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 Il Sestiere di Porta Comasìna

1. Da Giulio Cesare alla fine del III secolo

di Maria Grazia Tolfo

 

Cerchiamo risposte
per poi distruggerle
e immaginare domande migliori

(Rob Brezsny, La Pronoia, Rizzoli 2006, p. 41)

Premesse

Un Sestiere dimezzato

Il Sestiere di Porta ComasinaNel catasto del 1752 il sestiere di Porta Comasina coincideva ormai con le case prospicienti l’asse viario principale e con una limitata rete di intricate viuzze di origine medievale verso il più vasto sestiere di Porta Nuova. La ragione di una così ridotta estensione territoriale va cercata nel fatto che la porzione occidentale del sestiere esterna al Pontaccio venne atterrata per far posto al castello visconteo-sforzesco (o meglio, all’area di rispetto che lo circondava), alla “tenaglia” dei Bastioni spagnoli e infine, in età a noi più vicina, all’arena.

Strade romane a nord di MilanoL’asse viario del sestiere, identificabile nei tratti di via Broletto, Ponte Vetero, Mercato, (Pontaccio), corso Garibaldi, è uno dei più antichi di Milano, probabilmente ricalcante una via glareata preromana, che collegava Milano al nord attraverso Como e, da una serie di biforcazioni che iniziavano all’altezza del Ponte Vetero, raggiungeva il Seprio o più semplicemente antichi insediamenti come quelli di Dergano e Affori.

Due toponimi sono rimasti a segnalare la presenza di due attraversamenti dei fossati urbani: Ponte Vetero, allo sbocco di via Broletto, e Pontaccio, all’imbocco di corso Garibaldi.

Esistono testimonianze di presenze insediative nel sestiere già nella seconda Età del Ferro, ma scarsamente considerate: in via S. Protaso si rinvennero negli scavi per la Banca Popolare di Novara degli “oggetti” non meglio precisati. In tutta la zona dobbiamo lamentare una inveterata e gravissima assenza di documentazione (o anche segnalazione) di reperti, che supponiamo deliberata, nel corso della costruzione ottocentesca e anche più recente degli edifici ai due lati di via Broletto. Trattandosi di un’arteria vecchia di 2500 anni, la lacuna è quanto mai grave.

Le mura urbiche: ipotesi molte, poche certezze

Le mura di una città sono un organismo vivo, come la pelle che riveste i nostri corpi: si allargano e si stringono in continuazione, infine si sfaldano. Per gli effetti dell’aberrazione temporale, si può creare l’idea che debbano comunque lasciare una traccia della loro esistenza, ma non è così. Basti ricordare a Milano l’ingloriosa storia dei Bastioni spagnoli: appena costruiti vennero usati come cave edilizie e servirono solo a far pagare dazi e gabelle, poi sono scomparsi senza quasi lasciar traccia, fagocitati dai quartieri edilizi lungo la circonvallazione dei tram 29-30.

Anche la funzione delle mura cambia: proteggono inizialmente con un solco sacro (pomerio) dalle forze oscure, dall’inciviltà, dai lemuri; stabiliscono successivamente una proprietà territoriale, come i muri e le porte di casa propria, perciò inviolabile per diritto; nei momenti di pericolo rallentano in caso di attacco l’accesso agli invasori; proteggono l’economia interna con il pagamento di dazi per le derrate straniere e garantiscono il prelievo fiscale; contribuiscono a formare l’identità dei cittadini: dentro urbani, fuori “ariosi”, campagnoli; diventano fortezza esse stesse, a volte prigioni; si trasformano in viale di passeggio alberato; finiscono spesso per diventare area appetibile per le speculazioni edilizie; spariscono, lasciando l’organismo “senza pelle”, per cui si torna a parlare di dazi, di delimitare, contingentare l’afflusso di merci, veicoli e persone.

L’analisi dell’evoluzione urbanistica del Sestiere di Porta Comasina offre lo spunto per osservare proprio queste trasformazioni, ricorrendo in molti casi all’immaginazione, alle ipotesi, alle deduzioni, perché Milano ha cambiato spesso pelle, ma per diversi motivi non ne ha quasi conservato traccia.

Sestiere di Porta Comense, Cumana, Comacina, Comasina o Garibaldi?

L’antichità del Sestiere milanese qui analizzato si ritrova nell’evoluzione del suo nome. Innanzi tutto, il nome gli deriva dalla Porta, che a sua volta lo prendeva dalla direzione principale della strada che vi si apriva. In questo caso, essendo la direzione principale Como, la porta era detta dai Romani Comensis. Non dimentichiamoci però che il celtico sussisteva accanto al latino, per cui già in età romana i milanesi chiamavano questa porta “Comacina”, allo stesso modo in cui il lago era Comacino (Itinerario d’Antonino) e l’isola del lago è ancora “Comacina”. E’ lo stesso adeguamento linguistico che si ritrova nella Porta Vercellense, trasformata in Vercellina[1].

Nel medioevo tutto ciò che aveva a che fare con Como divenne “Cumano”, per cui troviamo “Porta Cumana” nei documenti, accanto all’antica dizione Comacina, trasformata ai nostri giorni in “Comasina”, che dà il nome a un quartiere della periferia nord.

Consapevoli del rischio di malinteso geografico, noi continueremo a usare il nome recente di “Porta Comasina” per tutto il Sestiere, tralasciando quello più corretto di Porta Comacina.

Resta da stabilire l’accento: Comàcina o Comacìna? Noi propendiamo per il secondo, appartenendo il primo al medioevo, quando i Maestri Comàcini divennero protagonisti dei cantieri edilizi dell’intera penisola. In questo caso si trattava di magistri cum macinis, più che di comaschi, anche se la loro area di provenienza era quella ticinese.

Persa l’identificazione con la sua arteria principale, ora la zona è conosciuta come “Porta Garibaldi” e a ricordo del suo nome primitivo è stato aperto un troncone di strada oggi chiuso al traffico, pomposamente detto “corso” Como.

 

L’età cesariana

Esistevano le mura gallo-romane?

Con la Lex Iulia del 49 a.C. e l’iscrizione alla tribù Oufentina come collegio elettorale, l’agro milanese venne misurato in centurie e lo stesso municipio dovette ricevere come prassi un simbolico pomerio che ne sacralizzasse il territorio. Sappiamo come la vita romana fosse scandita da ben precisi rituali e come la distinzione fra dentro e fuori la città fosse irrinunciabile, non da ultimo per le sepolture, tassativamente esterne al pomerio. Poteva trattarsi di un semplice solco o di una palizzata o di un muro a sacco, opere che molto difficilmente lasciano una traccia nei secoli, ma il perimetro municipale doveva essere consacrato.

Milano, non diversamente da tutti gli altri municipi, dovette quindi avere una demarcazione con funzione giuridico-amministrativo-sacrale, che probabilmente delimitava con buona approssimazione la superficie di una centuria di 23 x 23 actus (un quadrato di 807 m di lato), orientata secondo gli assi principali NS-EO. Questi assi non sono naturali per Milano che, pur essendo in pianura e sgombra da eminenze collinari o laghi, è orograficamente “inclinata” e segnata dal fluire dell’Olona e dal Seveso, oltre che da un rigagnolo di risorgive, che favoriscono un orientamento trasversale, per intenderci quello di via Manzoni- via S. Margherita.

Il perimetro del pomerio

Fatte queste premesse, la nostra ipotesi circa le “mura” gallo-romane nella zona settentrionale del municipio vedrebbe il loro inizio in via Bossi e l’apertura della Porta Nord o Pretoria all’altezza dell’attuale chiesa di S. Tomaso in terramala. Le “mura” sarebbero proseguite a ovest fino alla Porta Giovia, in via Camperio-S. Giovanni sul Muro, mentre a est non ci dovrebbero essere state demarcazioni, perché si trovavano il perimetro del santuario (estraneo al diritto romano) e più esternamente il letto del Seveso. Il pomerio doveva riprendere in via S. Raffaele per lambire a sud il letto del Seveso e il laghetto in via Larga. Ricordiamo che in via Agnello sono state trovate sepolture del I sec. d.C., che confermano come questa zona fosse fuori le mura.

Insistiamo a notare che, essendo la demarcazione verso l’esterno solo simbolica, non era necessario scavare un fossato protettivo né tanto meno incanalarvi l’acqua e le porte urbiche potevano essere aperture sacralizzate realizzate in legno.

Il santuario celtico

Il cerchio giallo evidenzia la posizione del medhelanon degli InsubriPerché le mura gallo-romane si sarebbero fermate in via Bossi? Perché bisogna fare i conti con la presunta elisse celtica, il santuario che potrebbe rappresentare il nucleo di fondazione di Mesiolan-Mediolanum, con il quale confinava il sestiere di Porta Comasina. (Vedi la pagina sul Medhelan in questo sito)

Dal Cordusio fino al Ponte Vetero, il lato orientale del sestiere confinava con questo ipotetico primitivo nucleo, diciamo ipotetico perché anche in questo caso non sono emerse finora tracce materiali che ne facciano ammettere l’esistenza (se non si vuole considerare come indizio probante l’assenza di edificazione fino al I secolo d.C. all’interno di tutta l’area, mentre l’esterno del suo perimetro è tutto edificato).

All’estremità settentrionale dell’elisse (attuale piazzetta Giordano Dell'Amore) si trovava un’altra costruzione di notevole rilevanza, ma della quale si sono perse le tracce archeologiche: la chiesa di S. Giovanni alle Quattro Facce, costruita secondo la tradizione locale sull’arco quadrifronte di Giano.

L’arco di Giano quadrifronte e il calendario giuliano

La chiesa di S. Giovanni 4 facce nel Settecento

Allo sbocco di via del del Lauro si trova una via con piazzetta un tempo chiamata di S. Giovanni alle Quattro Facce, poi via Oriani e oggi via Arrigo Boito, mentre la piazzetta è dedicata a Giordano Dell'Amore. Qui si trovava fino alle soppressioni giuseppine del 1786 la chiesa di S. Giovanni alle Quattro Facce, già così intitolata nelle carte del X secolo. Progetto del Richini per la La chiesa di S. Giovanni 4 facceCome tutta la via del Lauro (detta nel medioevo via publica), apparteneva ai Da Baggio. Qui una pervicace tradizione locale voleva che si trovasse il tempio di Giano quadrifronte, esaugurato in età cristiana in S. Giovanni Battista. Galvano Fiamma scrisse di un Giano quadrifronte trovato nelle mura di Porta Comasina, Giulini ricordava che l’immagine di Giano era scolpita nella fronte della chiesa, ricostruita nel 1631 da F. M. Richini.
Gli storici contemporanei si sono mostrati molto scettici nell’accogliere questa tradizione[2], che invece ha un suo senso e una certa probabilità di corrispondere a eventi realmente accaduti.

Ammesso che qui vi fosse stato un arco romano, si sarebbe trovato all’estremità settentrionale del santuario celtico. Per visualizzarlo, possiamo servirci del confronto con l'Arco quadrifronte di Settimio Severo a Leptis Magna e supporre che fosse simile a quello di Milano.

Arco quadrifronte di Settimio Severo a Leptis Magna da M. Wheeler, Arte e architettura romana, p. 155

L’occasione potrebbe essere stata la stessa che aveva promosso lo scavo del pomerio, ovvero l’ingresso ufficiale del capoluogo degli Insubri nel mondo romano, con in aggiunta un quid che giustificherebbe la presenza di questo arco proprio ai limiti del santuario di fondazione della città.

Con Cesare si era imposto dal 46 a.C. il calendario solare, detto “giuliano”, che rappresentava per gli Insubri una vera rivoluzione (forse ancora più sensibile di quella politica) rispetto alla loro sensibilità urania, basata sul calendario lunare. Per motivi di praticità, le quattro feste celtiche di Samoin, Imbolc, Beltane e Lugnasad vennero fissate alle calende di novembre, febbraio, giugno e agosto, trascurando il fatto che le feste fossero legate alle levate eliache degli astri protettori della festa. A ricordo di tale rivoluzione astronomica sarebbe stato plausibile innalzare un arco a Giano, nel punto che indicava il tramonto del sole al solstizio d’estate. S. Giovanni Battista, il patrono della chiesetta che dal medioevo si trovava sul luogo del presunto arco, veniva festeggiato proprio al solstizio del 24 giugno.

Riassumendo: una leggenda bella e ancora di forte presa sul nostro immaginario di moderni milanesi; nessuna prova archeologica o documento di storici romani; scetticismo negli storici di Milano più accreditati.

 

Le mura augustee

Con l’impero di Ottaviano Augusto cambiò radicalmente la concezione delle mura e dell’impianto urbano in generale. Ogni città romana doveva uniformarsi a un unico modello urbanistico, avere un foro, centri di svago in muratura, edifici di rappresentanza e di culto imperiale, uffici amministrativi; le città dell’impero dovevano essere talmente simili che un cittadino romano poteva girare ovunque e sentirsi a casa sua (mutata mutandis quello che succede oggi nei villaggi turistici, tutti rigorosamente dotati delle stesse strutture).

Le mura non erano più solo simboliche, ma in pietra, protette da un fossato possibilmente navigabile per far defluire il traffico delle merci pesanti dall’interno della città, e da un antemurale, un solco ugualmente difensivo nei confronti di quei poveretti costretti ad abitare fuori mura a causa degli sfratti del centro storico, adibito a rappresentanza.

Si scavò un fossato largo 13 metri e navigabile. Venne da sé che l’orientamento doveva assecondare l’orografia ed essere funzionale a raccogliere l’acqua dai fiumi (a carattere torrentizio) che lambivano la città, per cui si dovette abbandonare l’orientamento del pomerio gallo-romano (che non venne però esaugurato, rimanendo come tracciato) e si costruì un rombo che includesse il precedente quadrato di 24 actus.

A interrompere la regolarità del rombo rimase sempre il santuario: Ottaviano aveva decretato la fine del mondo celtico e la chiusura delle scuole druidiche, ma la mentalità romana non permetteva di urtare in qualsiasi modo le divinità di altri pantheon, per cui sembra fuori discussione che si ignorasse la presenza del santuario tagliandolo in due con il passaggio delle mura (via Filodrammatici) e lo scavo di un fossato. Il confine orientale rimase così inalterato, mentre a sud si procedeva al prosciugamento del laghetto e alla costruzione di nuove mura, tuttora visibili.

Seguendo la necessità di far arrivare l’acqua al fossato, si dovette procedere nella zona nord allo spostamento delle mura lungo via del Lauro, dove proseguivano a ovest verso via Sacchi. Dato il dislivello, il fossato riceveva a est del Ponte Vetero l’acqua dal Seveso (sono da rintracciare le canalizzazioni) e a ovest dal Nirone, che giusto in via Sacchi si biforcava.

Di questa cortina muraria di età augustea abbiamo resti un po’ ovunque nella città. Nella zona settentrionale ne è emersa una porzione nel corso degli scavi nel 1958-1961 per le fondamenta del palazzo tra via del Lauro e via Bossi[3], che aveva permesso di riconoscere:

a)     lo spessore e la struttura delle mura (cm 160 in media). Rispetto ai restanti tratti di mura riscoperti e analizzati, ci sono delle discrepanze, la cortina risulterebbe essere qui più sottile.

Leggiamo da Tocchetti Pollini, La prima cerchia di mura: “Prive di vere e proprie fondamenta, le mura presentano alla base una platea di laterizi, alta cm 30 e larga cm 210, composta regolarmente da quattro filari di mattoni dalle dimensioni approssimative di cm 40 x 20 x 7, legati da sottili strati di malta grigia, sabbiosa e ben impastata, alti cm 0,5. Su questa larga platea s’innalza la muratura, spessa cm 185 circa; la differenza di spessore tra le due parti, platea ed elevato, è di solito distribuita sui due lati in due riseghe, larghe cm 15-17 circa. La struttura dell’elevato è nella cosiddetta opera a sacco: ovvero articolata in due paramenti esterni collegati da un nucleo interno (…) Il paramento esterno è organizzato principalmente in due parti: la prima, inferiore, si presenta come un robusto basamento di blocchi parallelepipedi in pietra di Saltrio o di Viggiù (…), sopra questo basamento di pietra, il paramento è composto da laterizi di cm 42,5 x 20 x 7 circa, e si presenta articolato su vari piani (…). Il paramento interno, rivolto verso la città, risulta invece composto omogeneamente da spezzoni irregolari di pietra incuneati nel nucleo e legati da malta sovrabbondante, secondo la tecnica nota come “opera incerta”; non compare traccia dei piani che articolano il paramento esterno”.

 

b)     la larghezza del fossato (m 13), scavato nella porzione di via del Lauro che inizia in via Boito, orientato verso via Sacchi;

c)     il muro di rivestimento della sponda del fossato verso la campagna (era in ciottoli, spesso m 1,25 e alto circa m 4).[4]

Uno schema ancora aperto

Sebbene gli archeologi diano per scontato che le mura augustee nel tratto settentrionale passino per via Cusani e da via del Lauro proseguano per via Filodrammatici, il modello della pianta dovrebbe essere messo in discussione. Primo perché non si è risolta la questione del santuario celtico, secondo perché non si è mai trovata la Porta Comense allo sbocco di via del Lauro.

Come unico indizio abbiamo il Ponte Vetero: alla fine dell’Ottocento, in occasione dei lavori di manutenzione delle fognature, emersero due testate del Ponte Vetero allo sbocco di via dell’Orso, tra via Cusani e via Sacchi[5]. La via Sacchi sembrerebbe essere nata, come via del Lauro, dal fossato delle mura augustee. Secondo questa ipotesi dovrebbero esserci i resti di una porta all’altezza dei numeri 5-7.

Come si suol dire, le domande sono più importanti delle risposte, e ignorando la possibile esistenza dell’elisse dall’altra parte della strada, gli archeologi mancano di porsi la domanda: le mura si innestavano a questo punto nel perimetro di un’altra struttura in via Boito (magari indagata in occasione di scavi precedenti) o proseguivano inequivocabilmente per via Filodrammatici?

Nel 1921, quando si rinvennero due spezzoni di mura in via Filodrammatici presso una fognatura, la soprintendente dell’epoca Alda Levi Spinazzola avanzò l’ipotesi che potessero appartenere alle mura urbiche, ma alla scoperta non fece seguito un’adeguata analisi[6]. I dubbi sembrarono dissolti nel 1952, quando in via Filodrammatici emerse un tratto di 14 m di muro, che passava sotto il portico del teatro della Scala. Venne subito considerato come la riprova che le mura augustee passavano per questa via, ma Frova dovette smentire questa interpretazione: si trattava di un muro in conglomerato, di indefinibile attribuzione funzionale[7]. Infine, durante gli scavi del 1979 per la biglietteria della Scala, non apparve alcuna costruzione e men che meno la Porta Nuova, cosa che avrebbe dovuto eliminare definitivamente l’ipotesi che le mura augustee passassero per via Filodrammatici. Neppure il rinvenimento di sepolture del I secolo d.C. in via Agnello servì a cancellare l’ipotesi Filodrammatici, perché una volta consolidatasi una tradizione, è dura a morire…

Riassumendo i dubbi circa la tradizionale visione delle mura augustee:

-        rispetto all’andamento delle mura meridionali, tenuto conto dell’apporto del Nirone e del Seveso, che orientamento poteva aver ricevuto il tratto settentrionale di mura?

-        Attraverso quali canali l’acqua del Seveso raggiungeva il fossato di via del Lauro?

-        Perché il Nirone venne biforcato all’altezza dell’attuale via Sacchi?

-        E’ plausibile che in tutti questi anni non sia emerso alcun reperto nell’area Bossi-Filodrammatici-Boito che ci illumini circa il suo uso prima del medioevo?

L'ellisse e le mura nell'ipotesi corrente degli archeologi

L’antemurale o fossato esterno

E’ probabile che l’antemurale delle mura augustee, rimasto poi invariato anche nell’ampliamento successivo, si trovasse dove vennero costruite mura e fossato in età medievale. Qui a Porta Comasina l’antemurale doveva passare al Pontaccio. E’ quindi molto probabile che la grande quantità di lapidi del I secolo d.C. rinvenute nelle sponde del fossato e nella Porta medievale si trovassero qui almeno dai rinforzi del sistema difensivo realizzati nel III sec. d.C.

Tra via dell’Orso e via Pontaccio, ai due lati della strada, si dovevano trovare le abitazioni dei cittadini estromessi dalla città, ma ancora facenti parte. C’erano probabilmente le piccole manifatture artigiane, i mulini, casette con ortaglie e piccoli tempietti. Niente di tutto ciò è stato registrato dagli innumerevoli scavi che si sono succeduti nei secoli, ma la sensibilità archeologica è una conquista molto recente e non ancora consolidata.

Teniamo conto che, nei secoli di grande pericolo per le invasioni barbariche, questi abitanti esterni erano quelli che per primi assorbivano l’urto, rischiando di vedere incendiati e saccheggiati in continuazione i loro beni.

L’aula di via del Lauro

Negli scavi per le fondamenta del palazzo di via del Lauro 7 venne in luce un’aula ricavata nel terrapieno delle mura augustee, che rinforzava tramite due robusti speroni di sostegno. Misurava 15 m x 11,60 m, con muri spessi 1,20 m in opus listatum (fasce di ciottoli alternate a uno o due filari di mattoni) e un’altezza di 3,84 m. All’interno il piccolo edificio era diviso in pilastri che sorreggevano una volta, terminante in una piccola un’abside isolata rispetto al resto dell’edificio; l’ingresso era a est. Come ubicazione, si trova strategicamente tra il supposto pomerio gallo-romano, il santuario celtico e le nuove mura.

La datazione, fatta in base alla tecnica edilizia, si colloca all’ultimo quarto del I secolo, all’incirca tra Vespasiano e Nerva. Nessuna ipotesi è stata avanzata circa il motivo della sua costruzione.

L'aula di via del Lauro 7

 

Il rinforzo delle mura nel III secolo

L’incursione degli Alemanni

L’impero sperimentò nel III secolo quello che oggi chiamiamo 11 settembre: l’attacco al cuore dell’impero. Fino a quel momento Roma, in espansione, aveva conquistato territori su territori, ora da quei confini ritenuti sicuri sciamavano popolazioni agguerrite che, con la forza della disperazione, penetravano le difese dell’impero. Da un secolo Roma tentava di tenere fuori e di soggiogare con i metodi tradizionali del divide et impera queste popolazioni, ma nel III secolo le incursioni si fecero sempre più frequenti, indebolendo profondamente le difese immunitarie dell’organismo imperiale.

Gli attacchi continui gettarono nel caos le legioni che dovevano fronteggiarli e materializzarono il pericolo più grave, la malattia degenerativa: l’anarchia militare.

Durante l’impero di Publio Licinio Valeriano (253-260) e del figlio associato al trono Gallieno (253-268) ogni comandante di provincia pensò al fai-da-te e si proclamò imperatore, cioè comandante supremo delle sue legioni. In tutto l’impero si ebbero 30 imperatori! La manovra del divide et impera stava funzionando a favore dei barbari.

Gli Alemanni, una delle tante popolazioni germaniche che si confrontavano con Roma, invasero la Retia e, dilagando per la pianura, si spinsero fin sotto le porte di Milano. Gallieno li respinse nel 259 e la città gli dedicò un arco di trionfo (non sappiamo dove), ma cosa importante per il nostro discorso, i cittadini milanesi capirono che era arrivato il momento di difendersi bene, perché il nemico era fuori dalla porta. Le testimonianze archeologiche documentano l’abbandono di tutti i quartieri esterni alle mura e il conseguente riversamento all’interno della città[8]. Mentre queste devastazioni sono emerse con evidenza nelle zone investigate dalle università con mezzi moderni, in questa zona non si fanno più scavi e studi da molto tempo, per cui possiamo solo dedurre che per la Porta Comasina gli Alemanni non avessero fatto eccezione.

Manlio Acilio Aureolo e l’assedio della città

Manlio Acilio Aureolo, generale di Gallieno, comandava i nuovi reparti di cavalleria voluti dall’imperatore. Nel 267 il panico della popolazione, la sfiducia verso l’imperatore Gallieno (considerato dagli storici contemporanei imbelle ed effeminato), un’errata valutazione politica (lo diciamo noi a posteriori) o la semplice arroganza, lo spinse a prendere una decisione estrema: si dichiarò imperatore.

Gallieno era impegnato nei Balcani contro i Goti, ma alla notizia che Aureolo voleva impadronirsi di Roma, lasciò subito i Goti e si scontrò vittoriosamente contro Gallieno, che si rinserrò a Milano. Gli storici non ci dicono per chi parteggiasse Milano, ma come possiamo immaginare i cittadini saranno stati divisi in almeno quattro partiti maggiori e altrettanto minoranze: pro Gallieno, pro Aureolo, contro tutti e due, pro un tiranno di altra provincia, mentre fra i partiti minori ci saranno stati nostalgici della repubblica, la resistenza insubrica, fanatici religiosi, ecc.

Zonara (Annales, XII, 25) ci racconta un episodio “giallo-rosa” relativo a questo assedio. Mentre Gallieno si scontrava in campagna con Aureolo, gli assediati si accorsero che l’accampamento imperiale era sguarnito e che la moglie di Gallieno, Cornelia Salonina, sarebbe stata una facile preda e un ottimo ostaggio per trattare un risarcimento in cambio della rinuncia del titolo imperiale. Il rapimento venne sventato proprio sotto la tenda imperiale e quindi le trattative con ostaggio svanivano. I generali che si trovavano dalla parte sbagliata, quella di Aureolo, dovettero temere per la loro pensione, a meno di non trovare chi poteva essere il “terzo” fra i due litiganti e godere con lui. Venne scelto un generale di Gallieno, Marc’Aurelio Claudio, incaricato di capeggiare una congiura che fosse in grado di eliminare sia Gallieno che Aureolo. Per primo toccò a Gallieno, il ché permise a Claudio di essere acclamato imperatore dalle legioni e di inviare la richiesta di ratifica a Roma. Il senato approvò e il nuovo imperatore si chiamò Claudio II detto il Gotico. Uno sciame di consiglieri si abbatté su Aureolo: conveniva arrendersi, trattare, no, tentare il tutto per tutto (la Fortuna arride agli audaci, memento audere semper).

Secondo lo storico Trebellio (Vita Claudiu) Aureolo tentò effettivamente di venire a patti col nuovo imperatore, in ciò spinto dagli stessi suoi generali che si erano già accordati con Claudio, che fece una mossa poco accomodante: respinse ogni accordo, considerando la posizione del rivale simile a quella di un rapinatore di mezza tacca che si rinserra in una banca. Ad Aureolo non restò che uscire dalla città per dare battaglia campale, ma venne assassinato a Pontirolo d’Adda dai suoi stessi generali nell’inverno 268[9].

Di questi avvenimenti veramente drammatici ci è rimasta testimonianza in una torre, rinvenuta e conservata nei sotterranei di via del Lauro 7. La torre era rettangolare (m 8 x 7 m), si ergeva su uno zoccolo costituito dalle macerie di edifici anche pregiati del I secolo, per lo più tempietti votivi e funerari, collocati molto probabilmente lungo la strada verso il Seprio (area dell’attuale Castello e Parco) e incendiati durante le scorrerie degli Alemanni. La tecnica costruttiva lascia trasparire la fretta con cui vennero effettuati i lavori di ripristino e rinforzo delle mura.

Alcuni pezzi sono stati conservati per la loro rilevanza artistica:

  • il timpano di tempietto o di edicola funeraria, larghezza m 5,20, altezza m 1,80 (conservato in via del Lauro 7)
  • alcune lapidi e are, tra cui quella di M MATUTUNIUS MAXIMUS del III secolo, trovata sotto casa Milesi[10]
  • una cornice di trabeazione di età flavia
  • una statua acefala di giovane togato (Museo Archeologico), sulla quale è opportuno soffermarsi per il suo valore storico-artistico.

Frammenti esposti in via del Lauro 7Frammenti esposti in via del Lauro 7

 

 

 

 

 

 

 

Trabeazione da Mirabella Roberti, Milano romana, fig. 44 p. 50

Statue togate

Una statua di giovane togato e un frammento di statua togata virile si trovarono nelle macerie usate nel III secolo per il rinforzo del fossato. Un’altra statua togata di adolescente venne trovata negli scavi di via Cusani, per cui si suppose che le tre statue provenissero dallo stesso edificio distrutto dagli Alemanni.

Mentre sul frammento di statua virile (conservata in Soprintendenza) si può solo affermare che, stilisticamente, apparteneva all’età di Augusto, le statue di giovinetti, al Museo Archeologico di Milano, ci sono pervenute solo acefale e quindi sono state oggetto di studi approfonditi.

Statue togate di adolescenti, da G. Sena Chiesa, Problemi di cultura artistica, Milano in età imperiale I-III secolo, p. 72

Si tratta di due adolescenti abbigliati con il nuovo tipo di ampia toga imposto da Augusto per le cerimonie ufficiali[11]. Hanno alcuni attributi interessanti: uno scrinium deposto ai piedi in posizione speculare, tanto che ha fatto supporre per motivi di simmetria la collocazione delle due statue giovanili ai fianchi di quella virile; portano la bulla con la ciocca di capelli, che li designa come adolescenti. L’esame stilistico ha rilevato che le due statue non appartengono allo stesso periodo: quella di via Cusani è più “calligrafica”, con il fitto panneggio reso senza volumetria, ed è stata assegnata al tempo di Tiberio, mentre la statua di via del Lauro occupa uno suo volume nello spazio ed è anatomicamente più rilevante, con la gamba sinistra che si rivela sotto il panneggio ricco e fluente; è stata assegnata alla successiva età di Claudio[12].

Poiché formano un tutt’uno con il frammento di statua virile togata, si suppone che provenissero da una prestigiosa cappella funeraria all’interno del cimitero lungo la via per il Seprio.

 



[1] Per questa disanima filologica cfr. Giorgio Giulini, Delle mura di Milano, Cisalpino-Goliardica, rist. anast. 1972, p. 62

[2] Mezzanotte-Bascapé, Milano nell’arte e nella storia, Carlo Sestetti, 1968, p. 152.

[3] Ingresso in via del Lauro 7.

[4] M. Mirabella Roberti, Milano romana, p. 26

[5] NSc 1877, 78; Bull. Cons. Arch., 1888, 212 e 1892, 55; ASL XX, 1893, 2, 495

[6] Umberto Tocchetti Pollini, La prima cerchia di mura, ALA 1983, p. 1

[7] A. Frova,Trovamenti e scavi dal 1950 al 1953, in “Trovamenti e scavi per la Forma Urbis Mediolani”, IV, Milano 1955. Lo disse appartenere a un lavoro di rinforzo o di restauro di incerta datazione.

[8] E.A. Arslan, D. Caporusso, I rinvenimenti archeologici degli scavi MM3 nel contesto storico di Milano, in Scavi MM3, 1982-1990, pp. 352-358.

[9] L’episodio è descritto dagli storici Zosimo (Historia, I, 41) e Zonara (Annales, XII, 26).

[10] Casa Milesi in via del Lauro 6. (Vedi la pagina su Bianca Milesi)
Il Mommsen (C.I.L. 5929) la attribuisce all’età di Diocleziano, quindi apparterrebbe a un restauro successivo del fossato.

[11] P. Zanker, Augusto e il potere delle immagini, Torino 1989, p. 175

[12] Gemma Sena Chiesa, Problemi di cultura artistica, in Milano in età imperiale I-III secolo, Atti del Convegno di studi, 7 novembre 1992, Milano, pp. 71-73

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Ultima modifica: martedì 31 ottobre 2006

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