in qualità di Capitano del popolo, distinguendosi dal palazzo al broletto nuovo, troppo identificato coi Torriani. Nel 1295, anno della morte di Ottone, sappiamo che s’incendiò il vecchio palazzo della Credenza, sul quale i Visconti, acquistando altre case, costruirono la loro nuova dimora.


[1] Gigliola Soldi Rondinini, Dal Comune cittadino alla Signoria: le strutture del potere vrso lo stato moderno (secc. XII-XV), in Saggi di storia e storiografia visconteo-sforzesche, Cappelli, Bologna 1984,  p. 43

Bibliografia
Grillo Paolo , Milano in età comunale (1183-1276). Istituzioni, società, economia, Spoleto, Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo, 2001
Rossetti G., Le istituzioni comunali nel XII secolo, in Atti XI Congresso Internazionale Studi Alto Medioevo, Spoleto 1987 (1989), pp. 83-112
Rota C.M., La via del Còmpito in Milano, in "Città di Milano", giugno 1924, pp. 169-172
Spinelli Marina, Uso dello spazio e vita urbana a Milano tra XII e XIII secolo: l'esempio delle botteghe di piazza Duomo, in Paesaggi urbani dell'Italia padana nei secoli VIII-XIV, Capelli, Bologna 1988, pp. 253-273

 

Ultimo aggiornamento: lunedì 29 luglio 2002
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